Dalla letteratura al teatro, alla poesia, all’indagine storiografica: un uomo dai vasti interessi, Camilleri, attivo fino all’ultimo.
E, al contempo, uno scrittore popolare, uno storico e un intransigente intellettuale, uno dei pochi, in questi ultimi periodi che, quando è stato necessario, non ha esitato ad alzare la voce, un po’ come faceva Pasolini, come faceva Sciascia.
Non era uno scrittore arroccato e distante. Era un uomo che amava il prossimo, i suoi familiari, in particolare i nipoti e i pronipoti; ma, al di là di tutto, amava la Sicilia di cui gli mancava “u scrusciudu mari”.
La Sicilia c’era sempre in Camilleri, tesa e sottesa, soprattutto in quei grandi affreschi che sono i romanzi storici la cui cifra letteraria ha una valenza particolarissima che forse andrebbe riscoperta.
Ma, ancora di più, c’era in lui quella“sicilitudine” di cui parlava spesso Sciascia, come “stato antropologico dell’essere siciliano”.
Per Camilleri, invece, la “sicilitudine” non era altro che “il lamento che il siciliano fa di sé stesso” una sorta di vittimismo non privo di una certa forma di autocompiacimento.
Camilleri raccontava, sapeva raccontare. Ed era sempre ironico.
Io, che ho avuto il privilegio di conoscerlo perché faceva parte della Giuria del Premio Letterario Elsa Morante (nella foto), di cui anch’io mi onoro di far parte, toccai con mano la sua capacità di trasformare la vita in racconto.
Raccontare, con il suo sorriso sornione, ammiccante e accattivante, ironico, partecipante e partecipativo che gli era tipico, era il suo stesso modo di essere.
La sua narrazione era un filo d’Arianna che ti avviluppava, ti trascinava e ti faceva trovare, senza che neppure te ne accorgessi, in una filigrana narrativa che si dipanava in tanti rivoli.
Oggi esce “Riccardino” il suo ultimo libro che, in qualche modo, ha prolungato di un anno l’ uscita di scena del Maestro.
Il suo è stato un “gioco segreto” come lo chiamerebbe Elsa Morante; un gioco pirandelliano con il tempo: scrivere un romanzo da pubblicare postumo, è stato, forse, uno dei suoi trucchi per beffarsi della morte.
Un’anticipazione in questo senso del suo congedo dalla vita, ce lo aveva dato con “Conversazione su Tiresia”:
“Ho finito…ora devo andare” (pag. 51)
E concludendo il libello con queste parole:
“Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro, ve lo auguro.”
Anche noi ce lo auguriamo e vorremmo diventare tutti, come lui, dei vati, degli indovini, dei Tiresia, degli Omero.
Ce lo annunciò, Camilleri, nel giugno del 2018.
Un anno dopo, il 17 luglio del 2019, se ne andava.
Ma ci aveva già salutato. Aveva fatto il suo dovere di Grande.
In questi giorni, dopo il toccante auto necrologio di Ennio Morricone, mi vien da pensare, appunto, che i Grandi hanno un rapporto grande anche con la Morte.
Pirandello, in questo senso, aveva fatto scuola con “Il fu Mattia Pascal” e quell’indimenticabile “omaggio di un vivo alla sua tomba” .
Ed ecco che l’amico Andrea ci ha salutato con il suo sorriso sempre ironico, sempre beffardo e accattivante, dicendoci: “Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro, ve lo auguro.”
Ce lo auguriamo.
Teresa Triscari