L’ebola africana raccontata da una giovane madonita

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All'asilo, con maestre e alunni e Fatmata tra le braccia di Veronica
È tempo di fermarsi. Veronica Sabatino, 28 anni, ha pensato questo voltando l’angolo della hall, in albergo. «Dopo la laurea avevo trovato lavoro nel settore turistico, ma non mi sentivo soddisfatta; volevo fare qualcosa di diverso, realizzare un sogno…». Fa una pausa e poi esplode: «Andare in Africa!». Dalla Svizzera, dopo 14 anni, è volata dritta in Sicilia con i genitori, a Castellana Sicula, il paese della madre. Studi linguistici, laurea in scienze del turismo culturale, l’incontro con l’Engim. «Avevo voglia di impegnarmi in un progetto umanitario, allontanarmi dal business turistico, dare un piccolo contributo, essere utile…» continua Veronica. Che aggiunge senza incensamenti: «Ho sempre avuto un forte senso volitivo». Destinazione: Sierra Leone, dove oggi c’è l’ebola che fa paura e miete vittime, tra disinformazione, scarsa informazione e superstizione. E non stanno messe bene neppure Guinea, Nigeria e Liberia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato nei mesi scorsi che si tratta dell’epidemia più grave degli ultimi 40 anni.


«Ho saputo che l’Engim partecipa al progetto del Servizio Civile Nazionale – riprende Veronica – e tra “le sue proposte” c’è anche l’Africa, la Sierra Leone. Conoscevo la sua posizione, un po’ della sua storia, della guerra dei diamanti… e ora, dopo questi mesi trascorsi lì, posso dire che la Sierra Leone mi è entrata nel cuore!» Il mal d’Africa lascia tracce indelebili. Insieme a lei, il marzo scorso, in aeroporto, altri 3 ragazzi: Francesca Testa, piemontese, 26 anni, laureata in matematica e Stefano Nalon, veneto, 21 anni, già volontario in Africa, diretti a Lunsar, mentre Federica Romano, 20 anni, della Basilicata «e io siamo andate a Kissy, periferia di Freetown. Fin dall’inizio dicevano che la situazione a Kissy non sarebbe stata facile… Abbiamo trascorso qualche giorno a Lunsar insieme agli altri volontari e a Gerald, sierraleonese che lavora per l’Engim. Arrivate a Kissy ci siamo sistemate in una casa all’interno della missione e quel posto è diventato “casa”» ricorda Veronica.

«Ogni giorno – sottolinea –, ogni singolo giorno, imparavo cose nuove». Le emergenze sono tante lì, in quel sud. «A Kissy c’è tanto lavoro, ci sono diverse scuole che avrebbero bisogno di un supporto. Ma non puoi essere presente in tutto… Così – continua Veronica – parlando con i padri giuseppini abbiamo deciso che avrei dedicato la maggior parte del tempo all’asilo e alla Vocational, la scuola professionale». Ritmi precisi, in mezzo a tanta umanità. «La mattina – dice Veronica – andavo al Kindergarten, come supporto agli insegnanti. In questo asilo ci sono quattro classi e in tutto l’istituto circa 100 bambini dai 3 ai 6 anni». Le scuole sono templi, specie in quei luoghi dove apprezzi ciò che hai e hai contezza di ciò che non possiedi. E se ne fa tesoro. «Qui imparano a scrivere, i numeri, a fare lo spelling, giocano, imparano a parlare inglese. I primi tempi era difficile comunicare con loro, perché molti parlano solo krio, un misto di inglese e creolo. Tante volte – ricorda Veronica un po’ divertita – venivano da me e iniziavano a parlare ininterrottamente, ma non riuscivo a capirli. Fortunatamente, col tempo, ho iniziato a capire un po’ la lingua locale, ma preferivo sempre l’inglese, sebbene in alcune circostanze non potevo farne a meno e “balbettavo” il krio…».

Insegnava anche informatica un giorno a settimana «mentre il pomeriggio lo dedicavo ai ragazzi della casa-famiglia facendo lezione private». Pausa. «Spesso mi domandavo cosa ci facessi realmente lì, cosa potessi dare io a quei ragazzi, perché è chiaro che non possiamo andare là e pensare di poter cambiare il loro mondo, non siamo nessuno per farlo… Ma nei mesi trascorsi lì mi sono resa conto che confrontarsi, l’essere presente per loro, soprattutto per le piccole cose, fa bene sia a loro che a noi stessi». E qui il tocco magico di una terra ricca di sentimento: «In un contesto del genere vedi persone che danno valore a cose delle quali noi ci siamo “dimenticati”. Non hanno tanto, in tanti cercano di sopravvivere, ma hanno sempre quel buon senso di condividere. Vedevo il senso di condivisione soprattutto all’asilo. Durante la ricreazione, infatti, tutti i bambini prendevano i loro zainetti e in alcuni ci stavano riso, pane con pollo, patate, panino con fagioli, mentre in altri uno striminzito panino con formaggino o del solo pane; altri ancora, invece, non avevano nulla». Ed ecco la conta della condivisione: «Tutti i panini venivano divisi a metà e messi dentro un recipiente così da dare qualcosa a coloro che non avevano niente… Anche i ragazzi della scuola elementare venivano da noi per prendersi la merenda. Il primo giorno a scuola sono rimasta sorpresa nel vederli mangiare; non tanto per quello che mangiavano, ma per come mangiavano. Non lasciavano niente e, soprattutto, non ho mai sentito dire loro “questo non mi piace”. I piccoli offrivano un pezzo del loro panino anche a me e le maestre ogni tanto portavano dei dolci per farmi assaggiare qualcosa di tipico. Volevano farmi conoscere il più possibile casa loro, il loro cibo, la loro musica, la loro cultura, cercando di coinvolgermi in molte cose e invitandomi anche a feste di compleanno ad esempio. Una simile situazione si presentava alla Vocational, questa volta però con ragazzi della mia età. Sono ragazzi curiosi, fanno mille domande ed è bello potersi confrontare con loro».

La Sierra Leone è il volto della contraddizione. Un volto segnato da lacrime color rosso; il rosso del sangue appiccicato ai diamanti. Un sottosuolo ricchissimo; un popolo generoso; una nazione in cerca d’identità. «La Sierra Leone – ricorda Veronica – rientra tra i paesi più poveri al mondo. Non tutti i ragazzi – continua – hanno la possibilità di frequentare le scuole perché i genitori non possono pagare la retta scolastica. Ma per molti non è solo questo il problema, bensì il vivere lontano dalle scuole e dover pagare il trasporto pubblico… quindi tante volte restano nei loro villaggi, nei bush. Qui può succedere anche che alcuni di loro non parlino inglese, ma solo krio o la lingua dell’etnia alla quale appartengono. Non avendo influenze esterne, vivono di tradizioni e di riti; mangiano quello che trovano e in molti casi sono anche increduli alle cose che vengono dette. C’è, purtroppo, anche mancanza di igiene e “curano” molte malattie con l’aiuto di stregoni che, sfortunatamente, non hanno rimedio per tutto».

In Sierra Leone il tempo trascorre lento tra i colori di un paesaggio dai forti contrasti. Una rivolta sociale sullo sfondo. Silenziosa e spesso senza approdi. Le piaghe sono rimandi biblici a una circolarità che segue logiche, a volte, miserrime. Dietro la povertà, a parte lo spirito e le buone intenzioni, c’è l’oggettiva difficoltà di provare a non morire. E di ebola si muore.

«Quando è arrivata la notizia – ricorda Veronica – che c’erano stati dei casi di ebola in Sierra Leone ai confini con la Guinea e la Liberia, molti sierraleonesi non ci credevano; nessuno dava peso alla notizia, anzi molti ridevano, ci scherzavano su e dicevano che nulla di tutto ciò era vero. Ci sono volute settimane prima che qualcuno prendesse coscienza di quello che stava succedendo, ma erano comunque in minoranza». E continua: «Altri pensavano che fosse una manovra del governo per prendere fondi e, ancora, che il virus venisse iniettato negli ospedali di Kenema e Kailahun, dove le persone, per queste ragioni, neppure vi si recavano. Alcuni di loro si affidavano agli stregoni o agli sciamani. Tra l’altro i sintomi iniziali dell’ebola sono simili a quelli della malaria; da un lato i sintomi simili, dall’altro il non credere che il virus era arrivato anche in Sierra Leone, il risultato è stato che la persona infetta non chiedeva aiuto, non sapendo d’esserlo; o pensando che forse fosse malaria finiva per rimanere in casa, infettando cosi anche i familiari, gli amici, i vicini…».

Descrivere un dramma non è mai facile: «Avevano paura di essere portati in uno dei centri dove pensavano, ripeto, che gli venisse iniettato il virus. Altri invece si muovevano con i mezzi pubblici e a piedi all’interno del territorio nazionale…». Mine vaganti. «E tra le persone incredule e la cattiva o assente informazione, soprattutto nei villaggi e nei bush, il virus si è diffuso. Credo che gran parte della popolazione si sia svegliata quando è morto il “dottore eroe”, il virologo Sheik Umar Khan, morto all’età di 39 anni. Dirigeva il centro clinico di Kenema e il ministro della Sanità sierraleonese ha elogiato pubblicamente il suo impegno per “aver speso per mesi oltre 12 ore al giorno nel tentativo di salvare vite umane”. Prima di ammalarsi, Khan aveva in cura un centinaio di pazienti». Devozioni professionali che diventano vittorie umane.

«La sua morte ha fatto capire che questo virus è veramente letale e per non sopravvivere quel medico, vuol dire che la situazione è veramente tragica. Ricordo che il giorno dopo i funerali del “dottore eroe” è cambiato tutto: le persone hanno iniziato ad avere paura, tutti parlavano dell’ebola e nessuno scherzava più sull’argomento; in giro aumentavano i manifesti sui quali sono riportati i sintomi, i numeri di telefono da chiamare, le cose che non si devono mangiare e le immagini di persone infette. A Freetown vendevano anche un dvd sull’ebola, i mezzi pubblici erano sempre più vuoti ed erano pochissimi i bambini che venivano a scuola».

L’ebola fa paura, come l’uomo nero delle favole. Ma qui il lieto fine è difficile da vedere alla fine del tunnel. «Una mattina – continua Veronica – a scuola è venuta da me Fatmata, 5 anni, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Aunty, – che vuol dire zietta, intercala la volontaria madonita – la mamma ha detto che c’è l’ebola in Sierra Leone; ora devo stare molto attenta a quello che mangio, non posso più giocare con i miei compagni come facevo prima, lavarmi sempre le mani… se non sto attenta e prendo il virus posso morire”. E il vescovo ha inviato una lettera a tutti i preti dicendo che in chiesa non si poteva più scambiare il segno di pace dandosi la mano, ma mettendosi la mano destra sul petto e facendo un leggero inchino. Dato che il virus si trasmette tramite fluidi in tutti gli edifici, come scuole, chiese, uffici, aeroporto, bisogna lavarsi le mani con acqua e cloro».

Un’epidemia che taglia via vite. «La situazione peggiora di giorno in giorno. I centri dove vengono ospitate le persone infette sono pieni e iniziano a mancare i materiali di prima necessità, sono aumentati i prezzi di cibo e trasporti pubblici. Le moto possono circolare solo fino a una certa ora del giorno per paura che vengano trasportati casi sospetti da un luogo all’altro e i taxi non possono portare più di tre passeggeri. Sono state chiuse scuole e università, è tutto fermo» sentenzia Veronica scuotendo leggermente il capo. «Per strada, ad ogni posto di controllo, viene misurata la febbre e se si ha febbre si viene mandati subito in uno dei centri. Il governo, qualche settimana fa, ha deciso di aumentare gli stipendi agli infermieri perché molti, per paura di contagio, avevano deciso di non recarsi più a lavoro».

Mesi intensi per Veronica quelli vissuti in Sierra Leone E mentre Federica rientrava in Italia per motivi personali, giungeva una nuova volontaria, Erika Fontana, 20 anni, veneta, «molto in gamba, con la quale ho condiviso i miei ultimi mesi in Sierra Leone» precisa Veronica. E proprio Erika, sul sito dell’Engim, ha raccontato che il problema in occidente sia affrontato «con la stessa superficialità e leggerezza che ho visto in Sierra Leone prima che la situazione sfuggisse di mano. È inammissibile – continua – che una persona sia libera di lasciare la Sierra Leone così liberamente senza prendere precauzioni adeguate, per poi raggiungere il proprio Paese, che sia l’Italia, la Spagna, l’America, o qualsiasi altra nazione. Quando il 10 agosto mi sono diretta all’aeroporto di Lungji per prendere il mio volo per tornare in patria, le procedure che hanno assunto sono state scioccanti da quanto superficiali sono state ed entrata in Europa non ho incontrato alcuna difficoltà, non sono previste procedure particolari per i passeggeri provenienti dalle zone dell’Africa affette da Ebola. Allucinante. Mi ricordo che io e Stefano (l’altro volontario Engim) ci siamo guardati un po’ perplessi. Non capivamo del perché avessimo così tanta libertà di movimento».

«Nei miei ultimi mesi in Sierra Leone – continua Veronica – ho legato molto con i locali: mi sentivo parte di loro. In alcune occasioni però sentivo di essere diversa, soprattutto quando uscivo sola. Le persone per strada mi guardavano e dicevano o poto, o poto che significa “bianco”, ma mi fermavano anche per scambiare due chiacchiere. Quando penso ai modi di interagire dei sierraleonesi mi viene in mente una signora anziana. Stavo andando a comprare le sigarette e la signora anziana mi vide da lontano e mi sorrise, mi venne incontro e mi abbracciò. Sono persone che vivono molto di contatto fisico, danno la mano quando si salutano e mentre parlano si tengono per mano o mettono la mano sulla spalla dell’altro… Se hanno confidenza si abbracciano, ma è difficile che si diano un bacio, tranne in occasioni particolari».

E poi la semplicità infantile: «I bambini mi toccavano i cappelli e anche i peli delle braccia che sono una cosa strana per loro. Mi sono rimasti impressi anche gli odori dei mercati, ma anche i rifiuti gettati per strada e che bruciano tranquillamente nelle “discariche”… E ancora loro, i bambini che per strada, mentre urinavano, chiamavano per salutarmi o l’usanza di mettere i vestiti tradizionali tutti i venerdì (a scuola, negli uffici, nei bar)… e le maestre me ne regalarono pure uno; o, ancora, il ringraziare continuamente senza aver fatto niente». Pausa. «Ecco penso sia questa una delle cose che mi è rimasta più impressa di altre, il fatto che non hanno niente e danno tutto». Il “cuore grande”, come recitano i siciliani, può rasentare a volte l’ingenuità; ma se ce l’hai, non puoi fare a meno di donare. Si illuminano gli occhi di chi dà e di chi riceve e, alla fine, a giostra chiusa, non resta altro di cui andar fieri.

L’emergenza ebola comincia a fare paura. Ha varcato i confini del continente nero e ora che anche i bianchi ne sono entrati in contatto il tam tam non smette di battere il ritmo. Occhio che non vede…

«Parlo ogni giorno con persone della Sierra Leone – dice Veronica – e tutti dicono la stessa cosa: “Abbiamo paura, non solo quando usciamo, ma anche quando siamo a casa; paura di poter essere infettati anche da un nostro fratello, da una nostra sorella”. Non siamo in grado di capire quello che sta succedendo nei paesi colpiti… Anche se i media ne parlano, si ascolta questa notizia come tante altre… Eppure ogni giorno il numero di casi confermati aumenta e per me questi numeri sono volti… Riporto qui le parole di padre Maurizio Boa, missionario dei Giuseppini del Murialdo a Kissy-Freetown: “… questa paura è più forte della paura durante la guerra dei “diamanti insanguinati” finita nel 2002. È un nemico invisibile contro cui siamo chiamati a combattere. La città qui è overcrowded; gente, gente, gente che cerca rifugio e non sa dove trovarlo, che vede il nemico nel fratello, nel vicino, in chi ti ama. Nessuno ti tocca, non accarezzi neanche i bambini… e il nemico avanza invisibile e letale …”.

L’Engim adesso è impegnata in una raccolta fondi per l’emergenza ebola; «da mesi viviamo con ansia la diffusione del letale virus dell’ebola in West Africa – dice Leonardo Cottone, responsabile della cooperazione internazionale –. L’epidemia, iniziata in Guinea nel mese di febbraio 2014, si è successivamente diffusa in Liberia, Sierra Leone e Nigeria ed è la più grave nella storia, sia per numero di casi sia per i decessi registrati. Nessuno tocca più le persone, né ci si stringe la mano neanche in chiesa per il tradizionale scambio del segno di pace; non c’è pace per questo paese che stava faticosamente uscendo dall’incubo di 11 anni di cruenta guerra civile, finita nel 2002.»

Padre Valerio Pierangelo, missionario dei giuseppini del Murialdo a Lunsar scriveva già il 18 agosto: «Qui le cose per la gente stanno andando male… Noi non possiamo più toccare nessuno. Bisogna essere molto attenti… è molto pericolosa… se qualcuno la prende è quasi sicuro che tutta la famiglia se la passa e per ora non ci sono medicine. Solo il 10% sopravvive. Non faccio più le coccole ai bambini e devo evitarli perché loro mi corrono incontro per abbracciarmi e per questo spesso sto a casa… È veramente triste…». E continua: «Il virus è venuto dalle scimmie e dai pipistrelli, che, in queste regioni, loro mangiano. Le persone ammalate trasmettono il virus attraverso i fluidi corporei, anche il sudore… per questo è facilissimo trasmetterlo da persona a persona».

Anche Veronica, da qui, dalla sua isola, dà una mano alla raccolta fondi. «Vivo con la speranza che tutto finisca presto e di tornare giù e continuare il progetto lasciato a metà» annullato dall’ente per motivi di sicurezza. Un augurio condiviso.

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