C’è un detto popolare che non abbiamo mai accolto nelle nostre pubblicazioni di paremiologia dei siciliani: “Quando col vero la mafia contrasta la mafia vince e il vero non basta”.
Non l’abbiamo citato in nessun libro delle nostre pubblicazioni perché lo abbiamo ritenuto esagerazione. Una locuzione che affida alla rima baciata la sua presa tra emotività e facile memorizzazione. Ma, non sembri esagerato il poter ritenere che dopo uno studio su quanto si conosce circa la morte “suicida” di Cosimo Cristina (Termini Imerese 1935 – Ivi 1960) il sinistro detto popolare della esperienza siciliana lascia seri sospetti nel merito della sua “profezia” approssimata alla verità. E questa conclusione a coronamento di tutta una serie di “casi” la cui evidenza mostra come la verità è rimasta impigliata tra autopsie e testimonianze, pareri affrettati e accertamenti inspiegabilmente ignorati, come quello del principio di elementare conoscenza sull’effetto che la velocità di un treno in corsa provoca sullo spostamento per risucchio di oggetti di lieve peso, una delle tante osservazioni rimaste come obliate nella istruttoria del “caso Cristina”. Ma andiamo con ordine.
Cosimo Cristina a venti anni era già collaboratore di quotidiani nazionali ai quali inviava corrispondenze di sue personali ricerche di ambito locale: Palermo, Termini Imerese, Caccamo, Rocca Palumba. Oltre a questo impegno il D’Artagnan di Termini – come veniva goliardicamente definito da amici e conoscenti, per via della barba a pizzo e della vivacità umana che ne caratterizzava l’indole, tale da far rammemorare il noto personaggio dei Tre moschettieri di Dumas – aveva fondato, insieme all’amico Giovanni Cappuzzo, un proprio organo di informazione: “Prospettive Siciliane”. Superfluo aggiungere quali e quanti fastidi le inchieste del giovane Cristina arrecavano alla criminalità organizzata di quegli anni tra Palermo e la provincia. E si dice tra Palermo e il suo territorio senza ignorare che proprio Cristina andava ficcando il naso dovunque fossero capitati o capitassero episodi di chiaro marchio mafioso, come per il caso di risonanza universale dei Monaci di Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. Attività, che faceva e fa dire all’opinione popolare non solamente siciliana: “Se la andava cercando”. E cosa andava cercando l’implacabile giornalista termitano se non proprio la morte per mano mafiosa rimasta, purtroppo, impunita?
Riprendiamo il discorso sulla morte a venticinque anni del coraggioso “eroe antimafia” da alcuni segnali che ci sembrano ancora a distanza di oltre mezzo secolo, significativi per un procedimento di ovvia intuizione: il primo potrebbe essere stato l’improvviso licenziamento dal posto di lavoro presso una torrefazione locale, posto che dopo la morte del giornalista venne offerto e dato a una delle sorelle del “suicidato”, segnale più che clamoroso di quella pax mafiosa che viene suggerita alla famiglia dei dolenti. Quindi gli oggetti rinvenuti accanto al corpo disteso tra i binari della ferrovia, oggetti e carte fuoriuscite dal portafogli della vittima e i biglietti di “scuse” trovati nelle tasche di Cosimo e destinati alla fidanzata e all’amico Cappuzzo , biglietti su cui non furono operati accertamenti calligrafici approfonditi e confronti. Infine la stessa indole del venticinquenne sempre curato nell’abbigliamento e continuamente proiettato a vivere con gioia ed entusiasmo straripante, palesemente con giovanile ardore ispirato da quel senso di giustizia cui si ispira ogni esperienza giovanile, che prova stupore e indignazione a fronte di quanto il mondo dei “grandi”manifesta tra crimini e omertà. Solo una preconcetta e precostituita trama di condiscendenza può proporre come risposta alla morte violenta di un 25enne “D’Artagnan di Termini” la tesi del suicidio.
Qualcosa non ha funzionato bene fin dall’origine delle indagini, infatti tutta l’apparenza nel teatro del ritrovamento del cadavere del Cristina poteva dar credito, anche se con forte stupore, alla tesi del suicidio. Quale certezza maggiore, si direbbe, di un biglietto con le scuse rivolte all’amico e alla fidanzata, come se il preteso suicida non avesse avuto una famiglia con padre madre e tre sorelle? In questi casi tragici, (come poi avrebbe scritto il super poliziotto Angelo Mangano, che aveva fatto riaprire le indagini dopo tanti anni), tra la fretta e la “voce” di chi sparge la semenza del depistaggio, tutto viene trattato sbrigativamente con superficialità nemica di ogni verità. E con quale acume istruttorio minimizzare la testimonianza di Giovanni Cappuzzo, che riferisce dell’avviso che gli era stato dato dal fiduciario di un noto boss mafioso, avviso-consiglio di abbandonare al suo destino l’amico Cosmo Cristina perché già condannato a morte dal “tribunale mafioso”. E le dichiarazioni chiare e forti alla giustizia di quello che dal giorno delle sue rivelazioni sul caso del giornalista era stato definito il Joe Malachi delle Madonie per analogia del suo gesto rivelatore con il caso del famoso pentito americano?
Erano anni in cui il potere mafioso tra Palermo e il suo territorio poteva disporre di influenze politiche, agganci e complicità nei luoghi più insospettabili. E questa è storia che col passare degli anni è venuta al chiara luce. È rimasta viva per la memoria di Cosimo Cristina, per fortuna della buona memoria, la solidarietà della cittadinanza di Termini Imerese, con in testa sia la civica amministrazione sia gli organi d’informazione come Espero e altre nobili sensibilità locali che hanno continuato a celebrare la figura e la tragedia dell’eroe antimafia concittadino, con targhe commemorative, con il dare il nome del giovane giornalista a una via comunale e con frequenti altre annuali pubbliche iniziative. Particolari che non valgono certo quanto la soddisfazione morale e legale di aver visto condannati i responsabili dell’efferato crimine, ma che consegnano alla storia quella verità che si destina a emergere in tanti modi sempre e per tutto, nel tempo. Verità che si sporge più che sufficientemente dalle indagini (esperite in un secondo momento rispetto a quelle seguite all’archiviazione del caso per suicidio, e condotte da Angelo Mangano, il qui prima citato poliziotto commissario poi questore, resosi famoso in seguito alla cattura di Luciano Leggio avvenuta in modo leggendario, per “mano militare” del Mangano).
A leggere il rapporto circa le indagini di Mangano nel quale vengono fatti persino i nomi dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Cristina si resta perplessi. Sembra una dimostrazione “storica” della sentenza proverbiale che abbiamo scritto in apertura di questo medaglione
Che quei due biglietti di “scuse” siano stati la prova regina dalla quale non si sono potuti privare dal tener conto i giudici? Certo, a distanza, adesso, di questo nostro ricordo, di ben sessanta anni dopo, tutto può apparire come a guadare il mondo da un oblò. Ogni giudizio può essere azzardato. Infatti un ultimo tentativo di riaprire il caso della morte di Cosimo Cristina, nel Duemila è stato archiviato perché ritenuto inaccettabile. Accontentiamoci della “sentenza” dei cittadini di Termini, che hanno per conto di una loro libera convinzione esitato un loro verdetto scrivendolo nella targa commemorativa posta nel posto dove venne rinvenuto il corpo del giornalista destinato a inaugurare la lista dei suoi colleghi in seguito uccisi da mano mafiosa. E non solo bisognerà tener conto della costante riproposta della verità dalla consapevolezza e dall’alta sensibilità civile dei termitani e segnatamente dalla Rassegna Espero che ha continuato a far rinverdire la memoria del caso. Inoltre, nel corso degli ultimi anni vi è stato un lento quanto sempre più deciso recupero della memoria storica del coraggioso giornalista, attraverso inchieste comparse su libri e giornali, il lavoro di diverse scuole termitane che hanno incluso nei loro progetti sulla legalità la figura di Cosimo Cristina. Come qui prima detto l’intitolazione di una strada al giovane, ancora una volta su proposta della rivista Espero. Inoltre, l’inserimento del pannello su Cosimo, da parte dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, nella mostra dedicata ai cronisti italiani uccisi. E per il cinquantesimo anniversario della morte del giovane cronista, il 5 maggio del 2010, su iniziativa sempre della rivista Espero, insieme al Comune di Termini Imerese e all’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, è stata collocata una lapide nel luogo in cui venne rinvenuto il corpo.
Breve bibliografia: Luciano Mirone, Gli insabbiati, Luciano Mirone (testi) – Antonio Bonanno (illustrazioni), Il “Giornalista ragazzino” ucciso dalla mafia”; Roberto Serafini Enza Venturelli: Vi racconto il mio Cosimo Cristina.
Mario Grasso