Memorie di Ragusa dalmata (attuale Dubrovnik in Croazia)a Termini Imerese (XIV-XVII sec.)

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La seconda tappa dello studio relativo alle molteplici rotte commerciali che collegavano la Splendidissima Termini Imerese, uno dei più attivi e cosmopoliti porti cerealicoli del Regno di Sicilia, con i maggiori scali mediterranei (e subordinatamente atlantici),

ci porta ad affrontare l’argomento relativo al tragitto con Ragusa (Raugia) dalmata (l’attuale Dubrovnik in Croazia), la «Perla dell’Adriatico». Quest’ultima, secondo una tesi propugnata da Giacomo Scotti, con validi argomenti a sostegno, a buon ragione può essere considerata la quinta repubblica marinara italiana (cfr. G. Scotti, Ragusa. La quinta repubblica marinara, LINT Editoriale, Trieste 2006, p. 5 e segg.). Ragusa, infatti, costituì un polo commerciale adriatico «alternativo» rispetto alla Serenissima «regina dell’Adriatico» (per i rapporti commerciali tra Ragusa e Venezia, cfr. Z. Janeković Römer, Ragusan views of the Venetian rule, in G. Ortalli – O. J. Schmitt, a cura di, Balcani Occidentali, Adriatico e Venezia fra XIII e XVIII secolo,  Venezia, 2009, pp. 53-76; mentre per quelli tra Termini Imerese e Venezia, in questo sito cfr. P. Bova & A. Contino, La Serenissima e la Splendidissima: memorie di Venezia a Termini Imerese tra il XV ed il XVII sec.).
I due cardini della rotta commerciale tra Ragusa dalmata e Termini Imerese meritano brevemente di essere trattati separatamente, prima di focalizzare la ricerca sulle loro reciproche relazioni.
Madrepatria di Ragusa in Dalmazia fu la colonia greca del VI sec. a. C. di Epidayros (poi latinizzato in Epidaurum), sul sito di Ragusa Vecchia (in croato Cavtat). Distrutta Epidauro dagli Àvari, i superstiti fondarono Lausa (Ragusa). L’affermazione di Ragusa in Dalmazia, dapprima in ambito adriatico, come rilevante città marinara e mercantile, rimonta almeno al VII secolo, sotto il protettorato bizantino. Nell’XI secolo, Il territorio dalmata, entrò per la prima volta nell’orbita veneziana per volere del doge Pietro Orseolo II (991-1009). Nel periodo del protettorato veneziano, le città della Dalmazia furono governate da rettori, compresa Ragusa dove, con alterne vicende, dall’XI sec. sino alla fine del dominio, avvenuto nel 1358 con la pace di Zara, sono documentati ufficiali veneziani indicati con il titolo di «conte»  (cfr., ad es., Giorgio Zordan, L’ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano con una nota bibliografica, Padova 1980, p. 107).
Sin dalla metà del secolo XIII, in seno al porto di Ragusa, relativamente al nolo delle imbarcazioni, vi erano clausole che favorivano nettamente la marineria locale; infatti i navigli ragusei dovevano essere scelti a preferenza di quelli stranieri. In caso contrario, l’equipaggio delle navi straniere noleggiate doveva essere composto per la metà da marinai ragusei (cfr. Libri statutorum civitatis Ragusii, 1272, in Monumenta historica-juridica Slavorum meridionalium, vol. IX, l. VI, r. LXVI). Nelle navi ragusee, inoltre, veniva data particolare attenzione ai ruoli specifici e gerarchici di ogni componente dell’equipaggio, con diretti risvolti nell’importo delle varie paghe (cfr. A. Di Vittorio, Tendenze e orientamenti nella storiografia marittima ragusea, in A. Di Vittorio, S. Anselmi, P. Pierucci, a cura di, Ragusa (Dubrovnik). Una Repubblica adriatica. Saggi di storia economica e finanziaria, Cisalpino, Bologna, 1994, pp. 130-132; M. Spremić, Le tradizioni marittime di Ragusa e di altre città dell’Adriatico nei sec. XIV-XVI, in P. Alberini, S. Corrieri e  G. Manzari, a cura di, Tradizione giuridico-marittima del Mediterraneo tra storia e attualità, Atti del Convegno internazionale di studi storici di diritto marittimo medievale, Napoli 23-25 settembre 2004, Roma, 2006, pp. 111-123).
Affrancatasi la Dalmazia dal dominio veneziano, Ragusa divenne una piccola città-stato formalmente governata da un rettore (cfr. B. Crekić, Dubrovnik et le Levant au Moyen Age, Paris-Le Haye, 1961; F.W. Carter, Dubrovnik (Ragusa), A classic city-state, Seminar press, London-New York 1972), molto gelosa della propria indipendenza e particolarmente florida grazie alla creazione sia di una ben equipaggiata flotta marittima e di una rete commerciale terrestre sempre più rilevante nel XV secolo (cfr. A. Leone, Il commercio terrestre raguseo nella seconda metà del Quattrocento, in M. C. De Matteis, a cura di, Ovidio Capitani. Quaranta anni per la storia medievale, Bologna, 2003, pp. 251-256). A tutto ciò si aggiungeva la progressiva creazione a scala mediterranea di una rete di consolati ragusei sui quali esiste sinora un interessante studio relativo alla Sardegna (cfr. ad es. B. Dudan,  Sardegna, Venezia e Ragusa, documenti sui consolati Veneto e raguseo in Sardegna alla fine del secolo XVII, in «Ateneo Veneto», maggio 1937). La Communitas Ragusina, a partire dal 1403 si intitolò orgogliosamente Respublica Ragusina, pur essendo retta da una illuminata oligarchia.
L’importanza di Ragusa dalmata, come evidenziato già all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, da Jorjo Tadić, raggiunse l’apice nel XVI secolo e la cittadina si affermò come uno dei più rilevanti punti di sbocco delle merci balcaniche, difeso da fortificazioni e dotato di due grandi attracchi portuali (cfr. J. Tadić, Le commerce en Dalmatie et a Raguse et la decadence économique de Venise au XVIII siècle, in AA.VV., Aspetti e cause della decadenza economica veneziana nel XVIII secolo, Istituto per la collaborazione Culturale, Venezia-Roma, 1961; Idem, Ragusa e il suo porto nel Cinquecento, “Archivio Storico Pugliese”, a. XV, 1962, pp. 241-254).
E’ noto che l’avvio della decadenza della Serenissima si colloca a seguire della disfatta di Agnadello (1509), operata dalla lega di Cambrai, coalizione dalle potenze occidentali volta a punire la città lagunare per i suoi rapporti commerciali con gli ottomani. Barisa Krekić, ha messo in evidenza come Ragusa seppe sfruttare abilmente la flessione di potere di Venezia nell’Adriatico, sia grazie ad una politica estera volta a consolidare i rapporti con le grandi potenze europee (in primis la Spagna), sia attraverso la crescente ramificazione, in seno al mercato balcanico, della rete carovaniera di rifornimento dell’Occidente (cfr. B. Krekić, Le port de Dubrovnik entreprise d’État plaque tournante du commerce de la ville (XIV-XVI sec.) in Cavaciocchi S., a cura di, I porti come impresa economica: atti della diciannovesima Settimana di studi, 2-6 maggio 1987, 1987, pp. 653-673).
In età moderna, il ruolo mediterraneo delle navi ragusee divenne sempre maggiore, sia attraverso l’ingaggio diretto del trasporto delle mercanzie da parte degli armatori, sia tramite il noleggio delle imbarcazioni (cfr. A. Di Vittorio, Tendenze e orientamenti nella storiografia marittima contemporanea: gli stati italiani e la repubblica di Ragusa, secolo XIV-XIX, Napoli, 1986; R. Harris, Storia e vita di Ragusa, ed. Santi Quaranta, Treviso, 2008; O. Cancila, Impresa redditi mercati nella Sicilia moderna, G. B. Palumbo, Palermo 2003, pp. 236-237). 
Dopo l’apogeo dei secoli XV e XVI, iniziò il declino della gloriosa repubblica marinara, duramente colpita da un sisma il 6 Aprile 1667, ed estintasi ufficialmente il 1° Gennaio 1808 durante il dominio napoleonico. Il centro storico raguseo, fortemente danneggiato dai bombardamenti degli anni 90’ del XX secolo, ed oggi ricostruito, è inserito tra i beni “Patrimonio dell’Umanità” dell’UNESCO.Termini Imerese, l’altro cardine della rotta che collegava la cittadina siciliana con Ragusa dalmata, legò indiscutibilmente la sua floridezza economica alla sua invidiabile posizione sulla costa settentrionale della Sicilia, quale naturale sbocco costiero di un vasto e prospero retroterra soprattutto cerealicolo. Le «vettovaglie», prima di tutto cereali e legumi, provenienti dall’hinterland, convogliavano nel Regio Caricatore del Grano di Termini (tra i più rilevanti del «Regno di Sicilia», formalmente attivo sino al 1819), grande complesso di magazzini per il deposito momentaneo di mercanzie, da sdoganare prima del carico. Queste peculiarità, a scala regionale permisero alla Splendidissima di essere il principale «granaio» sia di Palermo che di Messina. A scala mediterranea, la cittadina imerese si qualificò come una vivace e composita realtà mercantile  assumendo la funzione d’importante nodo della grande rete di flussi commerciali, sia marittimi che terrestri, che attraversava l’intero bacino.
Nonostante che gran parte della più antica documentazione archivistica, relativa a Termini Imerese, divenga consistente solo a partire dal XV secolo, non c’è alcun dubbio che sin dal medioevo, la cittadina fu largamente aperta non solo verso il Mediterraneo centrale, ma anche in direzione dei settori occidentali e orientali. L’ancoraggio termitano era, infatti, ampiamente dischiuso anche verso il settore levantino, come dimostra la presenza in loco di numerosi marinai, armatori e mercanti provenienti dalla Grecia, da Venezia, dalla Dalmazia e, nello specifico, da Ragusa.
Prima di focalizzare l’argomento in oggetto, vogliamo ripercorrere brevemente la storia delle ricerche che hanno evidenziato come sin dal medioevo furono ampiamente frequenti i contatti tra la Dalmazia e la Sicilia.
Allo scadere della prima metà del XIX secolo, il grande arabista Michele Amari (1806-1889), fu il primo studioso a mettere in luce la presenza dalmata in Sicilia sin dalla dominazione musulmana, sulla scorta della dettagliata descrizione di Palermo nella metà del X secolo stilata dal viaggiatore musulmano, originario di Baghdad, ‘Ibn Hawqal (cfr. Description de Palerme à la moitié du Xe siècle de l’ère vulgaire, par Ebn-Haucal; traduite par Michel Amari, in «Journal Asiatique», série IV, t. V, janvier-juin 1845, extrait, 44 pp.). Il detto, viaggiatore nella sua opera (terminata nel 977 d. C.)  intitolata Kitāb al-masālik wa’l-mamālik (cfr. Biblioteca arabo-sicula raccolta da Michele Amari, II ed. rivista da U. Rizzitano, Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo, Palermo, 1997, vol. I, pp. 13-24), ma che gli orientalisti europei chiamarono Cosmografia. L’autore, in questo suo libro ci offre una dettagliata descrizione della Palermo musulmana, tra l’altro rammentando l’esistenza di un intero e popoloso «quartiere degli Schiavoni» (Al harat as-Saqalibah), poi detto Seralkadi o Kiralkadi (Capo), la cui denominazione allude alla preponderanza di immigrati dalmati (cfr. A. De Simone, Palermo nei geografi e viaggiatori arabi del Medioevo, in «Studi Magrebini», II, 1968, pp. 129-189, passim).
Fu però soltanto negli anni 60′ del XIX secolo, che lo storico siciliano Carmelo Trasselli (1910-1982), vero e proprio pioniere di tante ricerche, diede alla luce il suo fondamentale studio sulla consistente presenza ragusea nell’Isola, dal titolo «Note sui ragusei in Sicilia», pubblicato nell’importante rivista «Economia e storia» (vol. 12, 1965, pp. 40-79).
Nel 1972, lo studioso iugoslavo Momčilo Spremić, diede un ulteriore contributo scientifico alla ricerca, con il suo documentato studio «La Repubblica di Ragusa e il Regno di Sicilia» (in seno agli atti del «Congresso internazionale di studi sulla Sicilia normanna», Palermo, 4-8 dicembre 1972, stampato poi nel 1974, pp. 298-208).
Il domenicano padre fra Serafino Razzi (1531-1611), nella sua opera La storia di Raugia (Ragusa), pubblicata nel 1595 a Lucca per Vincenzo Busdraghi, così accenna ai reciproci rapporti commerciali tra Ragusa dalmata e la Sicilia: «E così [i Ragusei] voltarono i loro traffichi [sic] in Puglia, & in Sicilia, dove molto erano accarezzati. E furono perciò fatti in detti luoghi essenti [sic] da ogni dazio, e gabella. Et il simile fu fatto in Raugia per i Siciliani: E si osserva fino al dì d’oggi».
In realtà, nonostante l’antica franchigia sui dazi accordata ai Ragusei operanti in Sicilia, si ebbe almeno una deroga proprio nella seconda metà del Cinquecento. Il giorno 8 Dicembre 1562, nel parlamento generale di Sicilia tenutosi a Palermo, essendo viceré don Giovanni de la Cerda, fu imposta «una gabella di un tarì per ogni onza di più sopra tutti li drappi di seta, panno, peli [sic, pelli], & merci, & altre robbe [sic], juxta la forma della exactione della gabella del tarì novo imposto nella città di Palermo nelle secretie [sic] maritime delle Città, & Terre Demaniali di tutto il Regno, & che questa si paghi per tutte e qualsivoglia persone così regnicoli, come forasteri [sic], nemine exempto, cossì [sic] privileggiate [sic], come non privilegiate, Ecclesiastici, offitiali, di qualsivoglia titulo, condittione, nome, e prerogativa che fossero, e tutti altri di qualsivoglia condittione, che si siano, & per tutte Città e Terre franche, e per qualsivoglia natione di Catalana, Genovesa, Ragusea, & Liparota, & altra qualsivoglia privilegio, che disponesse il contrario, del quale fosse bisogno far expressa mentione» (cfr. A. Mongitore, Parlamenti Generali del Regno di Sicilia Dall’anno 1446. fino al 1748, Tomo Primo, In  Palermo M. D. CC. XLIX. Presso Pietro Bentivenga, pp. 321-332).
Infine, qui di seguito, saranno tratteggiate le principali tappe dei rapporti commerciali tra Termini Imerese e  Ragusa dalmata. Mentre le «vettovaglie» partivano alla volta di Ragusa dalmata, da quest’ultima giungevano a Termini Imerese, quantitativi di  lane, pellami, panni pregiati, legname etc.
Il primo indizio della presenza ragusea, a Termini Imerese, risale al 1327, quando è attestato che i mercanti di tutte le «nazioni» (nationes), cioè provenienti al di fuori del «Regno di Sicilia», vi ebbero strutture di accoglienza (fondaci) stabili (cfr. V. Cusumano, Storia dei banchi della  Sicilia. I Banchi privati, Loescher, Roma 1887).
Ogni insediamento coloniale raguseo, era dotato di un luogo di culto (un oratorio, una cappella o una chiesa), intitolato al patrono di Ragusa: il vescovo e martire di Sebaste o Sebastea (attuale Sivas in Turchia), San Biagio (in croato sveti Blaž, mentre a Dubrovnik è chiamato sveti Vlaho). Sin dagli inizi del XIII secolo, in Ragusa dalmata, del santo vescovo si conserva il cranio privo di mascella, secondo la tradizione trafugato da Costantinopoli, che si conserva in una preziosa teca aurea di tradizione bizantineggiante, lavorata a filigrana, portata solennemente in processione nella ricorrenza della festività del tre febbraio di ogni anno.
Una chiesa dedicata a S. Biagio, di sito ignoto, è menzionata nelle collettorie pontificie del 1308-10, relative alle decime di Termini Imerese (cfr. P. Sella, Rationes Decimarum Italiae, Sicilia, Roma Città del Vaticano, 1944, Studi e Testi 112, p. 13). Nostre ricerche archivistiche documentano che, ancora il 27 agosto 1576, nella cittadina imerese è attestato il beneficiale delle chiese di S. Biagio e di S. Antonio abate (quest’ultima sita a tergo dell’odierna via Belvedere, all’imbocco dell’attuale via Castellana, fu distrutta nel XVIII sec.) nella persona del venerabile sacerdote don Antonino Gentile, il quale ricevette dal Magnifico Francesco Vecchiano (de Avechiano), oriundo pisano, a completamento  del censo  di onza una e tarì sette, spettanti su una sua vigna. Detto documento si conserva presso l’Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese (d’ora in poi ASPT), nel fondo notai defunti (d’ora in poi FND), agli atti di notar Matteo de Michele di Termini Imerese, vol. 13022, 1575-76, f. 846v.
Sin dal sec. XV, in S. Maria La Nova (sul sito dell’attuale Duomo) esistette una cappella dedicata a S. Biagio, di patronato di un certo Simone Lo Guzzardo o de Guzardo e dei suoi discendenti, con apposito legato di due messe settimanali, e la cui continuità di fruizione era sinora accertata poco dopo la metà del XVI secolo (cfr. G. Arrigo, Sui comuni dell’Archidiocesi di Palermo, II, Termini Imerese, in L. Boglino, a cura di, Sicilia Sacra, pp. 195-196). Nostre ricerche d’archivio permettono di dimostrare che ancora agli inizi del XVII secolo, non solo esistette nella Maggior Chiesa di Termini Imerese il detto altare dedicato a S. Biagio, ma che vi si conservava accuratamente una preziosa reliquia del santo vescovo. Il 2 febbraio 1612, infatti, il sac. don Valente La Quaraisima, per ordine dell’arciprete sac. don Pietro Scarpaci e Ferro, consegnò a tali Antonino Lo Martiro e Mastro Nicolò Strambella, procuratori di alcuni confratelli della chiesa di S. Giacomo, la sacra reliquia di S. Biagio che era tenuta dentro una cassa piccola (caxia parva). I due procuratori avrebbero dovuto portare la reliquia nella chiesa di S. Giacomo per rimetterla nelle mani di don Antonino d’Oddo,  onde il giorno successivo celebrare la festività di S. Biagio per la devozione sia dei confratelli termitani, nonché di tutto il popolo. Terminata la festa, in serata, la reliquia doveva essere restituita per essere ricollocata nel proprio altare dedicato al santo vescovo (ASPT, FND, notar Domenico di Pace, vol. 13068, 1610-12, s. n.).
Da notare che una famiglia cognominata Guzzardi è documentata a Ragusa dalmata ancora nel XIX secolo (il raguseo Domenico Guzzardi, nell’anno scolastico 1867-68, risulta tra i discenti del secondo anno di studio della locale scuola nautica, cfr. Relazioni stenografiche della VIII. Sessione della Dieta provinciale dalmata aperta 22 Agosto e chiusa 26 Settembre 1868, Zara, Tipografia Demarchi-Rougier, 1868,  p. 244). Non è quindi da escludere una matrice ragusea del culto di S. Biagio a Termini Imerese, anche se occorrono ulteriori indagini e prove documentarie.
Una maggiore certezza della presenza ragusea a Termini Imerese nel Cinquecento e nel Seicento si evince dai dati documentari che riportiamo qui di seguito.
Negli atti della Maggior Chiesa sotto il titolo di S. Nicolò, sin dalla seconda metà del XVI secolo, sono documentate due famiglie oriunde di Ragusa dalmata: i Raguseo ed i (La) Rosa alias Raguseo (quest’ultima ben attestata anche nel Seicento e nel Settecento).
Il 22 luglio 1577, il sacerdote (presti) Antonio Di Maio, congiunse in matrimonio Antonio Raguseo con Agata (Agatuzza) figlia del fu Cristoforo Raida, alla presenza di un tizio dal cognome Di Rodo (il nome è solo parzialmente leggibile nel documento), e Mastro Nicolò Lo Licco (cfr. documento n. 1). Da notare che, secondo lo storico Giuseppe Tassini (1827-1899), una famiglia Raguseo, oriunda dalla città dalmata, fiorì a Venezia alla fine del XVI secolo, avrebbe dato il nome al calle e ponte dei Ragusei (cfr. G. Tassini, Curiosità veneziane ovvero origini delle denominazioni stradali di Venezia, 2a edizione, Grimaldo, Venezia 1872, ad vocem).
Il 17 febbraio  XV indizione 1587. Matteo La Rosa alias raguseo, senior, assieme alla moglie Margaritella, fecero battezzare nella Maggior Chiesa di Termini, il loro figlio Giuseppe, avendo come padrino mastro Michele Quaranta (cfr. AME, Battesimi, Maggior Chiesa, vol. 6, f. 10r n. 5).
Il 12 aprile 1609, Mastro Filippo La Rosa, assieme a Vincenzo Scarpaci, fu presente al matrimonio di Elisabetta Bitozzi, figlia di Giacomo Bitozzi (che, come vedremo oltre, era già stato console dei ragusei), con Domenico Cipolla (Cipulla) di la Terra di Caccamo, celebrato in casa (previa dispensa del Vicario Generale Don Francesco Bisso) dal Signor Arciprete Don Pietro Scarpaci Ferro (cfr. AME, Sponsali, vol. 9 f. 54r n. 2). Il giorno 11 Agosto XVa Indizione1642, Mariano La Rosa, figlio del defunto Mastro Filippo, ottenne dal priore fra Gerardo de Gregorio, la concessione di una cappella, sita nella chiesa di S. Francesco d’Assisi, sotto il titolo della Madonna degli Angeli, dove si conservava un «quatro dorato» con la detta immagine. La cappella confinava con quella maggiore, intitolata al santo poverello, e con l’altra dove era riposto il quadro del fu Antonio Zangara (cfr. Atti di S. Francesco d’Assisi di Termini, ms. Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT, f. 279v).
Nel Seicento troviamo che alcuni esponenti di questa famiglia furono dediti alla professione di medico: Matteo junior e il sac. dottor don Pietro (1648-1702).
L’Artium et Medicine Doctor, Matteo La Rosa, si accasò con Maria Di Bartolomeo, appartenente ad un’importante famiglia di rinomati medici termitani, rappresentata dal nonno Clemente, definito per la sua perizia eccellentissimo, e dal padre Francesco. Quest’ultimo, nel suo testamento del 9 giugno 1615 stabilì di voler essere sepolto nel convento di S. Vincenzo dei Domenicani e nella cappella di patronato dedicata ai Santi Cosma e Damiano, ed istituì sua erede universale la moglie Melchiona de Bartholomeo et Arena, ed erede particolare la figlia Maria La Rosa et De Bartholomeo, moglie dell’Artium et Medicine Doctor Matteo La Rosa (ASPT, notar Leonardo Iacino di Termini, vol. 13391, 1655-56, s. n.)
Il medico e teologo Pietro (La) Rosa, fu autore di approfonditi studi di medicina in lingua latina, relativi all’antimonio: Stibium  propugnatum. Scheda apolgetica, Panormi, typis Petri De Isola, 1679; Medicinam aphoristicam, nonché teologici in volgare: La Basilla Opera Tragica (cfr. A. Mongitore, Bibliotheca Sicula sive de scriptoribus Siculis, t. II, Ex typographia Angeli Felicella MDCCXIV, ad vocem, p. 157).
Verso la fine del Cinquecento è attestata a Termini Imerese la figura del console della «nazione ragusea». Nel registro dell’anno 1589-90 degli «Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele città di Termini» (d’ora in poi AMG), in BLT, si conserva la lettera patente, datata 24 giugno IIIa indizione 1590, con la quale venne conferito ad un rappresentante locale il consolato della «nazione ragusea» (consolatus ragusarum nactionis), al fine di tutelare gli interessi dei mercanti ragusei residenti o «degenti» nella cittadina imerese, che costituivano il cardine della colonia. Il documento, infatti, ci informa che Lorenzo Galletti Comes galeani, cioè conte di Gagliano (oggi comune di Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna), console generale della Nazione dei Ragusei degenti e confluenti in Palermo,  elesse il Magnifico Camillo Patteri di Termini, con tutti i relativi privilegi e prerogative. Il Patteri andava a sostituire un compatriota che era stato il precedente console locale, il Magnifico Giacomo Bitozzi (Pitozi), per essere quest’ultimo non più dimorante nella cittadina (cfr. AMG, 1589-90, ms. BLT, ai segni III 10 A 15, senza numerazione).
Da notare che il detto Camillo Patteri, appartenne ad una nobile casata termitana di antica ascendenza pisana, documentata sin dalla fine del secolo XIII, inizialmente inerente al ceto notarile (il cognome Pactieri o Pactieri o Pattieri o del Pattiere, allude probabilmente ad un avo che svolgeva la mansione di patteggiare). Il Patteri, in quanto console di Ragusa dalmata, dovette avere a Termini una propria sede ufficiale ed essere coadiuvato da un apposito ufficio di cancelleria con funzionari ed addetti subalterni (notaio, segretario, scrivano etc.).
La presenza del consolato di Ragusa dalmata a Termini Imerese è documentata ancora alla fine del XVIII sec. E’ attestato, infatti, che Don Leonardo Palmisano ebbe la Patente di Console Raguseo nel 1798 (AMG, ms. BLT, 1798, f. 12).
La documentazione da noi scoperta, pubblicata qui per la prima volta, costituisce una pagina di storia sinora dimenticata, recuperata oggi alla memoria, nonché una testimonianza tangibile dei vicendevoli plurisecolari contatti attraverso l’importantissima rotta marittima che congiungeva Ragusa dalmata con Termini Imerese.
Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra riconoscenza, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare delle fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.

Documento n. 1
Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Sponsali, vol. 3, f. 1r n. 4.
Die 22 [luglio 6a indizione 1577] p[resti]: antonj dj mayo ing[uaggiò]: et sp[usò]: antonj / raguseo cu[m] agatuza f[iglia] dj q[uon]dam xphaofalo [sic, Cristoforo] / rajda testes <….>ano dj rodo et  m[astr]o nic[ola]o lo licco