Diverse coincidenze hanno contribuito a far procrastinare studi adeguati a tramandare memoria della figura e delle opere letterarie del monrealese Giovanni Maria Comandé (Monreale 1882 – Roma 1933).
Le ricerche e le esaustive conclusioni proposte dal compianto professore Salvo Zarcone e le schede biografico – critiche amorevolmente pubblicate da Pino Giacopelli non hanno avuto un proseguo rispetto a quanto è dovuto a una figura tutta da riscoprire. Una personalità la cui operosità è inquadrare quella tra la conclusione della stagione verista, la prima Guerra mondiale, il futurismo e l’avvento del fascismo fino ad aggiungere in letteratura i narratori di episodi legati alla Prima guerra Mondiale, definiti in quanto epigoni dell’opera di padre Bresciani, che era stato cappellano militare al fronte “Nipotini di padre Bresciani”. Nonché la prima trancia della storia della letteratura italiana tra le Due Guerre. Senza dubbio un quadro a sé stante della realtà italiana quella in cui il Comandé visse la sua avventura umana concludendola con il suicidio per annegamento nelle acque del Tevere.
Originario di famiglia del ceto medio-alto monrealese Giovanni Maria Comandé era legato fin dalla prima adolescenza da sentimenti di affetto, stima e ammirazione verso uno zio sacerdote, il quale non solo lo aveva convinto a entrare in seminario per i suoi studi ginnasiali e liceali ma aveva operato di tutto affinché il vispo e fantasioso nipote continuasse da seminarista fino a essere ordinato sacerdote. L’obbedienza non corrispondeva però alla inclinazione del giovane Giovanni Maria, il quale dopo alcuni anni di sacerdozio mal sopportato aveva scelto di spretarsi. Decisione che lo aveva condannato all’isolamento civile e alle più avvilenti discriminazioni sociali proprie dell’epoca. Il suo errore è stato quello di restare tra i confini della metaforica cinta daziaria, anche quando aveva ottenuto un posto di lavoro presso la allora famosa impresa editoriale Sandron di Palermo. Qui era rimasto a lavorare e a pubblicare le sue prime opere di narrativa e teatrali.
Ma tutto venne improvvisamente a cambiare quanto Remo Sandron decise di chiudere. Rimasto senza lavoro e in una atmosfera ostile che continuava a vedere nello spretato l’immagine vivente del sacrilegio, Comandè già ben avviato in carriera di commediografo e romanziere, si orientò, finalmente, a favore dell’idea di lasciare Palermo e la sua Monreale e trasferirsi a Roma. Ma qui malgrado gli impegni non solo non riuscì a trovare un lavoro ma si ritrovò in nuove e più stringenti condizioni di disagio. Ed ecco la scelta del tragico finale (1933) nelle acque del Tevere.
Erano anni dei trionfi fascisti e di diffuso pecoreccio non solo politico, al punto da non tener conto del particolare che il Comandé si era fatto onore di combattente al fronte durante la Prima guerra mondiale con il grado di tenente, fronte di guerra dove era rimasto gravemente ferito.
Il suicidio dello scrittore cinquantenne, che sicuramente avrebbe aggiunto opere importanti a quelle esitate negli anni palermitani, venne accolto come una liberazione di un persistere d’imbarazzo nella ipocrita società piccolo borghese palermitana e in quella ancor più provinciale di quegli anni a Monreale, sede di vescovado e seminario irradiante rigorosi pregiudizi religiosi epocali. E fu silenzio sulla tragedia accolta più come un contrappasso per lo scomunicato ex prete che come umana disperata reazione a quello che oggi definiremo mobbing. Negli anni finali della seconda metà del secolo scorso, per iniziativa del poeta e operatore culturale monrealese Pino Giacopelli e la collaborazione del docente universitario e scrittore Salvo Zarcone, vennero attuati momenti di studio e riscoperta delle opere dell’ex prete. Ma poi ancora una volta il silenzio. Ed ecco cosa ha scritto Pino Giacopelli in prefazione alla prima ristampa del romanzo di Comandé che era stato pubblicato da Remo Sandron nel 1930: “ Nel 1995 abbiamo avuto la ventura di ritrovare in un sacco si plastica nero custodito nella Biblioteca Civica di Monreale, una ricca corrispondenza e alcune opere edite e moltissime inedite di un autore monrealese, Giovanni Maria Comandè, della cui figura e della cui opera Salvo Zarcone ed io ci occupammo nell’incontro tenuto a Monreale il 7 giugno 1997. Di lui si era sentito bisbigliare il nome e ricordavamo soltanto di avere visto il suo romanzo Don Giovanni Malizia, pubblicato nel 1930 dalla Sandron di Palermo (…)”.
“Bisbigliare il nome” scrive con appropriato verbo Giacopelli. Ma si è capito quanto c’era da capire dall’uso centrato del più adatto significante.
Il nostro medaglione, come invito a riprendere ricerche e studi su questo autore “minore e dimenticato” si limita al minimo compito di segnalare alcune tra le opere che furono pubblicate, quasi tutte, a puntate sul quotidiano L’Ora prima ancora di essere edite in volume: Zagare e armi, ovvero i ribelli della Conca d’oro, romanzo pubblicato in cinquanta puntate sul quotidiano L’Ora; Quelle altre, Sandron, 1928; Il profumo del vizio e altre novelle d’amore (pensione per persone oneste), edizioni Sandron 1929; Don Giovanni Malizia, romanzo pubblicato in edizione Sandron; A metà della scala; Cani di Lesbo e uomini di Taormina; Un carico di russe; All’arco naturale, anche queste edite da Sandron nel 1929.Mannaggia la pace, romanzo pubblicato a puntate sulla rivista Juventa; Annamaria; Scimmiette di mamà; Rubrichette acerbe, pubblicate anche esse sulla rivista Juvenia.
L’opera narrativa ritenuta più importante pare sia Don Giovanni Malizia, ristampata nel 1999 da Bruno Leopardi editore, di Palermo. Sulla produzione complessiva riportiamo il giudizio dato dal già citato (e compianto) professore Salvo Zarcone che è stato docente di Letteratura italiana nell’Università di Palermo: “(…) nella linearità dei suoi procedimenti narrativi contiene al proprio interno una molteplicità di forme del racconto che si organizzano intorno a tre temi principali: il mondo contadino e l’esaltazione del paesaggio siciliano, in particolare quello monrealese, la storia dei decenni a cavallo dell’unificazione e della transizione a forme statuali stabili ed efficaci e infine, il passaggio da una mafia “buona” e preindustriale alle forme di organizzazione criminale moderna”.
La conclusione per questo narratore sfortunato è invero quella di ricorrere a tirare in causa, appunto, la fortuna finché fu in vita di un artista di palesi e importanti qualità, che avrebbe potuto continuare nella propria maturità in seno alla temperie di rinnovamenti sociali, e politici con opere letterarie coerenti alla sua linea di impegno engagement, ante litteram. Ma c’è tempo, questo almeno si spera, perché Comandé sia studiato e riproposto in misura meglio adeguata ai suoi meriti.
Mario Grasso