Angelo Fiore, uno dei maggiori scrittori siciliani della Letteratura del ’900

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Ricordando in uno dei nostri medaglioni precedenti il poeta palermitano Edoardo Cacciatore insistevamo a far notare il tipo di oblio che la città natale gli aveva riservato in vita e in morte.

Ma con tacita riserva di giustificazioni adducendo che, tra queste poteva aver pesato la scelta del poeta- filosofo panormita di trasferirsi a Roma senza più ritornare nella città delle sue origini. Discorso valido anche per altri casi di scrittori e artisti siciliani della diaspora, dimenticati quasi per punizione della loro fuga dalla terra natale. Una premessa che accingendoci a un medaglione-ricordo per Angelo Fiore riconosciamo che è stata clamorosamente smentita. Infatti Angelo Fiore, nato,vissuto e morto nella propria città di origine, (Palemo 1906 – 1986) senza mai allontanarsene, continua a essere ignorato alla grande, quasi a voler innalzare un muro di silenzio per le sue opere letterarie che costituiscono, ciascuna, un caso di valori letterari in crescendo, da Un caso di coscienza, (Lerici 1963); a  Il supplente (Vallecchi, 1964);  Il lavoratore, e  L’incarico, (Iibidem 1967 e 1970); a L’erede del Beato (Rusconi 1981), capolavoro, quest’ultimo, di indiscutibile valore universale.
Un fenomeno, l’ignorare figure come quella del  citato scrittore, che non agevola i momenti in cui, proprio noi siciliani, dobbiamo dimostrare prove dell’orgoglio di esserlo, contrapponendo alla consueta fama di “mafiosi” quella, di gran lunga vera e incisiva, di essere i conterranei di un universo di intelligenze intellettuali, scienziati e artisti contro una minoranza criminale che sarebbe già potuta da subito e fin dall’insorgere essere ridotta alla inesistenza. Sparita fin dal suo inizio se i governi che trascurano l’aspetto eccelso della antica civiltà siciliana, erede di quella greca e latina fossero stati intenzionalmente risolutivi nei confronti di una forma di criminalità organizzata che sopravvive perché c’è chi continua incoscientemente a lasciarla esistere.
Una tirata che è fuori luogo in questa sede, come sono fuori da ogni ragione civile i comportamenti di una città all’avanguardia di occasioni culturali d’alto momento, come Palermo, riconosciuta “Capitale europea della cultura” anche per i tanti meriti obiettivi agevolati dalle eccelse personalità geniali che vi sono nate e vi continuano a nascere. Meriti non certamente più brillanti per i suoi pregressi di stragi mafiose e altre nefandezze di una criminalità organizzata che dimostra un capo e una rete di evidenti complicità da cui grottescamente si ricava la sensazione di un stato nello Stato, con riferimento a una minoranza che si regge su un tipo di spudorate complicità di pochi e forse noti pupari. Catena di pochi “congiurati” con fini e mezzi capitalistici contro cui non sempre si è proceduto con mezzi e intenzioni definitive da parte di uno Stato capace di dimostrare, purtroppo, ricorrenti incertezze e debolezze più o meno cronicizzate.
Angelo Fiore prima di esercitare l’insegnamento della lingua e della letteratura inglese nell’Istituto statale tecnico commerciale Francesco Crispi di Palermo, quindi dopo la laurea, non era rimasto con le mani in mano, ma aveva lavorato accettando di svolgere vari impieghi per guadagnare quanto gli poteva consentire indipendenza economica. Si è favoleggiato su un suo carattere scontroso e chiuso, in aggiunta al suo peregrinare, specialmente negli ultimi anni della sua vita da un albergo all’altro senza fissa dimora. Favoleggiato fino a creare a carico dello scrittore solitario e sfuggente,  ma non per questo sgarbato, una serie di leggende metropolitane. Insomma sulla condizione di  omosessuale vissuta dallo scrittore con dignitosa e naturale riservatezza sono state create dall’esterno maldicenze più o meno calunniose. Fino a provocare i risentimenti che la sensibilità umana suggerì allo scrittore di ricorrere alla scelta salvifica dell’isolamento. Ed ecco che capitava di anno in anno di ritrovarlo residente in un grande albergo, come poteva essere quella volta al notissimo Albergo Centrale di Palermo o pochi mesi dopo ospitato in una modestissima stanza di locanda in periferia. In questo peregrinare lo accompagnavano due valige. Negli ultimi anni una sola. Un contenitore per non oltre l’indispensabile degli effetti personali per il tutto pronto ai volontari cambi di residenza.
Argomenti ed elementi che per una singolare sensibilità umana dovevano essere normalità pur se contingenza se si considera il rapporto tra la solitudine e la qualità delle scritture narrative esitate. E si aggiunga subito il valore letterario del suo capolavoro finale, L’erede del Beato, la cui risonanza di favorevoli pareri critici ha superato i confini nazionali e quelli europei fin dalla pubblicazione, nel 1981.
Ed ecco la convenienza di tener conto anche delle date di edizione dei lavori di Angelo Fiore, la breve distanza tra le prime raccolte di racconti e dei romanzi e, mano a mano una più consistente misura di anni tra un’opera e l’altra. Dalla consuetudine dei tre quattro anni al progressivo distanziare l’esito della produzione  fino a far trascorrere ben undici anni tra l’edizione de L’incarico da Vallechi nel 1970 e  il capolavoro che è stato vero caso letterario dell’anno e che rimane tra i romanzi più universalmente apprezzati, con L’erede del Beato, da Rusconi.
Evochiamo un episodio quasi folkloristico a carico della memoria di Fiore: negli anni immediatamente seguiti alla morte, un animoso improvvisatore catanese si è incaricato di mettere insieme ambienti e persone di sua esclusiva scelta e di sua incompetente linea, per un convegno di studi sulla vita e le opere di Angelo Fiore. Ma l’improvvisato organizzatore sembrò operare più per propria esibizione di presenza, fosse solo locale, che per consapevolezza del delicato compito di cui si era fatto paladino imponendo per i relatori da convocare inclusioni ed esclusioni, di cui poi abbiamo personalmente saputo da una accorata confidenza fattaci dall’amico Giacinto Spagnoletti. Insomma di tutto un fracasso di esibizioni preliminari rimase il titolo squillante sul valore del romanziere di cui veniva celebrato il ricordo, titolo a lettere grandi e a tutta pagina di una recensione sul quotidiano locale. Del convegno venne solo ricavato quanto meritava la bolla d’aria creata da chi ne aveva maldestramente organizzato la sterile celebrazione-autocelebrzione.
Quanto alla critica delle opere non sono mancate testimonianza serie e autorevoli, da Natale Tedesco a Antonio Di Grado tra i siciliani, a Geno Pampaloni, Giacinto Spagnoletti e Giuseppe Marchetti tra i rappresentanti della critica nazionale.
Il nostro contributo allo studio delle opere e della figura lo abbiamo affidato a due occasioni di cui qui citiamo gli atti in volume riportando di Salvo Mizzi  un brano del saggio da noi richiestogli per Lunarionuovo e ivi pubblicato sul n. 39 anno VIII – Dicembre 1985,  del mensile, allora in edizione cartacea. Salvo Mizzi allora fresco di laurea in filosofia a Napoli, intelligenza straordinaria che già si destinava a quelle luminose carriere che lo hanno accompagnato e continuano a imporlo in responsabilità manageriali internazionali di prim’ordine, attività tutt’altro che letterarie, era in quegli anni per noi un punto di riferimento tra i giovani sulle cui più impegnative collaborazioni a Lunarionuovo potevamo contare. E ci consegnò puntualmente un corposo saggio su Fiore con giudizi puntuali e definitivi di cui qui riportiamo un breve stralcio rinviando gli interessati all’originale. Ha scritto Mizzi a un certo punto del suo straordinario studio
“(…) Ma la grande forza di Fiore, il motivo per cui la sua opera resterà è un altro e ben più profondo, assai diverso dallo stile – per quanto potente -, o della personalità – per quanto complessa. Leggendo Fiore possiamo capire meglio e più a fondo la nostra storia, il passato recente, le contraddizioni e le inerzie della società meridionale, nella sua stratificazione geologica e insensibile, lenta, lentissima, immobile.
Non è che qui si voglia far rientrare dalla finestra l’aureo principio per cui la grande letteratura o è realista o non lo è: in Fiore di realismo non rimane che un’esile traccia che va sbiadendo progressivamente, ed in ogni caso si tratta di un realismo assai stilizzato, secco, talmente monotono da apparire immediatamente simbolico. Eppure questo scrittore metafisico come è stato ripetutamente definito, è tale soltanto in seconda battuta, come risultato, télos, finale, mai come presupposto sterile ed immotivato. La sua opera è il rovescio della medaglia di un Tomasi di Lampedusa, ed entrambi con la loro produzione tardiva, inattuale, apparentemente lontana dalle connotazioni mimetiche della letteratura documento o letteratura testimonianza e pur in una fondamentale diversità che qui è appena il caso di accennare, si danno i frammenti, visionari, metafisici, isolani di un grande movimento storico racchiuso nel grembo del nostro secolo con un’efficacia raramente attinta da altri ben più celebrati autori siciliani. Fiore insomma non solo narra del mondo che ha vissuto, l’ambiente del piccolo funzionario meridionale, ma su quel mondo getta una luce gelida e impietosa, lo segue attraverso la Storia del nostro secolo, ne mette in risalto fremiti, disagi, mentalità e la sostanziale estraneità alla vita che lo caratterizza e gli permette di superare periodi i più diversi mantenendo una sostanziale omogeneità, durata e persistenza (…)”.
Un anno prima, al Convegno di Randazzo, Maria Camilla Bracciante, allora docente di Lettere in un Liceo di Caltagirone, studiosa delle opere di scrittori siciliani, da noi espressamente invitata a occuparsi di Angelo Fiore, aveva anche lei puntualmente portato il suo contributo di cui citiamo un brano significativo invitando anche per questo caso a consultare l’originale completo: “(…)Il rapporto tra realtà e psicologia, se pur richiama l’esperienza narrativa naturalistica e decadentista che ne offrì una visione antitetica parallela e complementare ed ebbe il merito di aprire la via all’indagine introspettiva del realismo critico del Novecento, in Fiore, più che a Gualdo, a Svevo, a De Roberto, Vittorini, richiama all’oltranza concettuale dell’ultimo Pirandello; al travaglio della coscienza in Dostoevskij, alla angoscia esistenziale in  Kafka ed in Sartre, non trascurando le affinità stilistiche, dal fraseggiare secco ed incisivo all’efficace lirismo, che possono rilevarsi in Tozzi, il rigore inventivo e la padronanza del profondo in Pizzuto e la galleria di personaggi uomini senza qualità che richiamano Musil”. (…). (cfr. Maria C. Bracciante in Gli Eredi di Verga, Comune di Randazzo, Catania 1984).
Concludiamo questo medaglione dedicato a uno dei  maggiori scrittori della Letteratura italiana di autori siciliani del ’900 con l’auspicio che il silenzio che fece assurdamente mancare un sol rigo di informazione sulla di lui morte da parte della stampa e /o una sola parola per un pur doveroso annuncio di servizio da parte radiotelevisiva, possa propiziare, intanto e quanto prima nella Palermo della nascita, vita e decesso dello stesso sfortunato Angelo Fiore, un impeto della coscienza culturale della città con i suoi artisti, studiosi, e scrittori che vi operano con benemerenze. Benemerenze cui aggiungere quella di un adeguato segno da proporre e attuare quanto prima anche per sconfessare quanto, chissà per quali coincidenze e congiure celesti, si è omesso inspiegabilmente un quarto di secolo fa. E poi in modo continuativo.
Mario Grasso