Roy Paci e Aretuska: la Sicilia della contaminazione

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«Roy!» esclamo. Mi prende una sedia e iniziamo. Il concerto del 23 agosto, a Collesano, è terminato da qualche minuto. Start alle undici, l’Aretuska ha dato fiato per un’ora e mezza. È l’ultima tappa delle tre in Sicilia. “Sicilia bedda” sa di slang, un motto quasi, che impazza sul palco e sulla pagina del cantante.


Rosario Paci è un fumetto in carne e ossa, di quelli che collezioni e di cui non perdi un numero. Qualcuno azzarda: è la caricatura del buon umore. E in effetti ne dispensa. Il concerto trascina. I suoni, in fondo, sono quelli. Lo “skajazz” non ha definizione. Lo balli e basta. Nelle piazze succede sempre. Anche a Collesano. Il concerto, organizzato dal Comune, ha raccolto curiosi e appassionati con cui Paci ha “duettato”. Intermezzo: “Could You Be Loved”, ad esempio, la butta lì. Un calice di vino rosso in mano che non assapora: Roy è dentro le parole che snocciola senza pausa.

La sua esperienza, parentesi africane a parte, è nel cuore del Sudamerica. «Quanto c’è della cultura siciliana in quella sudamericana?» gli chiedo. «C’è tanto – risponde Paci – anche perché mezzo Sudamerica l’hanno fatto i siciliani. Ci sono comunità gigantesche di italiani. A Buenos Aires ce ne sono circa 6 milioni, di cui l’80% formato da siciliani e calabresi che hanno completamente impostato un modo di vivere, di mangiare, di parlare che si è integrato con quello che era l’originario. C’è tanta roba di italiano – precisa Paci – e penso ai teatri ad esempio… Ti accorgi, insomma, quanto sia stata importante la “mezcla” di queste culture». E continua: «Io l’ho scoperto, grazie al cielo, da giovane a 20 anni, quando mi sono trasferito in Sudamerica e lì mi sono reso conto che era quello il pezzo mancante da siciliano vero, puro, orgogliosamente “terronista”. Da lì è nato questo grande desiderio di coniugare le due facce del ritmo che comunque già avevamo, magari in forma più popolare, ma che avevamo. Possediamo – precisa – questa linea sottile che unisce tra l’altro tutti i sud del mondo». Aggiunge: «Faccio un piccolo esempio. Ci sono molte realtà musicali nelle quali, nonostante i temi forti, molto tristi e malinconici, la musica è sempre divertente. Anche “Vitti ‘na crozza”» interpretata durante il concerto «così com’è cantata – e il tema è un tema fortissimo, un tema molto malinconico – muta grazie alla musica. È, insomma, un approccio apotropaico alla vita, un modo di esorcizzare il male proprio con la musica, con il ritmo. È una cosa bellissima!» esclama. «New Orleans con i funerali ne è un’altra testimonianza eclatante. C’è tanto di sud del mondo nella nostra musica».

I musicisti che l’accompagnano, voce rap compresa («è un salentino che cerca di adattarsi… Con tutto il tempo passato sul furgone qualcosa l’ha imparata» scherza Paci dal palco nell’abbracciare Moreno. «Quello originale!» aggiunge), sono di altissima caratura. Si “scorge” anche il bagherese Giacomo Tantillo, esploso all’Umbria Jazz. Un virtuoso. E Roy lo sottolinea durante l’intervista: «Questa sera sul palco c’è stato un amico trombettista che ha suonato anche meglio di me; io sono stato felice di ospitarlo. Quando si raggiunge un certo livello di bravura non c’è più chi è più bravo dell’altro: c’è solamente una condivisione di intenti quando c’è gente che si vuole bene come noi». La sezione dei fiati “aretuski” (Stefano Cocon, Giorgio Giovannini, Massimo Marcer, Vito Scavo) pure per il profano, rende l’idea della dedizione. E non è questione di semplice performance. Tra gli accostamenti, c’è un giovane “Caparezza” che svetta con la sua chitarra. John Lui («guardate che tocco d’uomo – precisa Paci durante il concerto –. Bello sì, ma ci fermano in tutti gli aeroporti per colpa sua!»). Alla fine, ai piedi del palco, Lui è pronto per ripartire. «Ci vediamo tra sei giorni» esclama ai compagni di viaggio. «Mi sembri alla fermata dell’autobus…» scherza Moreno. «Oh, però domani sentiamoci. E domani è già tardi!» Legami. Artistici. Umani.

Roy non si ferma. Da buon siciliano ha assaporato da piccolo la musica nella banda di paese, quella che non scordi più. «Ha pesato la banda nel tuo cammino?». Gli occhi gli si illuminano. «Claro, que sì, hombre! La banda è la forma di espressione musicale della nostra Sicilia più importante. Un esempio: Ennio Morricone, il maestro di tutti i maestri che ci sono in Italia – io lo considero tale –, ha sempre detto che la sua ispirazione, soprattutto per certi temi, l’ha presa proprio dalle bande del Sud. Se tu ascolti quello che scrivevano i grandi compositori della nostra terra, anche fine ‘800, troverai delle marce che non sono più marce ma opere d’arte». Butto giù il riferimento al suo lavoro sulle marce funebri del Sud Italia. «Il mio progetto della Banda Ionica era nato proprio per riuscire a mantenere in vita quella forte tradizione. Il primo album è entrato nella Discoteca di Stato proprio perché non c’era un disco di marce funebri suonato in quel modo, fatto bene. Volevo preservare questo grande repertorio visto che a me la banda ha dato tutto. L’unico maestro – ricorda – che ho riconosciuto è quello della banda, don Peppino, che mi ha insegnato a suonare la tromba, cioè come mettere le mani. Poi tutti i workshop, i corsi di perfezionamento lasciano il tempo che trovano e che ti servono sì, ma come scordare un maestro che ti dice queste parole? Non potrò mai dimenticarle. Quando tu sali su un palco e c’è Miles Davis da un lato e Dizzy Gillespie che sono vicini a te, cosa fai? Io mi cago di sotto e invece lui mi ha tirato una “tumpulata” in faccia e m’ha detto: “Ma tu invece devi suonare, cretino! Perché tu sai cosa fanno loro, ma loro non sanno quello che sai fare tu”».

Le esperienze e la produzione discografica di Roy Paci sono sterminate. Ci sono dentro pure il cinema e la tv. Che gli ha aperto le porte del grande pubblico. «Colonna sonora di Zelig: quanta comicità c’è oggi nel mondo della musica? O ci si prende troppo sul serio?». Roy, sornione, si fa serio. «Io, sinceramente, evito quelli che si prendono troppo sul serio…». Il gioco degli specchi diventa gioco di sorrisi. «Le persone che hanno davvero il diritto d’essere prese un po’ più sul serio dovrebbero essere solamente i contadini e tutti quelli che ci danno da mangiare ogni giorno. Noi siamo solamente dei veicoli che trasmettono musica soprattutto e qualcuno anche qualche messaggio». Il richiamo è immediato: «Adesso non siamo gli unici che riescono a tramandare messaggi forti, anche importanti, sebbene quel che conta è che lo facciamo sempre in un clima molto positivo; il bicchiere lo vediamo mezzo pieno, non mezzo vuoto; non amiamo questo pessimismo costante di certe espressioni… La comicità l’apprezzo. Il mio momento all’interno di Zelig è stato davvero importante, anche perché la trasmissione era al top con il 33% di share; sono stati i tre anni più importanti di quel progetto televisivo di cui ho fatto parte».

Di pagine da rispolverare ce ne sarebbero tante. Il manager incalza, bontà sua. Telegrafico su Manu Chao. «Un grande personaggio: piccolo, ma grande energia. Una grande potenza. Trasmette grande forza. Non è l’unico di quelli che ho incontrato nel mio cammino e che devo ringraziare. I musicisti freelance come me sono formati da un grande puzzle: mille pezzettini che si uniscono. Ognuna di quelle che sono state le mie collaborazioni sono state esperienze importantissime». Ne elenca alcune: «Non solo Manu, ma anche Compay Segundo della Buena Vista Social Club, Mike Patton per un altro verso; anche la stretta di mano con Joe Strummer, la “taliata” con Tom Waits… Il grande periodo passato con Ivano Fossati: di una profondità culturale, di una saggezza fuori da ogni logica; siamo a dei livelli troppo alti». Tutti tasselli di un unico grande puzzle. Abbiamo finito. Ci salutiamo. «Sì, ma adesso devo bere!» esclama Rosario. Prosit!