Mendola se l’è chiesto allora e nel corso di questi ultimi anni: perché quell’incendio? Il riferimento è alla notte fra il 29 e il 30 ottobre 2012, quando andarono in fumo le sue due auto, una Mercedes e una Land Rover, posteggiate davanti casa. Le fiamme ne danneggiarono pure una terza (il lato anteriore di una vecchia Y10) di proprietà della moglie e anche una quarta (il lato anteriore di una Mercedes) di proprietà di un vicino. Le fiamme furono pure sul punto di inondare un bombolone di gas di mille litri posto nelle vicinanze, quando intervennero i carabinieri e i vigili del fuoco.
Il perché se lo chiesero lui, i familiari, i cittadini di Cerda e, a cascata, quanti guardavano – e guardano, pure a distanza di anni – a quel paese come a un appestato. La mafia, confermano gli inquirenti, lì c’è e c’è stata, con il carico sconvolgente degli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa fin dagli anni Novanta. Eppure, dietro questa brutta storia, dentro quella comunità, c’è una larga fetta di gente che parla di legalità. E ci crede. A cominciare dalla scuola, impegnata ogni anno in progetti costruttivi che spingono i ragazzi a masticare un linguaggio diverso. E ci stanno pure parti di istituzioni. In un campo di spine, i fiori fanno sempre ben sperare.
Quella sera Mendola era a casa. «Mi hanno citofonato i carabinieri – disse allora – e quando sono sceso la mia macchina era in fiamme e altri mezzi vicini hanno subito danni… Ho richiesto un colloquio col prefetto: voglio garanzie da parte delle istituzioni. Occorre una maggior tutela, soprattutto quando si lotta contro la mafia. Avevo subito qualche altro episodio, delle fesserie, ma mai una cosa talmente grave. A Cerda non si vive in un ambiente sereno, ci sono sempre pressioni, manca la tranquillità per lavorare e amministrare bene». Ma alla fine, Mendola sbatté la porta e si dimise.
«Era al di fuori della mia mentalità, della mia ottica assoggettarmi a qualcuno o fare favori a qualcuno» precisa oggi. E aggiunge: «Non vivo di politica, ma del mio mestiere e non ho certo più intenzione di farne. L’unica mia intenzione era riuscire a fare qualcosa di buono, ma non ce l’ho fatta per i noti accadimenti». Pausa. «Una vicenda giunta alla fine. Sono delle cose che ti lasciano un segno particolare – ha dichiarato –, che ti segnano per la vita. Per fortuna è finita!»
L’operazione denominata “Black Cat”, ieri ha sconquassato le Madonie. I Carabinieri della compagnia di Termini Imerese hanno dato esecuzione a trentatré ordinanze di custodia cautelare (ventiquattro in carcere e nove agli arresti domiciliari) emesse dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo, Fabrizio Molinari, su richiesta della locale procura distrettuale, diretta da Francesco Lo Voi. L’accusa è di associazione di tipo mafioso, di estorsione, di furto, di rapina, di detenzione illecita di armi, di intestazione fittizia di beni e di trasferimento fraudolento di valori: reati aggravati dall’agevolazione dell’attività del gruppo mafioso. Oltre agli arresti, sono stati sequestrati beni per un milione e mezzo di euro riconducibili ai capi mandamento di Trabia e di San Mauro Castelverde. «Le indagini – scrivono gli inquirenti – hanno fornito un accurato quadro di assoluta attualità, consentendo di definire gli interessi di cosa nostra nella parte orientale della provincia di Palermo, a partire dal territorio di Bagheria sino ad arrivare ai confini delle province di Catania e Messina, e di ricostruire in maniera chiara e dettagliata i nuovi organigrammi dei due storici mandamenti mafiosi di Trabia e San Mauro Castelverde, con l’individuazione dei reggenti e degli affiliati». E aggiungono: «È stato documentato il ruolo di vertice ricoperto da Diego Rinella, per il mandamento di Trabia, affiancato da Michele Modica, capofamiglia di Trabia, nella gestione operativa degli affari illeciti e nei rapporti con le famiglie mafiose di Cerda, Caccamo e Termini Imerese, e di Francesco Bonomo per il mandamento di San Mauro Castelverde, collaborato nei traffici illeciti da altri componenti dell’associazione, incaricati, tra l’altro, del materiale trasporto di pizzini e messaggi verbali a reggenti e sodali delle famiglie mafiose di San Mauro Castelverde, Polizzi Generosa e Lascari».
Sul caso Mendola, le intercettazioni evidenziano quanto l’ex sindaco non fosse gradito agli ambienti mafiosi «che gli imputavano – scrivono gli inquirenti – di non essere “vicino” alle loro istanze». Così Gandolfo Maria Interbartolo, di Cerda, parlava di Mendola con Giovanni Di Marco e Antonino Vallelunga: «Ma quello si deve dimettere… Tranquillo… Si deve prendere le carte e se ne deve andare! Deve alzare i tacchi e se ne deve andare! Non si è messo contro di me? Non ti preoccupare!», mentre Gaetano Giovanni Muscarella, riportano ancora gli inquirenti, vantava d’essere stato materialmente lui ad aver dato fuoco alle vetture dell’ex sindaco Mendola: «Minchia tutte in aria sono saltate… Boom! Tutte in aria… Lascia fare… Però sto vedendo una cosa…Quello niente fa… Ouh… Sto vedendo che… Quello che mi sento… Lo sono!»
La nostra telefonata continua e Mendola cerca di comporre alcuni passaggi. «Adesso assumono un significato diverso le troppe insistenze che c’erano riguardo a dei lavori, c’era troppa insistenza per quanto riguardava la direzione dell’ufficio tecnico… Le sue mire (di Interbartolo) erano sempre sull’ufficio tecnico, il perno…», il motore degli appalti in un comune, dove stanno i soldi da spendere. «Quando io decisi di far fare le gare pubbliche alla commissione regionale e non farle in loco, ci rimase male…». E continua: «Avevamo dato mandato alla commissione per evitare chiaramente qualsiasi problema che può insorgere in queste occasioni… Si dovevano fare cinque gare per un valore di un milione e ottocentomila euro… Una cifra abbastanza consistente».
Interbartolo, geometra, svolge la libera professione a Cerda e fu candidato nella lista a sostegno di Mendola alla carica di primo cittadino. «Era candidato con me e consigliere comunale ininterrottamente – aggiunge Mendola – per quattro, cinque legislature e in qualche amministrazione precedente, di cui non ricordo con esattezza, ha fatto pure l’assessore o il vicesindaco». Su Interbartolo, continua l’ex sindaco, è emerso «un fatto che ha stupito tutti perché non era nell’aria allora, completamente. Faceva il geometra e l’imprenditore e non so le ambientazioni che aveva… Lo conoscevamo come geometra». Una doccia fredda, insomma. «Adesso le connotazioni sono completamente diverse rispetto al 2009 e, in precedenza, in tutte le altre tornate in cui si era candidato…».
Mendola parla. È sollevato, lo si percepisce. «Adesso devo decidere quello che fare, anche se una certa idea ce l’ho… continuando il mio lavoro». Il riferimento non è all’aspetto politico, ma legale. Nel 2012, Mendola disse ancora: «Non so chi sia stato, ma una cosa è certa: il clima politico è velenoso, inquietante, è basato su troppi personalismi che sfociano in quotidiani scontri. Non si lavora bene e si è perso il senso della ragione infangando continuamente persone per bene come me. Abbiamo grossi problemi amministrativi, c’è un notevole squilibrio di bilancio…» e scrisse, nella lettera con cui rassegnava le dimissioni, indirizzata alla commissione antimafia, al presidente della repubblica, al ministro degli interni e al prefetto di Palermo («ma non era la prima volta, – ci dice oggi – ero stato più volte anche alla Regione… per dire come si viveva e che aria si respirava a Cerda…»), che «le mie dimissioni non sono una resa alla criminalità organizzata, ma un monito per sensibilizzare chi di competenza sul clima politico e sociale insostenibile che si vive a Cerda». Ne ricavò silenzio. Solo silenzio.