In occasione della mostra di 137 ritratti d’autore (Ritrattista, Tina Lo Re) degli scrittori e poeti siciliani, (da Serafino Amabile Guastella a Lara Cardella) incorniciati in cm. 50 x 70; mostra patrocinata dalla Provincia regionale di Palermo e dal suo assessorato P.I e cultura,
retto quella volta dal prof. Tommaso Romano, al successo di risonanze mediatiche, nonché di visite e di incontri giornalieri di scrittori con gli studenti delle Medie superiori della città, si aggiunse una esperienza che non avevamo messa in conto nel momento in cui avevamo incluso tra le schede biografico critiche del volume che accompagnava la mostra, quella del romanziere e giurista palermitano Giuseppe Maggiore (Palermo 1882 – 1954) . Riuscimmo a neutralizzare la burrasca di una pubblica contestazione grazie ad alcuni incontri (notturni), con i due rappresentanti che si erano impegnati a preparare quello che avrebbe potuto accendere un momento di scontri e interventi di forza pubblica. La mostra era aperta al pubblico nell’amplissimo cortile del Liceo Meli, e i 137 quadri sostenuti da cavalletti ne occupavano in lungo l’intera estensione. La miccia era stata accesa dalla lettera di un avvocato e scrittore di Isnello, Ignazio Apolloni, pubblicata nella pagina-epistolario dell’edizione palermitana di la Repubblica. Vi si contestava l’inclusione del nome di Maggiore in catalogo e della rispettiva immagine esposta di quello che era stato tra i firmatari dell’obbrobrioso documento fascista contro gli ebrei. Precisiamo che nel catalogo e nei ritratti della mostra, figuravano sia la scheda biografica e critica di Apolloni che il ritratto esposto in seno alla suddetta mostra. Non solo: al momento della compilazione dell’elenco e alla richiesta di fornire una propria foto, il medesimo aveva avuto l’elenco dei nomi, tra i quali il comitato scientifico aveva era ritenuto, di non potere ignorare le opere letterarie esitate dal predetto Maggiore tra cui il notissimo romanzo capolavoro Sette e mezzo che l’editore Salvatore Fausto Flaccovio aveva continuato a pubblicare in diverse edizioni.
Ovviamente rimanemmo imbarazzati leggendo la protesta dell’avvocato scrittore (e amico) e ci ingegnammo a rintracciarlo. Ma invano, la sua irreperibilità aggiunse altro imbarazzo, anche perché frattanto avevamo saputo che si stava organizzando un gruppo che sarebbe venuto la domenica successiva per inscenare una protesta nella sede della mostra, attuando un’azione vandalica che prevedeva il prelievo del quadro con il ritratto del Maggiore . Allarmati cercammo di correre ai ripari e tramite la mediazione di amici politici riuscimmo a far ascoltare le nostre ragioni a chi già aveva lealmente messo “faccia e nome”.
Del risvolto notturno di trattative per scongiurare quella “congiura”non abbiamo dato alcuna notizia sia perché giocavamo “fuori casa”, da catanesi a Palermo, sia perché abbiamo, dopo due incontri, ottenuto leale dimostrazione di dialogare con persone responsabili (di parte politica estrema) sensibili e disposte a convenire al nostro ragionamento. L’avvocato-scrittore firmatario della lettera a la Repubblica non fu mai presente ai conversari e continuò a farsi negare, da chi rispondeva al telefono. Apprendemmo però che rimase molto contrariato dalla resa alla razionalità che i suoi fiduciari ci avevano lealmente concesso. Acqua passata.
Poiché come avverte il diritto fin dai tempi remoti, “Onus probandi incumbit ei qui dicit” non possiamo produrre prove circa quanto ci veniva riferito sull’ispiratore del peggio che non accadde, ispiratore che sarebbe stato Vincenzo Consolo di concerto con l’avvocato palermitano. Adesso i due scrittori non sono più tra noi e l’unico documento rimasto è quella lettera da cui doveva scaturire la tempesta rientrata.
Le prime osservazioni critiche non proprio entusiaste a carico del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa furono le supposizioni che l’opera fosse rielaborazione del romanzo Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore pubblicato da S. F. Flaccovio nel 1952. Concorreva ad accreditare questa serpeggiante insinuazione la notorietà a Palermo degli stretti vincoli amicali tra i due autori, i quali solevano incontrarsi, quasi quotidianamente, presso la libreria e galleria d’arte di Salvatore Fausto Flaccovio in via Ruggero Settimo. Una frequentazione di cui anche noi abbiamo avuto informazione diretta nel 1967 dal pittore Ermanno Gagliardo, che in quegli anni dirigeva la galleria d’arte appena citata. Frequentazione che per qualche ragione, fosse solo quella della stima reciproca tra i due personaggi, depone a favore della buona fede ideologica del Maggiore, accusato per avere aderito al regime fascista e alla proclamazione delle leggi razziali, macchia indelebile, di cui il responsabile aveva pur reso ampi chiarimenti a discolpa in alcune lettere inviate al giurista Giorgio Del Vecchio. Macchia da cui, invero, era stato liberato dall’intervento personale di Alcide De Gasperi, allora Presidente del Consiglio, e dal ministro della Giustizia del tempo Guido Gonella, che lo aveva reintegrato nella carica di rettore dell’Università di Palermo da cui era stato allontanato qualche anno prima in seguito alla denuncia di chi si era preso briga di far presente i trascorsi fascisti del rettore.
Riprendendo il discorso sulle analogie rilevabili tra Sette e mezzo e Il Gattopardo torna a proposito un lungo articolo di Giuseppe Quatriglio(*) sul Giornale di Sicilia del 21 aprile 1963, di cui riportiamo qui di seguito un eloquente stralcio: “(…) si sa chi era Giuseppe Maggiore, specialmente a Palermo ma del suo romanzo (Sette e mezzo) ambientato in una Palermo agitata dal travaglio unitario si conosce poco: le analogie con Il Gattopardo, lo stesso clima storico del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, perfino un nome uguale nei due libri quello di Fabrizio. C’è abbastanza materia per infiammare non soltanto il mondo delle lettere. (…) quando nel dopoguerra Giuseppe Maggiore fu allontanato dall’insegnamento per il suo passato di aderenza al regime fascista, stanco e sfiduciato pose mano a Sette e mezzo impegnandovi a fondo le sue energie (…). Dopo essersi sufficientemente documentato sulla rivoluzione antiunitaria del 1866 per compilare il romanzo non smise di scrivere un solo giorno.”
A distanza di quindici anni da quell’articolo, noi, in possesso della copia della lettera che Elio Vittorini aveva scritto a Giuseppe Tomasi di Lampedusa con motivazione del rifiuto, e già in ottima amicizia e continue frequentazioni con Giuseppe Quatriglio, che degli anni palermitani di Maggiore e di Tomasi era stato testimone, ricavammo la considerazione di cui qui riportiamo a memoria il concetto e il significato. Secondo l’evidenza, ci ha detto Quatriglio, l’ordito storico dei due romanzi è fotocopia l’uno dell’altro. Unico modello di scheletro su cui furono adattate trame diverse e scritture anch’esse diverse. Non toglierei nulla al valore letterario del Gattopardo ma, l’idea da cui è scaturita la sua trama, sembra a chiunque essere stata attinta a piene mani da I Vicerè di Federico De Roberto e da Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore. La prova della macroscopica fortuna de Il Gattopardo rispetto a quella rimasta limitata a favore di Sette e mezzo, è la rappresentazione della infima forza del un pur prestigioso editore palermitano a confronto con la potenza della Feltrinelli e di tutta la pubblicità diretta e indiretta che al romanzo continuava a piovere proficuamente, per un verso dal rifiuto di Vittorini per conto di Mondadori e Einaudi, in contrasto con l’avallo fattone da Bassani, che aveva fatto stampare l’opera dalla Feltrinelli. Quindi tutta una macchina pubblicitaria e di concomitanze a catena di cui l’editore siciliano non poteva certo disporre per Sette e mezzo. Ovvio che una volta avviato il congegno del grande successo anche all’estero tutto si è continuato a destinare ai risultati che sappiamo.
E si potrebbe aggiungere il peso che gravava sul nome di Giuseppe Maggiore per le ragioni ideologiche strombazzate e forse non poco esagerate. Un successo che, a farci caso, senza nulla togliere al valore comunque straordinario del romanzo di Tomasi, continua a far presa presso una trancia non piccola di lettori su quella frase del cambiar tutto perché tutto possa rimanere come prima, Frase scritta da Federico De Roberto ne I Vicerè mezzo secolo prima. Destino anche per i libri come avevano sentenziato secoli prima i protonannavi latini: habent sua fata libelli.
Noto e molto apprezzato per le sue ricerche e pubblicazioni di ambito giuridico, proprio per i sui studi e la chiara fama di giurista, Giuseppe Maggiore, dopo l’inizio da magistrato era passato alla cattedra di Filosofia del diritto nell’Università di Perugia, prima di essere nominato rettore dell’Università di Palermo. Tra le sue opere di narrativa, anteriori a Sette e mezzo, ci sono stati alcuni romanzi: La vita apparente di un uomo vero (1926); Occhi cangianti (1928); Shiva maestro di danza (1930) tutti editi da Treves, mentre Due in una carne venne pubblicato da Garzanti, nel 1937.
Per il romanzo La vita apparente di un uomo vero G. Filippone in un denso articolo di recensione pubblicato su L’Ora di Palermo, l’8 settembre 1928, aveva scritto. “(…) L’Umorismo di Giuseppe Maggiore è veramente una posizione spirituale così immediata e spontanea nell’opera che sembra sgorghi all’insaputa dell’autore, da ogni parola e da ogni situazione (…)”-
E Giovanni Pasqualino in Volti e pagine di Sicilia, Catania 2001, pag. 129: “(…)I suoi cinque romanzi sono sufficiente titolo di onorevole presenza nella migliore narrativa italiana del Novecento. Maggiore ha rappresentato una Sicilia non solo più triste, romantica, dolorosa ma anche più vera: una Sicilia rivolta non soltanto agli affetti paesaggistici e pittoreschi veri o simbolici; infatti le sue opere rispecchiano sicuramente lo spirito di una terra quanto mai ricca di fermenti (…)”.
Verrà pure il momento per dare il posto che merita tra i maggiori scrittori siciliani del Novecento, (a parte la messe di pubblicazioni scientifiche su argomenti giuridici e della filosofia del Diritto) a questa figura di primo piano della letteratura italiana di autore siciliano, separando le contingenze ideologiche dai perenni valori artistici di una delle genialità creative e intellettuali di giurista,cui Palermo e la Sicilia hanno esclusivo diritto a fregiarsi.
(Mario Grasso)
(*) Su Giuseppe Quatriglio, giornalista e scrittore palermitano, vedasi qui il Medaglione.
Sento il dovere di lasciare un commento a questa pregevole scheda, che a mio avviso rappresenta una pagina di autentica storia della letteratura italiana.
Sento il dovere di farlo, perché riporto la mia testimonianza circa quell’unica quanto originalissima iniziativa culturale nella nostra Palermo, grazie alla geniale intuizione dei maestri Mario Grasso e Tommaso Romano :
Una mostra di 137 ritratti d’autore degli scrittori e poeti siciliani. Quello che Mario Grasso ha omesso di dire, ritengo per modestia, è che l’iniziativa culturale ha portato ad esitare anche un bel libro edito Prova d’Autore ” Volti e Pagine di Sicilia “, il quale oltre a costituire un compendio delle schede sugli scrittori e poeti inclusi nella mostra, è anche un elegante prodotto di editoria.
Parimenti, ancora una volta non posso fare a meno di ammirare il rigore scientifico di intellettuale e di profondo conoscitore della storia di letteratura italiana di autori siciliani di Mario Grasso, che al momento di ricostruire la vera storia ed evoluzione di un’opera letteraria e del suo autore, con coraggio, onestà e serietà non esita a dichiarare il suo pensiero, con la piena consapevolezza che sia scomodo, ma vero, assolutamente vero, anche perché suffragato dalla prova principe, che è quella documentale.
Ancora una volta con questo medaglione Mario Grasso ci offre una pagine di altissima e autentica storia della letteratura.
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