“Sarà un uomo,/stanno già salutando quelli nati senza televisione/sarà un uomo,/stanno finendo quelli che hanno camminato/senza scarpe/e tutti quelli che non hanno capito/cosa vuol dire HI-FI/e tutti quelli che voglion le orchestre/non si fidano dei DJ”.
Così diceva una canzone di qualche anno fa, ricordandoci che con le persone se ne vanno anche i ricordi e le testimonianze dirette della nostra storia. Giuseppe Lo Bianco se n’è andato lo scorso 20 novembre, era nato il 18 febbraio del 1912. Aveva quindi compiuto 105 anni. Ed era il più anziano di Termini Imerese.
Se adesso le foto dei nostri cari si contano nell’ordine delle centinaia sempre prontamente consultabili sul nostro smartphone, Giuseppe conservava una sola vecchia foto del suo papà, incollata su un foglio di cartone perché ormai troppo vecchia e fragile. Una foto che sapeva più di selvaggio west che di iphone: tre uomini e tre bambini davanti a un vecchio carro (il padre di Giuseppe è l’uomo in piedi a sinistra), tipo quelli delle carovane, sullo sfondo uno stabile di mattoni rossi permetteva di localizzare fortunosamente il luogo anche senza google earth, infatti una insegna indicava “Pittsburgh”. E ci ricordava l’emigrazione italiana, del Sud e di Termini nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Quell’emigrazione che era silenziata dal regime fascista, ma che era ben presente nei ricordi di chi l’ha vissuta. Nel dolore e nella povertà delle famiglie che restavano in Sicilia. Nel dolore e nella fatica di chi cercava un futuro migliore nelle americhe.
Infanzie difficili, anzi infanzie negate. Perché all’età in cui adesso si frequentano le elementari si andava in campagna a guadagnare a giornata di che vivere per sé e per la famiglia. Infanzie selvatiche, che non differivano poi tanto da quelle di Jeli il pastore o di Nedda. Eppure anche senza tablet, senza vacanze e regali di Natale erano possibili degli scampoli di felicità. Bastava avere in tasca un soldo. Il prezzo dell’Opera dei Pupi. Qualcuno forse ricorderà il vecchio cinema Himera, ma non ci sono più quelli che ricordano che in quello stesso posto prima del cinema c’era l’opera dei pupi. Con le sue complesse storie di battaglie, amori e tradimento. E soprattutto con il tradimento dei tradimenti, quello del “cane di Magonza” (Gano di Magonza ndr) nei confronti del valoroso Orlando. Alla fine del ciclo dei paladini di Francia erano gli spettatori stessi a vendicare Orlando, infatti chiedevano la consegna del pupo di Gano per processarlo e bruciarlo pubblicamente.
Nel frattempo se la prima guerra era stata la guerra da bambino, conosciuta solo attraverso il racconto dei reduci, la seconda guerra mondiale era quella dell’adulto. Per mesi una guerra non guerra. A srotolare filo spinato dalle parti di Selinunte. Certo il caldo implacabile dell’estate siciliana del ’43. Certo il rancio da fame. E guardare quei grossi pesci che ancora vivevano nelle acque del fiume Belice come tentazione. Ma comunque una guerra fortunata, dove non si rischiava la vita. Fino a quando quella guardia da deserto dei tartari al mare silenzioso, era stata interrotta da lontani boati. Dopo una notte di vento e mare in burrasca gli alleati erano sbarcati nella Sicilia sudorientale. Era il dieci luglio del 1943. E i pochi soldati che presidiavano la parte sbagliata (o giusta a seconda dei punti di vista) della costa meridionale della Sicilia furono tra i primi soldati italiani per cui la guerra era finita. Per Giuseppe, con alcuni altri compaesani di Termini, si trattava di attraversare la Sicilia in abiti borghesi senza farsi catturare come prigionieri. Si trattò di una piccola odissea di marce notturne per le montagne della Sicilia occidentale, dai Sicani al bosco della Ficuzza, e di giornate di canicola estiva passate al riparo della boscaglia, con i soli sporadici incontri di contadini e pastori. Nutrendosi di qualche frutto e bevendo da abbeveratoi e bivieri. Fino a quando affacciatisi dal massiccio di Pizzo Cane, si resero conto che il loro viaggio era finito. Davanti il mare e le mura di Termini.
La fine della guerra e gli anni successivi avevano rappresentato il ritorno alla normalità e per normalità si intendeva la famiglia, la moglie Ignazia e i quattro figli, e si intendeva anche il lavoro nei campi: professione, passione e missione. Per capirlo bastava vederlo all’opera, già ultranovantenne, a sfrondare dei pampini i pergolati di uva perché il sole potesse addolcirne gli acini senza bruciarli. Un lavoro meraviglioso con i pampini che delicatamente cadevano uno dietro l’altro fino a formare un tappeto verde sotto la pergola, uno specchio che la rifletteva sul terreno.
Piccoli ricordi per chi ha conosciuto Giuseppe – in primo luogo i figli Mimmo, Rosetta, Ignazia e Franco e i nipoti – da tramandare anche ai termitani che non l’hanno conosciuto, perché la barchetta di carta della scrittura li porti un po’ più lontano nella storia della comunità.
Mariano Graziano
Onore a Giuseppe e a tutti i figli della società contadina, la più civile della nostra storia.
maria rosaria sinatra
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