23 maggio 1992 Strage di Capaci: da quell’attentato i germi della ribellione e della rinascita

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23 maggio 2020. Ho un ricordo personale molto intenso del pomeriggio di quel sabato di ventotto anni fa: ricordo la notizia dell’esplosione che rimbalzava nei radiogiornali, l’edizione speciale del TG1 con le prime immagini dell’autostrada sventrata e dei rottami contorti delle auto,

la morte sul colpo dei tre poliziotti di scorta e quella di Falcone e della moglie Francesca nel tragitto da Capaci all’ospedale. Ricordo il silenzio innaturale e  inebetito di chi mi stava vicino o di chi si incontrava per strada: le parole non venivano fuori, rinsecchite in quel grumo di vuoto, incredulità e paura che bloccava lo stomaco e che ciascuno leggeva nello sguardo dell’altro. Poi, dopo ore passate davanti alla tv, tra spezzoni di notizie e immagini che sembravano venire dal Libano o dalla Palestina, qualcosa iniziò a cambiare: l’insofferenza e la rabbia, prima circospette e sussurrate con timore, traboccarono dalle labbra di tutti,  per liberare la frustrazione e dare sfogo alla voglia di fare qualsiasi cosa pur di scrollarsi di dosso il peso immane di una sorta di colpa collettiva di quest’isola, di una Palermo smarrita e senz’anima, abituata a svegliarsi quasi ogni mattina con un’altra lapide e altre corone da collocare sul muro di qualche strada; senza pause e senza tregua, senza mai interrogarsi troppo e senza mai fermare lo sguardo troppo a lungo su qualcuno o su qualcosa, per paura di vedere ciò che non si doveva vedere e di essere dove non si doveva essere. Accadde così, proprio in quei giorni, il miracolo: non di quelli evocati da simulacri di santi barcollanti sui fercoli per i vicoli del centro storico, ma il miracolo di una città che alla fine aveva capito e sentito il disonore della violenza abbattutasi sul Giusto. Furono i giorni dell’indignazione, dei  cortei, delle lenzuola sui balconi, del coraggio crescente di provare ad essere di nuovo cittadini, riscoprendo un legame dimenticato di solidarietà, di dignità, di proposte e di denuncia. Credo che quel clima e quella speranza siano il dono lasciato da Giovanni Falcone, da Francesca Morvillo, da Di Cillo, Montinaro e Schifani a Palermo, alla Sicilia e a tutto il Paese. Un dono che, in forza delle vite stroncate in pochi minuti, è la definitiva e inestinguibile testimonianza di un’intenzione diventata progetto: che questa Sicilia diventasse un luogo dove poter vivere – e morire – in modo normale, senza chinare la testa alle minacce e senza dover sopravvivere tra omertà e paura, ipocrisie e indifferenza. Quel dono sopravvive alla loro morte ed è forse, accanto alla straordinaria opera investigativa del pool antimafia degli anni ’80, l’eredità più incisiva e duratura dei servitori dello Stato. Ho sempre immaginato che nella quotidianità blindata di quegli anni, immersi in un clima greve e pieno di minacce, circondati dalla codardia dei più e dalla gelida ostilità della politica connivente o complice della mafia, ciò che sostenne la determinazione di Falcone e di Borsellino dovette essere la certezza che il cerchio presto si sarebbe spezzato e che, per quanto compresse e nascoste, c’erano pure in questa terra amara ed ingrata i germi della ribellione e della rinascita. Quella fiducia rimbalza da un anno all’altro, alla ricerca di coscienze su cui riflettersi per continuare il cammino. Perché Falcone, Borsellino e il pool  di Palermo non sono soltanto gli autori di una strategia investigativa e giudiziaria innovativa e vincente, ma anche i teorici di una pedagogia civile e laica, costruita su competenza, tenacia, e coraggio, praticabili da chiunque abbia voglia di non trascinare più il peso schiacciante dell’opportunismo, dell’indifferenza e dell’ignavia.
Fausto Clemente