Cinema: dalla Sicilia all’Africa e ritorno, calciando un pallone

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«Amiamo fare il cinema e crediamo in un “capitalismo etico”, tanto che i proventi di questo film ritorneranno lì dove lo abbiamo girato». Esordisce così Pasquale Scimeca, il regista di Aliminusa, oggi alla guida del Centro sperimentale di cinematografia di Palermo. L’occasione è la presentazione del suo ultimo lavoro, sabato scorso, presso il teatro “Cicero” di Cefalù.

Si tratta di “Balon”, prodotto in collaborazione con Rai Cinema dalla Arbash Film di Linda Di Dio, presente insieme all’assessore comunale alla Cultura, Vincenzo Garbo, al direttore dei Giuseppini del Murialdo di Cefalù, padre Luigi Carucci, al responsabile dell’Engim, Leonardo Cottone, e a Giovanni Cristina del cinema Di Francesca, che collaborerà quanto a distribuzione e proiezione del film per le scolaresche che volessero aderire. Il film, infatti, è stato classificato dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo “di interesse culturale” e “per ragazzi”: è un film fatto da ragazzi africani e si rivolge ai coetanei italiani, agli insegnanti, alle scuole nel loro complesso.

Gli incassi andranno ai bambini del villaggio Rochain Mende, in Sierra Leone. «Lì ci sono bambini per strada e le missioni cristiane, come i Giuseppini» aggiunge Scimeca. Che ricorda: «Dovevamo girare in Africa, ma non avevamo in mente un luogo preciso; l’incontro con Leonardo Cottone dell’Engim ci ha portati in Sierra Leone». Martoriato da guerre civili, ebola, povertà cronica, analfabetismo. «Lì i missionari sono rimasti – precisa Scimeca – nonostante i ripetuti incendi alla missione. Hanno condiviso tutto con quelle persone che in gran parte non sono cristiane, ma musulmane. E li hanno accolti».

Balon è il pallone in uno slang ammaccato. Ed è un simbolo riconosciuto e riconoscibile ovunque e ovunque fa lo stesso effetto: stare insieme, giocarvi, calciarlo. «Lì – continua Scimeca – avere un pallone è una benedizione di Dio; tanto che, oltre alla scuola, con i proventi vorremmo comprare le scarpe – aggiunge Scimeca – visto che giocano scalzi e le divise e costruire proprio un campetto di calcio, un piccolo presidio medico e poi i pozzi». Le parole che ritornano sono le stesse e martellano: acqua, pozzi, scuole. I pilastri per quella comunità, per quei bambini. «Hanno un desiderio incredibile di voler imparare. Fanno anche sei chilometri a piedi, tra andata e ritorno, non prima di essere andati a riempire l’acqua. Fortunati se il pozzo se lo ritrovano nel villaggio; diversamente – continua Scimeca – macinano altri chilometri».

È un’acqua malsana quella fuori dai pozzi: poche gocce causerebbero la dissenteria a un ordinario occidentale. Ma fa male anche a quei bambini con le mani tese verso i Giuseppini, costruttori di pezzi unici e preziosi.Piccoli studenti che marciano per sedersi in classe, anche a digiuno, visto che si mangia una sola volta al giorno quando va bene. Tutto ciò che al di qua del Mediterraneo risulta a portata di click, al di là della striscia d’acqua che miete vittime e sconta la narrativa di certa politica, è straordinariamente complicato. Se non impossibile da trovare.

«L’Engim – aggiunge Cottone – ha già collaborato con l’Arbash sin dal 2013, quando Pasquale e Linda decisero di sostenere una nostra missione in Ecuador con una raccolta fondi attraverso la distribuzione, nelle scuole di tutta Italia, del cortometraggio “Convitto Falcone”». Stavolta la scelta è caduta sulla Sierra Leone «dove noi operiamo – aggiunge Cottone – come organizzazione non governativa da diversi anni». Sabato c’erano le scuole cefaludesi in platea: i licei classico e linguistico, l’alberghiero e gli istituti tecnici. Studenti, giovani, pezzi di mondo in crescita. Come i protagonisti del film, che alla fine, dopo assalti al villaggio, peregrinazioni nel deserto e prigionia, saltano su un barcone e vanno via.

«I Giuseppini stanno in Africa da 40 anni – ricorda padre Luigi – e arrivammo lì con due idee precise: costruire i seminari, perché l’aiuto in quelle terre deve essere fornito dai preti africani, e le scuole, perché gli artigiani devono essere africani». E snocciola numeri: «500 i pozzi costruiti nei decenni, 51 le case-famiglia, 140 le cooperative formate dai ragazzi usciti dalle nostre scuole». Questo è «un modo – aggiunge – per dare concretezza alla frase che sentiamo spesso e cioè che gli africani vanno aiutati a casa loro. Che non sia solo uno slogan da campagna elettorale…».

Fare e non sproloquiare strumentalizzando ciò che verosimilmente non si conosce affatto. E qui è la chiave di tutto: conoscenza. «Spero che questo film – sottolinea Scimeca rivolgendosi ai ragazzi in platea – vi aiuti a conoscere cosa succede in quelle terre, dove il numero dei bambini è altissimo come altissima è la mortalità infantile. Non si può costruire un muro sul mare – chiosa Scimeca – e tra noi e loro c’è quel mare lì».

Antonino Cicero
@AntoninoCicero1