Accingendoci a scrivere un medaglione per Salvo Zarcone (Palermo 1949 – 2017) riteniamo opportuno una premessa che sia almeno minimamente illuminante per questo nostro omaggio al ricordo di una personalità, della cultura siciliana in generale e palermitana in particolare,
non solo accademica e di narratore e saggista ma di profonde e forti carature umane di cui continuano a essere testimoni i suoi alunni e gli amici. La vita di Salvo Zarcone è stata infatti operosissima e le sue tante opere saggistiche a partire degli approfondimenti sul Meli ne sono testimonianza. La premessa è per spiegare il nostro insolito procedere per il presente medaglione rispetto a tutti gli altri pubblicati prima. Qui svolgeremo un ricordo personale servendoci di una intervista che Salvo Zarcone ha rilasciato nel luglio del 2003. Da tale intervista si ricavano informazioni importanti e si scopre che la vita del futuro saggista e romanziere è stata, specialmente per tutta la sua prima parte giovanile, costellata di strani episodi che egli ha rievocato in nostra presenza nella lunga chiacchierata registrata da Marcella Argento, e pubblicata nell’ottobre del 2003 dalla Casa editrice Prova d’Autore (Visite domiciliari, ed. Prova d’Autore CT, 2003. Cfr. pagg.194 – 2016). Ci agevola dunque in questo piccolo omaggio il particolare dell’avere noi stessi propiziato l’incontro e assistito allo svolgersi dell’intervista che la dott. Argento, (medico chirurgo raffinata frequentatrice di studi letterari e scrittrice, il cui nuovo romanzo a fumetti “San Giuda” viene attualmente pubblicato a puntate mensili su Lunariouovo), ha condotto nel luglio 2003 presso la casa di villeggiatura, del prof. Zarcone alla periferia di Palermo. Ha scritto la Argento: “(…) In campagna dove si è svolta questa mia “visita domiciliare” (…) in un mondo vicinissimo alla natura integra, una casa su un colle in una zona a cavaliere di quella balneare, e dove, vipere, bisce, afidi in genere non mancano, come non mancano le lucciole che proprio lì non sembrano affatto estinte. Infine e ancora c’è la meravigliosa presenza degli uccelli notturni, come quella di un barbagianni che, una volta entrato da una anta della finestra socchiusa, fissava con i suoi caratteristici occhioni grandi e che soltanto dopo essere stato servito da Zarcone che gli aperto l’intera finestra, ha preso il volo con calma e facendo una lenta virata e mezzo giro come per un signorile commiato, è uscito” (…). L’intervista poi è stata incentrata tra gli anni dell’infanzia e rapporti con il fratellino maggiore di Salvo, che era giusto morto prematuramente l’anno prima della intervista da cui traiamo le informazioni, dopo aver superato, quando aveva appena dieci anni, un momento in cui la condanna a morte con soli quindici giorni di vita, diagnosticati dai luminari della oncologia romana di quella volta, si era trasformata nella miracolata rinascita dopo un sol giorno di distanza, in un albergo di Siracusa: “(…) Un brutto periodo dunque quando Salvo aveva solo cinque anni e il suo fratello maggiore che ne aveva dieci si ammalò di tumore al cervelletto. Come una persecuzione, una tremenda tortura, la cefalea aumentava inesorabilmente e in un solo terribile anno divenne quell’immane espansivo mostro che costringeva in pianti lamenti e gridi strazianti il povero ragazzino: la massa cresceva e, diventando sempre più grande, faceva proporzionalmente reagire l’ammalato. Per non far gravare il peso di quella condizione d’angoscia sul piccolo Salvo i genitori cercarono di tenere il più possibile separati i due fratellini ma non potevano impedire, che il più piccolo, pur non potendo ancora spiegarsene la natura, respirasse l’aura di angoscia, la sofferenza del più grande nonché la mancanza di serenità che il tutto evidentemente ingenerava nell’intera famiglia.
Poi la svolta, i cui segni cominciarono con la partenza dei genitori per Roma – Salvo era stato affidato agli zii -, dove avevano portato il figlio malato presso specialisti della capitale, alla ricerca di qualche soluzione terapeutica. Il bambino ormai era allo stremo, aveva un principio di paralisi sistemica da alterazione della vista e un disturbo nella deglutizione che non gli permetteva di nutrirsi, causandogli un deperimento organico generale. Le fitte insistenti al capo, inoltre non gli davano tregua, manifestandosi nella protusione dei globi oculari conseguente all’ipertensione endocranica. A Roma gli specialisti del settore, dopo osservazioni e analisi, avevano pronosticato soltanto quindici giorni di vita al bambino, sembrava che non ci fosse alcuna speranza, ma, di ritorno in Sicilia, i genitori invece di proseguire da Messina verso Palermo, avevano deciso di continuare il viaggio fino a Siracusa. Era il momento del grande fervore per la Madonna delle lacrime e la madre aveva deciso di rivolgere proprio alla Madonna, e nello stesso luogo della miracolosa lacrimazione, una estrema e fiduciosa preghiera. Lasciato il figlio a letto in albergo era andata fino al Santuario a pregare. Al suo ritorno in albergo tutto era cambiato. Aveva lasciato il bambino piangente e disperato in preda ai soliti dolori strazianti e al ritorno lo aveva trovato addormentato e sereno nel riposare. Poteva trattarsi di una pausa, di un semplice momento di rilassamento dopo lo stress del viaggio. Ma al risveglio tutti i sintomi del lungo calvario erano spariti. Ripartirono per Palermo con la speranza e un nodo alla gola. C’era stato già davvero il miracolo? Una volta a casa si cominciò a manifestare più chiaramente la conferma; era finito tutto il male, il ragazzino non gridava più, perché era guarito completamente e di già correva come tutti i suoi compagnetti giocando con serenità.(…)”.
Ma ecco confidenze circa una insolita e curiosa parentesi della vita di Zarcone: “(…) Anche Leonardo Sciascia affermava che in molte famiglie c’è miscuglio di paganesimo e cristianesimo racconta Salvo Zarcone. Mia madre era di Trapani e da lei ho imparato tanto, anche usanze trapanesi, come quella di cucinare il cuscus. Ma nonostante mia madre fosse estremamente cattolica, mi ha insegnato anche a leggere le carte, cosa che ora non faccio più, perché mi disturba. Quando avevo una ventina d’anni invece mi aiutava ad attaccare bottone e a divertirmi, visto che per mezzo del gioco riuscivo facilmente a socializzare, infatti sempre di più molti cominciarono a cercarmi proprio per quello. La stranezza sta nel fatto che, contro il mio volere lo scherzo-gioco è pian piano diventato una cosa seria perché…. ci azzeccavo! All’inizio pensavo che fosse per la furba inventiva generica che, naturalmente poiché si adattava alla vita di tutti, poteva anche prestarsi a una libera interpretazione. In realtà, col tempo le intuizioni cominciarono ad essere precise: nomi, luoghi, date, oggetti. Mi accorsi che le carte erano un pretesto per sviluppare quella che era la mia capacità reale o virtuale di strane intuizioni. È vero che noi crediamo solo a ciò che cade sotto i nostri sensi; queste stranezze invece non possono essere percepite non comunque dai mezzi che siamo abituati a utilizzare.(…)”.
Tutta la “storia” relativa al periodo del “gioco con le carte” è quindi venuta materia per altro romanzo: (…) “Da questa esperienza che l’ha segnato, Zarcone sta prendendo spunto per un’opera di scrittura creativa, tramutando le fasi dei suoi ricordi in invenzione romanzesca. Il romanzo ha un titolo – Zarcone mi confida che identifica sempre i suoi scritti, anche per avere una traccia precisa da seguire – un titolo provvisorio è “L’uomo che leggeva le carte. La narrazione inizia con un indovinello: un proprietario terriero, non potendo muoversi, è costretto a mandare due servi gemelli per indagare e scoprire su certi interessi. Poiché uno dei due messaggeri è menzognero quanto l’altro invece è onesto, escogita l’unica domanda che possa portare alla medesima risposta veritiera. Al ragazzo sincero basterà domandare che cosa ha visto. All’altro bisognerà chiedere il contrario di quel che direbbe suo fratello. A questo punto anche il bugiardo si sottometterà alla genuinità per via di una sorta di deontologia della fandonia (…)”.
Denso di significati sentimentali la felice conclusione del casuale incontro con la collega che sarebbe diventata sua moglie. Si erano casualmente, da sconosciuti, trovati contemporaneamente a chiedere in prestito lo stesso libro in biblioteca. Zarcone però l’ebbe vinta dietro promessa che dopo una settimana lo avrebbe passato alla concorrente rimasta senza. Poi alla data fissata, al contrario di quanto alla futura moglie avevano preavvisato sulla nota non puntualità del collega Zarcone, questi si era presentato puntualissimo con il libro. Gesto che fece disporre la ragazza all’amicizia e a confidare che temeva per il buon esito del suo esame. Al che Zarcone, dopo un momento di riflessione, rispose profetizzandole un trenta e lode. Voto che il professore con cui Rossana (questo il nome) avrebbe sostenuto l’esame non concedeva mai. Ne nacque una sommessa che Rossana era certissima di vincere, perché, appunto, l’esaminatore, non era propenso a scrivere la lode per alcuno. Invece, con stupore anche per i colleghi, la ragazza superò l’esame con un trenta e l’aggiunta della lode! Zarcone aveva vinto la scommessa: “(…) Rossana aveva capito che si trattasse di una pizza al bar, invece per me era una occasione per uscire insieme. Così iniziammo a conoscerci. In questo caso potrebbe dirsi: galeotto fu il libro (…)”.
Presto i due finirono col pronunciare il loro sì all’altare e dopo tanti anni di matrimonio una piccola dimostrazione del loro legame di stima e affetto potrebbe essere quello della dedica che il marito scrive in occasione del suo del suo primo romanzo, (La valigia), a proposito della quale Zarcone ha dichiarato concludendo l’intervista: (…) “La valigia non vuole essere una storia di mafia, ma se questa a Palemo si respira dappertutto, come si può non viverla e non parlarne? (…) Ricordo il mio amico Ninni Cassarà, ricordo che era alto e flessuoso, ma è morto proprio perché pur se flessuoso non si è piegato. L’hanno ammazzato per questo. Ora c’è una via intitolata al suo nome. Palermo è costellata di croci che testimoniano la guerra tra clan mafiosi e fra delinquenti e gente comune. Molti miei amici sono andati via. Quelli che sono rimasti come me, l’hanno fatto perché radicati e forse anche rassegnati. Il Domenico Cuffaro del mio romanzo somiglia a un uomo che ho conosciuto personalmente. Mi avevano nominato amministratore di un condominio e così ero venuto a sapere che c’era il portiere che non aveva libretto del lavoro. Volendolo mettere in regola gli chiesi il libretto. Poco tempo dopo salì a casa mia un certo signore che mi disse. “Lei è giovane, perché deve fare l’amministratore? Mi porti il libretto del portiere”. Alla mia disapprovazione, insisté minaccioso. “Ma lei ha moglie e figli. Chi glielo fa fare?” Fu come un braccio di ferro, ma alla fine non ha vinto nessuno, perché il portiere si è dovuto licenziare. Ho avuto problemi perfino nel fare l’amministratore di un condominio!”.
Mario Grasso