Incandidabilità Sindaco Giunta. Prof. Salvatore Curreri: “Ecco perchè ho deciso di presentare appello contro la sentenza del Tribunale di Termini che ha respinto il mio ricorso”

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Alcuni amici e conoscenti mi hanno chiesto con insistenza i motivi per cui ho deciso di presentare appello contro la sentenza del Tribunale di Termini Imerese che ha respinto il ricorso da me presentato insieme ad altri per l’incandidabilità dell’attuale Sindaco.

Devo confessare che fin dal giugno 2017, da quando cioè ho sollevato tale questione, ho preferito astenermi da ogni commento o presa di posizione, sebbene sia stato oggetto di insulti e minacce, più o meno velate, da certi presunti personaggi, talora dalla fedina penale già non immacolata, al cui livello ovviamente mi sono ben guardato dallo scendere, perché da giurista ritengo il mio interlocutore non la piazza o la politica, ma il giudice.
Ammetto però che il mio silenzio potrebbe ora prestarsi ad interpretazioni equivoche o opposte, come forma di disinteressato distacco o, peggio, come segno di arrendevolezza. Per questo, rompendo il riserbo che mi ero imposto, provo a spiegare le mie modeste ragioni con il solo intento di offrire un punto di vista diverso rispetto a quello abilmente e compiacentemente sobillato, scusandomi fin d’ora per la lunghezza del post, in compenso primo ed ultimo in materia.
Chi mi conosce spero non faccia fatica a concedere che tali ragioni non vadano certo ricercate in particolari motivi personali o politici. Non ho mai avuto il piacere di conoscere personalmente il signor Sindaco, nei cui confronti quindi non nutro sentimento alcuno. Né ho mai cercato, aspirato, preteso o ricoperto incarichi, prebende o favori dal Comune di Termini Imerese. Non mi sono mai candidato, né mai mi candiderò ad alcuna carica elettiva. Per scelta non ho votato alle ultime elezioni comunali. Non ho mai assunto cariche politiche o dirigenziali di alcun tipo. Non faccio parte di alcun sodalizio, circolo o associazione.
Tali ragioni, piuttosto, risiedono in quei principi costituzionali al cui studio dedico le mie modeste energie e in quei valori di onestà, verità e giustizia che sono l’eredità più preziosa ricevuta dai miei genitori e che spero, innanzi tutto con l’esempio, di consegnare intatta ai miei figli. È, quindi, solo in base a questi principi e valori che ho ritenuto mio dovere – etico, civile, giuridico – fare appello.
Dovere innanzi tutto etico. Il dibattito pubblico sulla incandidabilità è stato volutamente portato sul piano esclusivamente giuridico, dimenticando (o facendo finta di dimenticare) che determinati comportamenti, ancor prima che vietati, sono e rimangono eticamente riprovevoli. Non a caso, la Costituzione impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere non solo di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, ma anche di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54). Da questo punto di vista, dunque, il decreto Severino non fa altro che imporre ciò che la coscienza già dovrebbe suggerire. E la coscienza non dipende certo dal volere della maggioranza, né deve ad esso conformarsi. Per questo, contrariamente ai più – magari in altre occasioni sempre pronti a scagliarsi contro l’immoralità della classe politica – non mi rassegno all’idea, eticamente inaccettabile, che chi abbia riportato condanne penali, tanto più per determinati reati, possa ricoprire cariche elettive.
Dovere, in secondo luogo, civile, perché ai fini della serenità dell’azione amministrativa una condanna penale (o, ancor prima, ad esempio l’avvio di un’azione penale) pesa (dovrebbe pesare) certamente di più rispetto all’esercizio di un diritto costituzionale, come quello di agire in giudizio, a meno che si voglia ad esso strumentalmente appellarsi come comodo alibi. Inoltre, addossare la responsabilità di tale situazione a chi ne ha contestata la legittimità, anziché a chi l’ha originalmente determinata decidendo di candidarsi, significa non solo cedere ad un comodo ed auto-assolutorio vittimismo di maniera, ma anche paradossalmente scambiare la causa con l’effetto, come se la colpa della febbre fosse del termometro. E ai demagoghi in servizio permanente che sostengono che in democrazia debba sempre e comunque prevalere la volontà sovrana del popolo, va una volta ancora pazientemente ricordato che le urne elettorali non sono il lavacro della responsabilità penale e che, come prevede la Costituzione, la sovranità va esercitata “nelle forme e nei limiti” da essa previsti, al di fuori dei quali non c’è sovranità, ma arbitrio popolare, tirannia della maggioranza, becero populismo.
Dovere, infine, giuridico, perché continuo a ritenere non convincenti le ragioni opposte alla eccepita incandidabilità. Ragioni, peraltro, che non hanno avuto certo modo di dispiegarsi né durante il procedimento elettorale, né nella apodittica ordinanza dell’Ufficio elettorale del 27 giugno, le cui conclusioni – soprattutto in ordine alla riduzione della pena – tale organo amministrativo non ha adeguatamente avvertito il dovere di motivare nei confronti non solo degli addetti ai lavori ma anche, e soprattutto, degli elettori. Ordinanza, peraltro, dalle cui motivazioni ha preso le distanze la stessa memoria presentata dalla difesa.
Tali ragioni, piuttosto, sono state puntualmente svolte nella sentenza del Tribunale di Termini Imerese dello scorso 18 gennaio e con cui, per onestà intellettuale, mi sono dovuto ovviamente confrontare. A tal fine, è stata fondamentale la durissima requisitoria del pubblico ministero – senza la quale, confesso, avrei molto dubitato delle mie convinzioni – e che invece aveva accolto in toto i rilievi avanzati sui due punti cruciali del processo, e cioè l’essere stati i reati di truffa ai danni dello Stato, falso commesso da incaricato di pubblico servizio e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale: a) commessi nell’ambito di un unico intento criminoso e perciò unificati sotto il vincolo della continuazione; b) commessi nell’esercizio di pubbliche funzioni in violazione dei doveri d’ufficio; profilo, quest’ultimo, che la stessa sentenza del Tribunale di Termini Imerese ritiene non essere stato apprezzato dal giudice penale in sede di patteggiamento.
Sono, quindi, questi tre ordini di doveri che mi hanno imposto, per responsabilità morale nei confronti innanzi tutto di me stesso, di presentare ricorso in appello. Solo chi applica al diritto le categorie della politica può concludere che chi perde in primo grado sia uno sconfitto che debba rinunciare a rivendicare in appello le sue ragioni. Nel diritto, come nella vita, le battaglie si possono vincere o perdere; l’importante è condurle lealmente nella ragionevole convinzione della bontà delle proprie ragioni. Chi vi rinuncia in partenza – magari dopo averle cavalcate per mero calcolo elettorale – vuoi per interessi personali, vuoi per quieto vivere, è già morto, anche se, come disse il poeta, vive fino a cent’anni.
Grazie per l’attenzione.
Salvatore Curreri
Professore in Istituzioni di Diritto pubblico Università Kore – Enna