Dentro quel mondo in transumanza, che abbandona la propria terra con il miraggio dell’opulenza negli occhi, ci stanno tante storie. La stragrande maggioranza fugge via da teatri di guerra o da condizioni economiche miserrime. Dei loro problemi e delle aspettative ne abbiamo parlato con Massimo Rizzuto, esperto di politiche pubbliche e sociali e parte attiva nel fenomeno dell’immigrazione
di Antonino Cicero
Quel che è certo è che non si tratta più di una emergenza. Quando subentra il ritmo della metodica, ordinaria cadenza di un fenomeno umano che inanella pure corpi morti sulle banchine siciliane come grani del rosario, non è più questione d’emergenza. Dentro quel mondo in transumanza, che abbandona
la propria terra con il miraggio dell’opulenza negli occhi, ci stanno tante storie, certo non tutte uguali, certo non tutte ugualmente tragiche. Ma, scostate le mele marce, la stragrande maggioranza fugge via da teatri di guerra o da condizioni economiche miserrime, approdando tuttavia in una terra, l’Italia, che non è più “Lamerica” di qualche anno fa. E dietro la disperazione, la violenza e la tratta di esseri umani, c’è il business, dall’altro lato del Mediterraneo. E forse pure qui azzarda qualcuno, anche se in fin dei conti la ricaduta economica sul territorio, pur indiretta, rimane. Qualcuno, a denti stretti, ricorda tuttavia come in questo dramma umanitario gli interessi dei vari attori impegnati a diverso livello non sempre collimino.
I migranti 2.0 non sono sprovveduti. Molti hanno un alto grado di istruzione, conoscono le lingue, hanno dimestichezza con le tecnologie informatiche.
«La prima cosa che chiedono – ricorda Massimo Rizzuto, esperto di politiche pubbliche e sociali e parte attiva, in questi mesi, nel fenomeno dell’immigrazione e degli sbarchi e più volte sulle Madonie – è internet. Sono sprovvisti anche delle scarpe a volte, ma il loro unico pensiero, appena sbarcati, va ad uno smartphone e a un collegamento». Non per vezzo modaiolo certo, ma perché è il loro unico modo per mantenere i contatti con quanti stanno al nord dell’Italia. «Prima di partire – continua Rizzuto – hanno contezza di dove vogliono andare e individuano le persone di riferimento nelle varie città europee, alcuni regolarizzati, altri clandestini».
Hanno liquidi con loro che tengono legati al proprio corpo come l’ultimo pezzo di vita che gli rimane e che difendono come possono dentro i barconi della speranza, giungle dove ogni regola si annulla. Li attaccano al petto avvolgendosi nella pellicola trasparente per alimenti «perché è resistente all’acqua e perché è l’unico modo che hanno per controllarli e salvaguardarli» continua Rizzuto. Che aggiunge: «Molti in Libia, prima di partire, sono stati percossi e tenuti in cassettine anguste e fatti uscire solo per i bisogni corporali e rinchiusi nuovamente. Ricordo anche la storia di un gruppo di 46: 3 mesi in mezzo al deserto e alla fine arrivarono solo in 3. E poi bambini morti e gettati in acqua sotto gli occhi del genitore…». A Pozzallo, chiosa Rizzuto, «le presenze sono diminuite perché i bagnanti hanno paura di imbattersi nei cadaveri durante le loro nuotate». I commenti servono a poco.
L’ARTICOLO INTEGRALE SU ESPERO IN EDICOLA