Se per Giuseppe Maggiore le ragioni per rimuoverne la memoria ci sono, e non sarà facile cancellarle, non si potrà dire altrettanto per Romualdo Romano (Palermo 1911 – Roma 2001) contro cui nessun motivo esiste o potrà essere immaginato.
Anzi, a favore di una probabile “riscoperta” di Maggiore, quando proprio tutti avranno dimenticato Razza e fascismo 1939, l’obbrobrioso saggio da lui pubblicato nel 1939, e scoprirà l’inconfutabile valore del suo romanzo Sette e mezzo, scritto nel 1944 e pubblicato da S.F. Flaccovio nel 1952, c’è speranza che qualcosa di concreto potrà muovere fino rendere giustizia alla memoria del romanziere. A costo di continuare a disapprovare imprescindibilmente, quanto contenuto nel saggio suddetto. Per Romualdo Romano non ci saranno altrettante probabilità se la sveglia di uno straccio di adeguata celebrazione non suonerà a “Campane a quattro” titolo del romanzo di Romano seguito quattro anni dopo la edizione del più noto Scirocco, di cui Salvatore Orilia sembra sia stato, quella volta l’unico critico siciliano a occuparsene, fin dal primo momento della pubblicazione,con una nota poi riprodotta nel suo “Scrittori siciliani di ieri e di oggi” (Palermo 1964, “Collana di varia cultura Galatea delle edizioni Sicilia domani” ). Ma ciò che si pone a enigma è, come si annotava a inizio di questo medaglione di brevi appunti che scriviamo avendo a portata di mano in una delle librerie della nostra biblioteca i due qui citati libri di Romano che abbiamo letto in giorni ormai lontani. Su Scirocco abbiamo apprezzato nel 2017 una intelligente nota del poliedrico scrittore-artista-regista napolitano Davide Morganti che, in armonia con quanto avvisa la didascalia della rubrica nella quale venne ospitata la nota-revival, chiude la sua acuta digressione su Scirocco e il suo autore con un centrata considerazione allegorica della sorte del romanzo e del suo autore. Conclude metaforicamente Morganti: “Non trovo più il libro di Romano, mi è caduto mentre entravo nel soggiorno invaso da ogni cianfrusaglia. Sarà un’impresa ritrovarlo in questo inferno di cose, mi manca la forza di farlo. Non lo cercherò, riposi in pace, almeno lui, visto che a me nessuna requie è concessa.”. Altrettanto allusivo il “cappello” alla nota di recensione che è parodia di un brano del romanzo di cui la recensione dovrà essere svolta in armonia all’indirizzo della “Rubrica 2078” che è il seguente: Rubrica 2078 Fifth avenue “La rubrica prende il nome dalla strada in cui vissero i fratelli Collyer noti per aver accumulato un notevole quantitativo di oggetti, tra cui libri e giornali, è un pretesto narrandi per immaginare di avervi trovato libri di autori, che sebbene lontani nella memoria, hanno fortemente contribuito alla letteratura nazionale e poterne raccontare ancora.” Ed ecco la parodia che sceglie il geniale Morganti per incipit della centrata scheda sullo scrittore palermitano obliato: “Non è che mi senta tanto bene, il freddo continua, le pareti sono ghiacciate, il vento rende opache le luci e mi muovo male in questa casa. Il tempo è così lento che mi pare di non esser mai stato vivo, i rumori sono l’unico conforto che ho, le uniche presenze e vorrei non smettessero mai. Di continuo devo stare attento a dove metto i piedi, non sono più giovane e se cado rischio di fare la fine di uno dei fratelli Collyer. Tra poco verrà a piovere, non chiuderò le finestre, la luce è già così fioca. Per pochi giorni mi ha tenuto compagnia il libro di Romualdo Romano, uno scrittore siciliano nato nel 1911 e morto nel 2001”.
Questa intelligente nota di Davide Morganti una volta collegata alla chiave di lettura che vuole la rubrica in cui è apparsa pone seri momenti di riflessione: il primo sulla caratterizzazione dell’opera narrativa di Romualdo Romano e di Scirocco in particolare. Il senso di malessere e di desolazione che già Orilia aveva messo in risalto “(…) in Scirocco tutto appare in un’aura dimessa, sconvolta solamente dalla realistica presenza del vento che descrive e sottolinea le cose come camminasse per le strade di un mondo chiuso in se stesso sommerso, rinserrato entro i termini di una complicità che travolge uomini e cose. Quando comincia a soffiare, tutto sembra assumere un colore nuovo: la banderuola di ferro che si muove sotto la sua spinta, stride con un suono esasperante che penetra nelle vene; a mezzanotte esso poi urla forte e nessuno osa uscire (…)”.
Orripilanti i personaggi dal gestore della locanda guercio, curvo, costantemente ubriaco “con la barba ispida e sporca” (il padre della “Francesina” ); l’ufficiale postale dalla bocca enorme che a ogni parola metteva in mostra “trentadue denti nerissimi” e dagli occhi “piccoli e maliziosi” e la cui moglie dal viso di mostro era alta “almeno due metri”, a Giacomo Terragna anch’egli mostruoso nel corpo e nel comportamento “spilungone che aveva sempre da fare, anche quando non faceva niente”. La Castagneto, località realmente esistente in provincia di Messina, dove è ambientata la trama del romanzo, nella descrizione romanzesca del Romano è il microcosmo dei mostri che a loro volta sembrano filiazione spontanea dall’inquietante rappresentazione del vento di scirocco che dà il titolo al romanzo. Un teatro di personaggi che spaccano la forma in tutte le loro esibizioni, comprese quelle erotiche. Una passerella di mostri che se per un verso sembra parodiare quelli creati dal principe di Palagonia per la sua villa eponima può far pensare al particolare, del tutto autonomo in letteratura, dei donnoni soffici e pelosi de La dama selvatica del catanese, anch’egli finito a Roma, Giuseppe Mazzaglia, autore anche di Ricordo di Anna Paola Spadoni e La pietra di Malantino. Una citazione forse impertinente qui, la nostra, ma sicuramente adatta a poter rinviare a certi momenti, autonomi, della linea narrativa del Romano. Una linea che dal punto di vista del costume e della sua storia riallacceremo, questo sì, ai meriti del siracusano Sebastiano Aglianò di Che cos’è questa Sicilia,saggio di immagini dell’Isola inizio/ metà secolo scorso.
Sia chiaro il concetto da tener presente circa una imprescindibile originalità delle scritture narrative del Romano. Infatti uno dei motivi dell’oblio cui sembra essere stata condannata la sua narrativa potrebbe persino essere questo della originalità di rendere con caricature scuotenti quanto orripilanti fino al surreale più grottesco una verità di fondo che viene sempre rifiutata sotto tutti i cieli, perché la verità offende. Dirò per inciso che qualsiasi messinese, leggendo l’impietoso ritratto che di uno dei simbolici personaggi di Scirocco definito incautamente “messinese”: “ viso da delinquente incrollabile contro il vento” poserebbe il libro e non ne consiglierà lettura mai ad alcuno. Ma questa è una banale battuta.
Concludiamo con una notizia che non riteniamo secondaria rispetto alla carriera di scrittore di Romualdo Romano che fin da giovanissimo fonda fogli letterari e organizza eventi culturali, come annota nella breve nota il qui prima citato Salvatore Orilia nel suo libro, dove tra l’altro, ne indica data di nascita nel 1912, un anno dopo rispetto a quanto si leggerà in seguito in tutte le notizie biografiche dello scrittore. Ed è ancora Orilia che mette in risalto l’assegnazione che ebbe il suo romanzo Scirocco del premio letterario Hemingway. Premio non da poco se andando adesso a spulciare nei relativi archivi prediamo atto di chi erano i giudici e la severità che ne accompagnava le conclusioni:“Hemingway, dopo l’incontro a Cortina con Alberto,(Mondadori, NdT) ha la generosa idea di donare parte dei propri diritti d’autore (la cifra sarà fissata in 100 mila lire) a favore di un premio per un giovane scrittore italiano di talento, giudicato da una scelta giuria. Il premio avrà durata quinquennale e sarà inaugurato nel 1949. Le opere premiate, solo romanzi inediti di autori italiani, usciranno nella “Medusa degli italiani”. Alberto presiede la giuria composta dai membri scelti insieme a Hemingway, ovvero: Dino Buzzati, Remo Cantoni, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Fernanda Pivano, Elio Vittorini e Roberto Cantini segretario. Il primo anno a vincere è il siciliano Romualdo Romano con Scirocco; per i due anni successivi non si troverà invece nessun romanzo degno di essere premiato. Nel 1952 viene assegnato, senza troppo entusiasmo, a due autori, Sergio Maldini con I sognatori e Mario Schettini con Il paese dei bastardi. Dopo altre due edizioni senza vincitori, nel 1955 l’ultimo Premio Hemingway viene assegnato a Sirio Giannini per il racconto La valle bianca “. Altri tempi, si potrà dire, partendo dalle “Centomila lire” e soffermandoci a considerare uno per uno i nomi dei componenti della giuria che ha assegnato il primo premio “al siciliano Romualdo Romano, per il romanzo Scirocco”, siciliano di Palermo che da insegnante elementare era stato ispettore scolastico e insegnante nelle scuole elementari all’estero. Ancora una volta Palermo, ancora una volta un siciliano che s’impone per la propria genialità e la cui memoria sembra essere riservata agli addetti ai lavori, ai quali spetta il dovere di ricordarlo a tutti, specialmente in chi, fuori dall’Isola continua a cogliere dei siciliani e della Sicilia, aspetti bubbonici di una mafia che forse conviene in alto loco possa continuare a imbrattare la immagine di una gens che non ha smesso di scrivere la dolente storia della propria terra anche con i romanzi di Romualdo Romano quando in Scirocco evoca effetti dello scirocco e cento mille realtà umane a metafora di quanto è stato momento pregresso da indagare altrove e quando descrive a futura memoria momenti della vita di relazione e del tempo libero di una emblematica Castagneto persino evocando i cacciatori e la caccia che ancora quella volta si praticava a massacro degli adorni, gli uccelli migratori di passo periodico tra la costa a sud di Messina e la Calabria , che nel romanzo viene descritta in tutti i suoi particolari fino a umanizzare con un pietoso “inconsapevoli” i malcapitati adorni: “ (…) giù i cacciatori rimanevano immobili curvi dietro le feritoie, formavano unico blocco con il muretto di cinta. Gli uccelli inconsapevoli, avanzavano lentamente, costeggiando i fianchi delle colline, sparendo e ricomparendo (…).
Mario Grasso