Non si è trattato, nella maggior parte dei casi, di campagne sperdute, lontane dal centro delle casupole, quelle dove ancora vivono persone in carne e ossa; ma di luoghi vissuti, di strade calpestate, di finestre con i loro umori, di cemento dentro al quale scorrono in coda i tiggì e le fiction. Le fiamme alte hanno perseguito un disegno casuale, ma senza distinzioni e sconti. Da Collesano a Gratteri a Lascari a Cefalù a Cerda a Termini Imerese a Castelbuono; e poi Palermo, Messina, Trapani, Agrigento. Una parata assassina di biodiversità e di civiltà urbana. Un esercito di pazienti fuochi che ha marciato impettito.
Gli autori sono criminali: è un dato incontrovertibile. Contro di loro tanto è stato detto e scritto, ma tutto diventa quasi scontato. Come ad ogni tragedia, dove la conta diventa macabro rito e dove le ipotesi diventano gioco da tavolo. ‘Dopo’ è più facile dire e non dire. Ma alla gente, quella della sera, quella della cena, quella dei tiggì, quella delle soap opera e dei lavoratori al rientro non piace mai il ‘dopo’; preferisce, giustamente, il ‘prima‘, quel segmento temporale che dà sicurezza e misura dell’efficienza delle istituzioni. Il resto conta poco.
Il territorio è vasto, è vero. Ed è difficile, certo, una prevenzione ad ampio raggio. Ma qui, purtroppo, le zone colpite sembrano essere, con tragica cadenza, quasi sempre le stesse. E allora i conti non tornano. O forse sì. E benissimo.
Il giorno dopo, tra la terra ancora fumante e la paura negli occhi della gente, mista alla disperazione di chi ha perduto qualcosa, si tirano le somme. Centinaia gli interventi su tutta l’Isola, la flotta italiana di canadair concentrata sulla regione, ma le condizioni climatiche ieri ne hanno impedito l’azione proprio sulle Madonie. Incendi di quella portata con un forte vento di scirocco lasciano poco margine di manovra. Gli “obiettivi” sensibili, dagli ospedali alle scuole, sono stati i primi nella lista degli operatori ad essere evacuati. E poi… E poi a ciascuno la sua battaglia. Ospedali da campo, ustionati, centinaia di intossicati, di passeggeri bloccati sui treni fermi sulle rotaie, di automobilisti incarcerati nei loro abitacoli, di evacuati… Un’emergenza senza fine.
Come circa nove anni fa, anche questa volta è la gente che ha fatto rete e ha fatto la differenza. Ma, in molti casi, la lotta è stata impari. Ciò che è stato costruito negli anni, a livello individuale e collettivo, è andato in fumo in poche ore. Pochi i mezzi e gli uomini a disposizione, tante le omissioni, tanti i fronti attivi contemporaneamente. Questo, il nostro, è un territorio fragile e fragile è il sistema di prevenzione, di controllo e di repressione.
Una regione in ginocchio, vittima del suo stesso assistenzialismo e della matrice criminale di alcune sue frange. Non è il paese delle foreste, ma di una ricca biodiversità, di boschi e di una consistente macchia mediterranea sì; eppure, eppure si ritorna a ragionare sempre sugli stessi squilibri, sulle stesse cause (senza che di un’erba si faccia tutto un fascio), sugli stessi farraginosi ingranaggi, sugli stessi puntuali ritardi. E’ una terra a rischio: ormai è un tratto caratterizzante le nostre stagioni estive. Non occorre più scomodare alcuna statistica; non è questione di probabilità, ma di certezza. E davanti ad una certezza, il sistema politico deve avere un solo obiettivo conseguente.
Tanti i fronti aperti contemporaneamente, dunque, da non poter non pensare ad un disegno criminale organizzato, a meno di non voler guardare all’emulazione contestuale come ad una possibile spiegazione. Che, tuttavia, non regge. Troppi calcoli e troppe coincidenze che denunciano, pur solo in parte, una certa conoscenza della macchina dell’incendio e dell’antincendio. Un appuntamento macabro tra forte scirocco e punte di oltre quarantacinque gradi. E non è detto che si tratti della “solita” mafia, quella che tristemente conosciamo, che si inabissa e che rialza la testa e che spesso viene chiamata in gioco a volte a sproposito, quando altri buchi e altre inefficienze andrebbero scoperti e condannati. Matrice colposa a parte (che può sempre esserci, anche solo in parte), è inevitabile l’unanime coro di voci sulla matrice dolosa. Ma è come dire che il cielo è blu nelle giornate buone. Dolo sì, ma di chi? E, soprattutto, perché? Sacche malate di operatori? Mafia dei pascoli? Speculazioni all’orizzonte post incendi? Al vaglio della magistratura ci sono tutte le ipotesi.
Però si constata, stancamente, che il risultato è sempre uguale. Aria irrespirabile, fuliggine su tutto: paesaggi stritolati, forme e colori irriconoscibili; grigio misto a rosso e sullo sfondo un mare da paura. Da Santa Lucia all’altezza dell’hotel Costa Verde, sulla statale 113, era un tunnel di fumo. E come lì, in tutti i teatri interessati dagli incendi. Si circolava finché si è potuto. Poi tutto in tilt. Una campagna antincendio iniziata solo poche ore fa, in quel giugno in cui si stenta a credere che ancora bisogna fare ciò che va fatto mesi prima. Ad un certo punto, pure i numeri telefonici d’interesse digitati sono rimasti silenti, mentre fuori il crepitio lambiva vite e oggetti.
Abbiamo visto i diversi operatori impegnati spendersi per quanto e come hanno potuto; ma abbiamo visto soprattutto le lacrime di quanti, cittadini, vedevano sfumare emozioni, sogni, sacrifici. Gente onesta, che paga le tasse, come si usa dire. Gente che adempie ai suoi doveri, ma che si ritrova con i diritti essenziali negati. Come quello alla sicurezza della proprietà; come quello, da sogno americano, alla felicità. Misurata al suo stadio minimo: “Non entratemi in casa, vi prego! Non distruggetela! Non ho altro!”
Da nord a sud, da est a ovest è stato un assedio continuo che non ha lasciato un attimo di respiro. Sembrava che tutto fosse finito, ma in realtà era, ogni volta, l’alba di un nuovo incendio. Gli uomini, a terra, fanno sempre il possibile, malgrado tutto. Ma il fuoco è una brutta bestia; e lì dentro è un inferno. E all’inferno si brucia. Puntualmente.