Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950

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Il geomorfologo ungherese Zoltán Ilyés, ha tratteggiato che i sistemi di fortificazione, e relative opere (mura, argini artificiali, fossati, strade militari etc.), costituiscono degli esempi significativi di forme del paesaggio legate all’attività umana (Human landforms) e,

nello specifico, di origine militare, quindi realizzate per fini difensivi e/o offensivi, secondo tecniche progressivamente sviluppatesi ed affinatesi nel corso dei secoli (cfr. Z. Ilyés, Military Activities: Warfare and Defence, in J. Szabó, L. Dávid, D. Lóczy (Eds.), Anthropogenic Geomorphology. A Guide to Man-Made Landforms, Springer, Dordrecht 2010, Chapter 14, pp. 216 e segg.).

Relativamente allo studio delle forme del paesaggio legate all’attività antropica per scopi militari, oltre ai metodi di ricerca propri delle Scienze della Terra, appare imprescindibile il contributo delle discipline legate alle Scienze storiche, quali ad es. l’archivistica, la storia dell’arte e dell’architettura militare, l’archeologia, l’epigrafia, etc.

L’esempio del Castello di Termini Imerese, nonostante che gran parte della fortezza non sia più esistente (ma  della quale rimangono ancora alcuni tratti superstiti di linee difensive o singoli elementi bastionati, oltre a brandelli di strutture murarie, resti di cisterne e qualche casamatta), è particolarmente importante nell’ambito  della  geomorfologia antropogenica,  anche  in  relazione  agli avvenimenti successivi alla sua vandalica distruzione, quali le imponenti modifiche del sito prodotte dalle attività di cava.

Nuovi dati d’archivio, contemporanei alla distruzione della fortezza, recentemente scoperti dagli scriventi e qui resi noti per la prima volta, costituiscono un originale contributo alla ricostruzione delle vicissitudini che portarono allo smantellamento della piazzaforte, collocata in un sito di crinale (o displuvio o spartiacque) secondario, dominante sul territorio circostante, naturalmente difeso ed altamente strategico per il controllo dell’intero golfo di Termini Imerese e del vasto entroterra.

Una fonte di prima mano è costituita dalle deliberazioni municipali di Termini Imerese, suddivise in due serie, rispettivamente denominate di Consiglio Comunale (ai segni DCC) e di Giunta Municipale (ai segni DGM) che si conservano nella Biblioteca Comunale Liciniana di Termini Imerese (d’ora in poi BLT). Soltanto la prima serie, cioè quella delle Delibere del Consiglio Comunale, inizia dall’anno 1860 ed è quella che abbiamo perquisito ai fini della ricerca.

Illuminante è la deliberazione del consiglio civico, datata 14 Giugno 1860 (cfr. DCC, 1860-1862, vol. 1, sindaco Sig. Dott. Don Luigi Marsala, 14 Giugno 1860, Art[icolo]. n. 8, ms. BLT, ai segni DCC 1), ci informa che il Forte fu sottoposto ad un vero e proprio «svaliggiamento [sic] commesso dalla plebaglia» che non ebbe rispetto nemmeno per la chiesa di S. Ferdinando di Castiglia, sino allora di regio patronato (Regia Ecclesia sub titulo Sancti Ferdinandi in Castro Thermarum). Le autorità municipali, da poco insediatesi, riuscirono soltanto, in fretta e furia, a salvare poche cose: in primis «la campana della parrocchia di detto Forte» che fu «collocata a titolo di deposito nella chiesa di S. Carlo [Borromeo]». Nessuna menzione del dipinto, opera del pittore Alessio Geraci, allievo del frescante Vito D’Anna, raffigurante il santo titolare, che doveva essere posto nell’altare maggiore della chiesa eponima e del quale fa cenno il letterato, studioso e critico d’arte palermitano Agostino Gallo (1790-1872) nel suo manoscritto Notizie di artisti Siciliani da collocarsi nei registri secondo l’epoche rispettive che si conserva presso la Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”, ai segni XVH. 20.1, f. 436.

Assieme alla fortezza, quindi, scomparve per sempre anche la chiesa di S. Ferdinando, sorta sul sito del medievale luogo di culto castrense di S. Basilio (per quest’ultimo, pur mancando allo stato attuale delle ricerche documenti probanti, non è da escludere che fosse di regio patronato). A proposito della  parrocchia di S. Ferdinando, rimangono due volumi cartacei manoscritti, contenenti gli atti ecclesiastici relativi ai sacramenti ivi officiati, che si conservano presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese (d’ora in poi AME) e recanti, rispettivamente, le segnature O 116 (1800-23) ed O 117 (1824-60).

Ecco in sintesi la storia controversa di questa parrocchia che si innesta nella diatriba relativa alle cappellanie maggiori dei due regni, rispettivamente di Napoli e di Sicilia. La disputa sorse a seguito dell’ingerenza del Cappellano Maggiore del Regno di Napoli, nell’ordine i monsignori Testa Piccolomini, Capobianco e Gervasi, che, ad onta dei diritti del Cappellano Maggiore del Regno di Sicilia, estesero pervicacemente la loro giurisdizione sulle chiese castrensi dell’Isola, in forza di una certa interpretazione della bolla Convenit di Benedetto XIV (Prospero Lambertini, papa dal 1740 al 1758), datata 6 Luglio 1741 ed accordata al re Carlo III di Borbone, relativi ai diritti del detto Cappellano Maggiore e sulle chiese palatine. Per inciso, soltanto nel Gennaio 1799, per sovrana dichiarazione, la giurisdizione sopra le chiese dei castelli e delle fortezze dell’Isola, tornò in mano al Cappellano Maggiore del Regno di Sicilia, Monsignor Alfonso Airoldi giudice del Tribunale della Regia Monarchia (cfr. Della Chiesa di Ustica e sua dipendenza dal Cappellano Maggiore del Regno di Sicilia. Memoria. Reale Stamperia, Palermo 1807, pp. 37-38).

Nel 1778,  il sac. palermitano Ferdinando Stabile,  avendo avuto in concessione il 13 Giugno, dal Cappellano Maggiore del Regno di Napoli, Monsignor Matteo Gennaro Testa Piccolomini (1708-1782), arcivescovo titolare di Cartagine, le lettere patenti di Regio Paroco [sic], Beneficiale, e Rettore della Chiesa di S. Giacomo del Quartiere militare in Palermo, nonché Vicario Generale del Cappellano Maggiore di Napoli, iniziò ad utilizzare ufficialmente questi titoli e prerogative. Come ebbe a scrivere Candido Aristea (pseudonimo dietro il quale, secondo G. Mira, Bibliografia siciliana etc., G. B. Gaudiano, Palermo 1875, vol. I, p. 54, si celerebbe il palermitano monsignor Simone Judica, mercedario scalzo, cantore ovvero Ciantro della Cappella Palatina), lo Stabile, in forza di tali lettere patenti, nel 1781, a sua volta, spedì la Patente di Cappellano Regio del Castello di Termini al Prete D[on]. Liborio Rini […] senza considerare, che il recinto, e la Chiesa di quel Castello era soggetta all’Arcivescovo di Palermo, da cui si davano le Patenti di confessioni al Cappellano, e che ai Soldati ivi stazionati si amministravano i Sacramenti dalla Chiesa Matrice (cfr. C. Aristea, Difesa dei dritti del Cappellano maggiore del Regno di Sicilia, Solli, Palermo M. DCC. XCIV. p. C). Queste ed altre disposizioni fecero ben presto intervenire la Deputazione del Regno di Sicilia e la curia arcivescovile di Palermo aprendo una lunga ed affatto serena contesa che finì per coinvolgere anche il parlamento siciliano.

Il secondo atto di questa querelle che coinvolse anche il Castello di Termini, è menzionato nei volumi cartacei manoscritti della parrocchia di S. Ferdinando, dove si legge che con regio dispaccio del 6 Gennaio 13a Indizione 1789, Ferdinando di Borbone, IV di Napoli e III di Sicilia, dietro una consulta di Mon[signo].re Capp[ella].no  Maggiore Arc[ivescovo]. Sanchez de Luna, cioè il napoletano Isidoro Sánchez de Luna D’Anna (1705–1786), benedettino, ratificò l’istituzione in parrocchia della detta chiesa. Si oppose fermamente a tale novella istituzione l’arciprete sac. Dottor Don Antonino Sperandeo Ganci (in carica dal 20 Gennaio 1783 sino alla sua morte avvenuta il 12 Gennaio 1817), insistendo sia sul fatto che il castello ricadeva nella diocesi di Palermo e, conseguentemente, la giurisdizione ecclesiastica spettava di diritto, secondo i sacri canoni, alla chiesa madre di Termini, comprensiva dell’intero territorio e gli abitanti, senza alcuna esclusione, sia insistendo anche sull’incompatibilità dovuta alla contiguità eccessiva tra le due parrocchie.

La controffensiva si ebbe il 16 Ottobre 1790, allorché il nuovo Cappellano Maggiore del Regno di Napoli (in carica dal 1789 al 1797), il brindisino monsignor fra Alberto Maria Capobianco (1708-1798) dell’ordine dei predicatori, arcivescovo di Reggio in Calabria (il quale pomposamente si sottoscriveva Archepiscopus Reginus, Metropolitanus Calabriæ, Archimandrita Joppoli, Comes Civitatis Bovæ, Baro Terre Castellaccii, Abbas S. Dionysii, atque Regiarum Ecclesiarum S. Nicolai de Buccisano, Præfectus Regia Universitatis Studiorum hujus Civitatis, Serenissimi Regis utriusque Siciliæ Prælatus Aulicus, Consiliarius, & Major Capellanus), spedì lettere sigillate di fondazione in parrocchia della chiesa del Castello di Termini, e vi istituì il parroco Rini, in virtù del regio dispaccio del 28 Agosto 1790, e sempre in forza della predetta bolla di Benedetto XIV. In tali lettere, si insisteva sul fatto che il recinto fortificato del Castello, di fatto, fosse avulso dalla città di Termini, essendo chiuso da ogni lato e connesso con l’abitato esclusivamente attraverso dei ponti levatoi (quod castrum idem undique sit clausum, & per versatiles pontes solummodo ad ipsum adest iter), e si interdiva del tutto l’ingresso di qualsiasi altro parroco per l’amministrazione dei sacramenti, minacciando sanzioni. Il re, a sua volta, avendo riconosciuto che le annue once 20 del legato del fu D[on]. Cristofaro Pedrosa (già castellano di Termini, che fece testamento il 19 luglio 1640 agli atti di locale notaio Francesco Vassallo), non erano eseguibili a favore della nuova Parrocchia del Castello di Termini per le spese di cera, di lampada etc., volle sostituirlo con il vacante beneficio di S. Angelo lo Scopello di Trapani, pari ad once 84, e tarì 17. [grana] 4. [piccioli] 2., di cui once 7.[tarì] 40 per congrua del parroco, ducati 58 per spese di cera, lampada, e di un Sagrestano, e la somma residua per assegnamento di un Economo Curato. Inoltre, avendo il Rini negli ultimi 6 anni supplito del proprio ad alcune spese necessarie per le suppellettili sacre in detta chiesa, il re gli concedette in compenso un’annata dei frutti del detto beneficio, vacante già da più di due anni (cfr. Della Chiesa di Ustica…cit., Appendice di Documenti, Doc. VII, pp. 8-11).

La nuova parrocchia, pertanto, fu definitivamente affidata alle cure del sac. Beneficiale Liborio Rini Mirabella (m. 26 Settembre 1812 di anni 58 incirca colpito di moto apoplettico), che ebbe concessi anche gli antichi benefici che erano legati al luogo di culto castrense, molti dei quali divenuti meramente nominali, spettanti sulle chiese di «S. Egidio», «S. Margherita», «S. Maria della Consolazione della Terravecchia nella parte inferiore del Castello», della cappella di «S. Antonio Abate nella chiesa Madrice di Termini» e di «S. Lucia». Tanto per far rimanere la cosa in famiglia, la cappellania, invece, fu concessa al fratello sac. Vincenzo Rini Mirabella (cfr. Registri di battesimo, degli sponsali e dei defunti della parrocchia di S. Ferdinando del Castello di Termini, voll. 2, mss. cartacei, 1800-1860, AME). La parrocchia di S. Ferdinando, come risulta dal libro secondo dei battezzati, rimase in funzione sino alla data dell’armistizio, il 31 Maggio 1860, essendo parroco il sac. termitano Ignazio La Cova.

Dopo gli avvenimenti del 1860, il sito della fortezza, almeno nominalmente, rimase di pertinenza militare, comprese le servitù spettanti. Relativamente a diversi forti italiani, tra cui quello di Termini Imerese, il Regio Decreto dato a Torino il 16 Aprile 1862, stabilì la cessazione di tutte le servitù militari disposte dai precedenti regnanti e l’acquisizione al demanio pubblico, essendo declassificate dalle opere di fortificazione e dai posti fortificati dello Stato.

Dopo il selvaggio ed indiscriminato saccheggio del castello, perpetrato da una moltitudine inferocita ed esasperata dai recentissimi cannoneggiamenti sofferti dalla città, proseguì l’implacabile attività di demolizione delle strutture, facilmente depredate ed utilizzate come materiale da costruzione, senza alcun impedimento da parte delle autorità preposte e con il rammarico dei “cultori delle patrie cose”, come si diceva a quel tempo, che si adoperarono per salvare dall’oblio almeno le testimonianze più rilevanti del glorioso passato di questo sito.

Tra le opere d’interesse storico, linguistico, epigrafico ed archeologico, fu recuperata un’importantissima iscrizione monumentale in lingua araba ed in caratteri cufici, datata agli inizi degli anni 60’ del X sec. d. C., essendo in carica l’imam fatimida Al-Mu’izz (341-365 dell’Egira; 952-975 d. C.), relativa al rifacimento del complesso fortificato. L’epigrafe, oggi conservata nel locale museo civico, appare intagliata a rilievo in alcuni conci di una biocalcarenite dai caldi toni giallastri, materiale lapideo che, probabilmente, fu estratto dai depositi marini del Pleistocene inferiore-medio presenti nell’area corrispondente alle attuali piane di Palermo (donde la denominazione commerciale di “Pietra di Palermo”) e di Bagheria (“Pietra dell’Aspra” o “di Solùnto”). I predetti elementi litici «infino [sic] al maggio 1860, erano incastrati nel muro contiguo alla porta meridionale del principal corpo di quel castello», come ci informa il grande arabista siciliano Michele Amari (1806-1889), nella sua opera Le epigrafi arabiche di Sicilia, trascritte tradotte e illustrate, parte prima, L. Pedone-Lauriel, Palermo MDCCCLXXV, p. 11.

L’Amari, ci fornisce ulteriori ragguagli: «il popolo di Termini sollevato, di maggio [sic] 1860, irrompea nel castello; ponea mano a smantellarlo. Generosi e colti cittadini, tra i quali posso nominare il barone Enrico Jannelli, accorsero allora al castello per salvare dalla distruzione ciò che si potesse. La mercé loro, tutte le pietre, comprese le due che si scoprirono nel demolire, furono tolte con diligenza e trasportate alla casa comunale; dove serbansi tuttavia, con altri pregevoli frammenti di antichità greche, romane e del medio evo. Io le studiai a mio bell’agio, andato apposta in Termini, nell’ottobre dello stesso anno 1860. Seppi allora dal Jannelli e da signori Ignazio De Michele e cancelliere Romano, che altre pietre con iscrizioni non si erano trovate: e vidi insieme con quei gentili uomini gli avanzi, o piuttosto lo scheletro del castello, che tuttavia lavoravano ad abbattere e in oggi non ne resta nulla» (cfr. M. Amari, Le epigrafi arabiche di Sicilia…cit., p. 12).

Il castello, saccheggiato e ridotto sempre più ad un coacervo di ruderi, venne ben presto considerato un mero elemento di “disturbo” nel paesaggio urbano. Il 14 Novembre 1865, essendo sindaco Giacinto Lo Faso, il consiglio comunale, su proposta del consigliere Giovanni Marsala, deliberò di chiedere la cessione della Rocca da parte del governo al fine di togliere i «gravi inconvenienti all’ornato pubblico, alla salubrità, e al decoro della città» prodotti dalla «mostruosità» (sic) o «deformità» (sic) costituita «dalle rovine del detto castello».

L’opera devastatrice continuò sino al 1885 c. e da questo vero e proprio “palinsesto” storico ed archeologico fortunosamente furono altresì recuperate delle lapidi funerarie di epoca romana, già reimpiegate come materiali da costruzione nelle strutture murarie della fortezza, che furono acquisite dal locale museo civico da poco istituito (cfr. Livia Bivona, Iscrizioni latine lapidarie del Museo civico di Termini Imerese, G. Bretschneider, Roma 1994, p. 157, 177; O. Belvedere, Elementi della forma urbana, in O. Belvedere, A. Burgio, R. Macaluso, M. S. Rizzo, Termini Imerese. Ricerche di topografia e di archeologia urbana, Palermo 1993, p. 33).

Alla distruzione della stragrande maggioranza delle strutture fortificate fece seguito la modifica sostanziale dell’assetto morfologico della Rocca calcarea giurassico-cretacea. A partire dal 1873, infatti, furono aperte alcune cave di pietra calcarea, a cielo aperto, per estrarre il materiale lapideo, necessario per la realizzazione della struttura a gettata di massi, con cui fondare l’originario molo di sopraflutto dell’erigendo porto che, attorno al 1914, risultò già finito nella sua orditura principale (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centrosettentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina, 2019, p. 66). In conseguenza di tale attività estrattiva, si ebbe lo stravolgimento paesaggistico della Rocca e della relativa fascia costiera tanto che l’aspetto anteriore all’apertura delle cave non è oggi, in gran parte, più riconoscibile. Soltanto attraverso l’analisi complessiva della cartografia storica sinora nota, relativa al Castello di Termini Imerese (cfr. L. Dufour, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta 1500-1823. Lombardi, Siracusa  1992, 503 pp.), è possibile ricostruire il paesaggio anteriormente alla distruzione del Real Forte ed alla devastante attività estrattiva. Scomparve, anzitutto, lo spettacolare promontorio roccioso denominato “Muso di Lupa”, che riparava la rada, proteggendo il mare di pertinenza dell’antica tonnara di Termini (cfr. P. Bova – A. Contino, Termini Imerese, dal XII al XVI secolo: il promontorio scomparso di “Muso di Lupa” e la tonnara, in questa testata online, Domenica, 12 Gennaio 2020) ed il relativo ecosistema costiero, reso ancor più punteggiato, per la presenza di una secca sottomarina sulla quale furono fondate le strutture del molo di sopraflutto o diga foranea.

L’aspetto paesaggistico della parte più elevata della Rocca, precedente al 1860, è stato totalmente stravolto a causa dell’attività delle cave predette che hanno letteralmente aggredito, quasi da ogni lato, distrutto o snaturato le forme del rilievo esistenti, cancellando letteralmente una parte geologicamente recente della storia geomorfologica di questo sito. Basta sottolineare che persino il culmine fu abbassato di almeno 6 metri.

Fortunatamente, possiamo farci almeno un’idea di come fosse la Rocca prima del 1860, grazie al pittore e studioso d’arte locale Ignazio De Michele Di Littri (n. 1810), autore di un olio su tela, databile alla prima metà del XIX sec. (nella foto), che si conserva nella sezione ottocentesca della pinacoteca del museo civico di Termini Imerese. Si tratta di una veduta abbastanza fedele della Rocca e del Castello di Termini Imerese, vista da un’ottimale angolazione prospettica, cioè dal palazzo De Michele sito nel Piano di S. Caterina, oggi Piazza S. Giovanni (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 64).

Analizzando attentamente l’iconografia di questo importante dipinto, si evincono dei dettagli, totalmente sfuggiti agli studiosi precedenti, che evidenziamo qui per la prima volta. Innanzitutto, la vetta rocciosa era costituita da due creste, sulla più alta delle quali si ergeva la torre principale (o mastio), quest’ultima, limitata  a NO da un impluvio che nell’opera ottocentesca del De Michele appare regimato da un collettore artificiale che doveva avere la funzione di convogliare le acque che fluivano in tempo di pioggia, proteggendo le strutture fortificate da eventuali danni prodotti.

Inoltre, dal punto di vista geologico, le due creste corrispondevano ad altrettanti grandi corpi calcarei, pendenti verso N con una inclinazione sull’orizzontale di una quarantina di gradi sessagesimali.

Per comprendere la genesi di questi due cospicui corpi rocciosi carbonatici, bisogna tornare indietro nel tempo geologico di c. 150 milioni di anni, quando si depositarono, sotto forma di flussi di detrito (debris flow), in un bacino marino, aperto e relativamente profondo, che nella letteratura geologica è detto Imerese (perché la successione-tipo oggi affiora soprattutto nei Monti di Termini Imerese), nell’antico margine continentale africano (quest’ultimo era separato da quello europeo per mezzo dello scomparso oceano della Tetide, cfr. ad es. L. M. Schoenbohm, Continental–continental collision zone, in: J. Shroder & L. A. Owen, eds., Treatise on Geomorphology, Academic Press, San Diego, CA, vol. 5, Tectonic Geomorphology, 2013, pp. 13–36). I due predetti megacorpi di brecce calcaree grigiastre del Giurassico superiore (Formazione Crisanti, membro delle Brecce ad Ellipsactinia del Titonico), furono originati dall’accumulo, in una scarpata sottomarina, di cospicui volumi di frammenti di varia pezzatura, che in seguito litificarono, derivanti dallo smantellamento di depositi calcarei tipici di un contiguo ambiente marino poco profondo (il cosiddetto dominio di piattaforma Panormide). I due corpi dovevano essere separati da un contatto erosivo, verosimilmente legato ad un canyon sottomarino.

Successivamente, nel Terziario, i movimenti tettonici compressivi, legati all’interazione reciproca tra la placca continentale europea e quella africana, produssero nei rispettivi paleomargini imponenti fenomeni di raccorciamento (generando pieghe, faglie inverse e sovrascorrimenti). In tale contesto, furono coinvolti anche i depositi del bacino Imerese che vennero sradicati, traslati, piegati, fagliati ed accavallati sino ad essere inglobati nella catena montuosa siciliana, oggi orientata E-O (per ulteriori approfondimenti, cfr. R. Catalano, G. Avellone, L. Basilone, A. Contino, M. Agate, Note illustrative della Carta Geologica d’Italia alla scala 1: 50000 del foglio 609-596 “Termini Imerese”-“Capo Plaia”, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Servizio Geologico d’Italia, Dipartimento di Geologia e Geodesia dell’Università degli Studi di Palermo, 2011, 224 pp.).

Le fasi distensive, innescatesi tra la fine del Terziario e gli inizi del Quaternario, generalmente ritenute un effetto dell’apertura del Tirreno, determinarono il parziale collasso della catena, generando faglie dirette che hanno dato origine ad un’alternanza di blocchi variamente abbassati (fosse tettoniche o graben) o sollevati (pilastri tettonici o horst, quale l’alto morfostrutturale della Rocca). Il sollevamento tettonico regionale ha poi determinato estese azioni di erosione selettiva che hanno sempre più evidenziato morfologicamente il rilievo isolato della Rocca (costituito da rocce dolomitiche, silicee e calcaree, relativamente più resistenti all’erosione), mentre nelle aree circostanti, i depositi prevalentemente argillosi, più erodibili, hanno subito il progressivo abbassamento della superficie topografica. La presenza nella successione Imerese affiorante nella Rocca, di un’alternanza di orizzonti più erodibili e più resistenti all’erosione ha  dato origine a pittoresche forme del rilievo caratterizzate da pendii acclivi dolomitici o da alte creste calcaree che si intervallano con declivi più morbidi corrispondenti ai livelli silicei (hard-on-soft landforms). Pertanto, l’erosione selettiva, agendo sulla vetta della Rocca, ha messo in evidenza morfologica i due megacorpi calcarei dando vita alle duplici creste rocciose, dalle scarpate molto acclivi, separate dall’impluvio impostatosi lungo una discontinuità preesistente, cioè l’antico canale erosivo sottomarino fossile di c. 150 milioni di anni.

Queste ed altre testimonianze della lunga storia geologica della Rocca sparirono definitivamente man mano che le cave modificarono irrimediabilmente l’aspetto paesaggistico di questo pittoresco sito, già naturalmente fortificato. Le cave, infatti, distrussero ogni traccia degli elementi morfologici che dovevano costituire una delle più suggestive testimonianze presenti nel golfo di Termini Imerese degli effetti combinati, sia delle ripetute oscillazioni del livello relativo del mare, sia del sollevamento costiero legato alla tettonica quaternaria. Tali elementi morfologici, attestanti l’esistenza di una costa fossile, quali le falesie, i solchi di battente ed anche diverse grotte (usate come deposito nel XVII sec.). La grotta principale, detta ‘di Impallaria’ nel XVII sec., si apriva alla base di una lunga parete rocciosa a spiovente, con altezza massima di circa 15 m, che rappresentava la maggiore delle falesie fossili. La pittoresca parete rocciosa a strapiombo, è chiaramente raffigurata nel precitato dipinto del De Michele (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 64). Le cavità site la base delle falesie fossili, erano state prodotte dall’azione combinata di fenomeni di dissoluzione carsica e del modellamento operato dal mare e, soprattutto, dal moto ondoso, sul calcari giurassici della Rocca.

Nonostante lo scempio prodotto dalle cave, ancor oggi, però, alla quota grossomodo corrispondente alla base delle falesie distrutte, si rinvengono lembi di depositi marini di spiaggia, ciottoloso-sabbiosi, con tutta probabilità testimonianti dell’esistenza di piccole baie, intervallate da scogliere rocciose interessate dalla presenza di una piattaforma d’abrasione fossile di una certa ampiezza. Questi depositi, scoperti da uno degli scriventi negli anni 80’ del XX sec., sono discordanti sui calcari giurassici della Rocca, tramite una superficie di erosione marina, molto articolata alla scala dell’affioramento. La quota di tali depositi (c. 75-76 m s.l.m.) è compatibile con le fasi trasgressive del Pleistocene medio, legate all’instaurarsi di condizioni climatiche calde che, provocando la fusione ed il conseguente arretramento delle coltri glaciali, cagionavano l’innalzamento del livello generale del mare. Pertanto, proprio durante una di tali fasi, la vetta della Rocca del Castello doveva presentarsi totalmente separata dalla terraferma, a formare un grande isolotto, bordato da una costa rocciosa intensamente modellata dall’azione del mare e degli agenti esogeni. Nelle fasi climatiche fredde, al contrario, si aveva l’espansione delle coltri glaciali che, sottraendo una cospicua aliquota idrica, cagionavano l’abbassamento del livello generale del mare ed il conseguente spostamento verso il largo della linea di costa.

Gli effetti del sollevamento regionale, sovrapponendosi a quelli prodotti dalle oscillazioni climatiche quaternarie, finirono poi per far emergere definitivamente la predetta linea di riva, divenuta ormai “fossile”, comprese le superfici di abrasione, le falesie e le grotte marine. Queste ultime, verso la fine del Pleistocene superiore, ospitarono più volte l’uomo preistorico (cfr. A. Contino, Aqua Himerae...cit., pp. 36-37).

Riguardo alle grotte summenzionate, lo storico locale sac. Vincenzo Solìto (cfr. V. Solìto, Termini Himerese posta in Teatro etc., tomo I, Dell’Isola, Palermo 1669, p. 120) rammenta l’interessante tradizione orale secondo la quale dei nuclei familiari musulmani le scelsero come loro dimora: «per memoria da Padri à [sic] figliuoli si crede che à [sic] quei tempi quei Saraceni (….) habitassero [sic] vicino al Castello, e come animali nelle grotte sotto al Castello medesimo». A nostro avviso, questa fonte orale rimanda ad una tradizione attendibile, viste le ben note abitudini trogloditiche delle popolazioni berbere islamizzate. Interpretiamo ciò come indizio della presenza, nell’area di pertinenza del castello, di insediamenti trogloditici berberi, magari eredità di precedenti abitati rupestri bizantini, non a caso, in un settore già frequentato sin dalla preistoria.

L’antica fortezza medievale, per la quale si può postulare un incastellamento bizantino (kàstron), come sembra far propendere la presenza di un luogo di culto castrense dedicato proprio a S. Basilio di Cesarea detto il Grande (uno dei quattro padri della chiesa greca assieme a S. Gregorio di Nazianzio, S. Giovanni Crisostomo e S. Atanasio), sito nell’area di pertinenza della torre principale o mastio del castello. A ciò si aggiungono anche i ripetuti tentativi da parte dei Bizantini di riappropriarsi della fortezza termitana che ebbero successo nel 957 con l’impresa dell’intrepido Basilio, protocarebo, cioè capitano di vascello (cfr. M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, vol. II, pp. 251-252), e nel 964 d. C. (cfr. M. Amari, Storia dei Musulmani..cit., II, pp. 263-264).

L’incastellamento bizantino, a sua volta, dovette riutilizzare il sito dell’antichissima acropoli di un centro indigeno, verosimilmente ellenizzato dagli imeresi, forse già durante l’età arcaica e classica e, successivamente, importante centro fortificato (phrourion) cartaginese ed ellenistico, oppidum romano (dal 252 a. C., durante le prima guerra punica), indi considerevole colonia augustea.

Evidenziamo, qui per la prima volta, la rilevanza della presenza, nel sito dell’antichissima acropoli, di un grande slargo (sin dal medioevo destinato a piazza d’armi), vero e proprio punto di osservazione privilegiato, chiaramente ubicato sul fianco orientale, in posizione nettamente eccentrica rispetto al cosiddetto mastio, peraltro non lontano dall’ingresso meridionale. In ambito mediorientale, le fortezze erano caratterizzate dalla presenza di una torre maggiore (nelle lingue semitiche denominata con le grafie MGDL\MQTL, letta variamente in maqtal o migdal o mogdul, cfr. ad es. C. R. Krahmalkov, A Phoenician-Punic Grammar, Brill, Leiden 2001, p. 128), mentre il grande piazzale risultava decentrato. Ciò ci induce a ritenere che questa peculiarità, attestata nel castello di Termini Imerese, non sia affatto casuale, bensì possa essere interpretata come un retaggio della pianificazione relativa all’impianto cartaginese della fortezza, secondo consuetudini ben documentate nel cosiddetto “mondo punico” (cioè nell’ambito dei discendenti dei colonizzatori fenici viventi soprattutto nel Mediterraneo centro-occidentale, cfr. S. Moscati, Fenicio o punico o Cartaginese, “Rivista di Studi Fenici”, 16, pp. 3‐13). Esempi di tale pianificazione militare cartaginese sono stati messi in evidenza in diversi siti punici della Sardegna (cfr. F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sardegna Archeologica, Studi e Monumenti 3, Prima ristampa 1988, Carlo Delfino editore, p. 79). Del resto, dopo la distruzione della vicina colonia greca di Imera, Termini Imerese (Θερμαί Thermai o Θέρμα Therma, secondo le fonti greche, toponimo derivato dalle sorgenti termali che si ritiene siano state cantate da Pindaro nella XII ode olimpica), sorse de facto nel 407 a. C., proprio come città fortificata cartaginese, con dei volontari militari provenienti dalla Libia di quella epoca (cfr. Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XIII, 79, 7-8) e, secondo una tradizione riportata da Marco Tullio Cicerone nelle sue Verrine (cfr. Verr., II, 35, 86), accogliendo anche i profughi imeresi (cfr. D. Mertens, Griechen und Punier. Selinunt nach 409 v. Chr. “Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, römische Abteilung”, 1997, 104, pp. 301‐320).

Purtroppo, le successive vicissitudini del sito e, soprattutto, l’attività di cava, hanno irrimediabilmente cancellato, senza rimedio, uno straordinario “scrigno” archeologico lasciando labili tracce della frequentazione antica del sito, quali i resti di alcune grandi cisterne, rivestite in cocciopesto (opus signinum), tradizionalmente ritenute ellenistiche o romane (cfr. O. Belvedere, Elementi della forma urbana…cit., pp. 33-34).

Il kàstron bizantino fu verosimilmente soppiantato dal qal‘at arabo, come abbiamo visto, restaurato nel X sec. d. C. e menzionato due secoli dopo dal geografo islamico, attivo presso la corte normanna, al-Idrīsī (italianizzato in Idrisi, n. c. 1100; m. 1164-1165): «fortezza nuova» edificata «sopra un poggio che sta a cavaliere sul mare» (cfr. M. Amari – G. Schiaparelli, L’Italia descritta nel «Libro del Re Ruggero» compilato da Edrisi. Memoria letta nella seduta del 17 dicembre 1876, “Atti della Reale Accademia dei Lincei”, anno CCLXXIV, 1876-77, serie seconda, vol. VIII, Salviucci, Roma 1883, pp. 27-28).

Il castello, uno dei più importanti fortilizi normanni (cfr. H. Bresc, L’incastellamento in Sicilia, in M. D’Onofrio, a cura di, I Normanni popolo d’Europa 1030-1200, Venezia 1994, pp. 217-220; F. Maurici, Castelli medievali di Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’Isola, Regione siciliana. Assessorato dei beni culturali ambientali e della pubblica istruzione, Palermo 2001, 478 pp.), si ergeva in tutta la sua imponenza, esclusivamente sulla parte più elevata, naturalmente protetta dalla naturale conformazione geologica della Rocca (quest’ultima con sviluppo E-O, non a caso secondo la direzione degli strati rocciosi, immergenti a N).

L’antica fortezza, retta da un castellano, che comandava la guarnigione, era parte integrante di una vasta rete di castelli demaniali, di proprietà regia, o castra regii demanii (cfr. H. Bresc – F. Maurici, I castelli demaniali della Sicilia (secoli XIII-XV), in F. Panero – G. Pinto, a cura di, Castelli e fortezze nelle città italiane e nei centri minori italiani (secoli XIII-XV), Cherasco, Centro Internazionale di Ricerca sui Beni Culturali, 2009, pp. 271-317).

Il castello medievale era servito da due ben protetti ingressi, provvisti di archivolti a sesto acuto, uno settentrionale ed uno meridionale. L’asse viario (ruga) di S. Basilio (Ruga Sancti Basili), che a N conduceva al castello, iniziava dal Piano di S. Caterina, fiancheggiato dalle abitazioni di privati cittadini, che da un lato si addossavano ai fianchi dello sprone roccioso della Rocca dell’Orologio (dalla forma di piramide a base triangolare, che si ergeva isolato immediatamente ad occidente dalla vetta della Rocca del Castello ed era così nominato per l’esistenza di un orologio solare). La strada, fiancheggiando l’alta falesia della Rocca, attraverso un’erta salita accedeva alla porta settentrionale della fortezza. La strada di S. Basilio, proseguendo dentro il perimetro fortificato, dopo aver superato, con andamento sinuoso, vari dislivelli altimetrici, raggiungeva il culmine, dove si ergeva la massiccia struttura della torre principale, dotata di baglio, con l’omonima chiesa castrense, affidata ad un apposito cappellano, dipendente come giurisdizione dal Cappellano Maggiore di Sicilia (dal XVI dal Giudice della Regia Monarchia), per l’assistenza spirituale dei militari e dei carcerati, mentre al controllo di un custode erano assegnate le oscure e malsane prigioni (donde l’altra denominazione di Ruga ad carceres Sancti Basili). Nel 1571, l’assetto medievale del complesso mastio-carceri-chiesa castrense, fu profondamente ed irrimediabilmente stravolto da un evento imprevisto e catastrofico: la formidabile esplosione della polveriera, causata da un fulmine che colpo la torre principale (i documenti degli anni 90’ del Cinquecento, che accennano all’incendio del Borgo, nel colorito linguaggio del tempo, utilizzano spesso lemmi siciliani, parlando di «trono», cioè tuono). Sulla scorta di eventi similari, riportati da diaristi palermitani del Cinquecento (come quello del castello a mare di Palermo del 19 Agosto 1592, cfr. F. Paruta e N. Palmerino, Diario della città di Palermo in G. Di Marzo, Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX: pubblicati sui manoscritti della Biblioteca comunale di Palermo, “Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, ossia raccolta di opere inedite o rare di scrittori siciliani dal XVI al XIX secolo”, Biblioteca comunale di Palermo, L. Pedone Lauriel, Palermo 1869, vol. I, pp. 132-133), possiamo verosimilmente ipotizzare che l’incendio delle polveri dovette provocare una terribile deflagrazione, che generò un’onda d’urto a bassa frequenza, udibile sotto forma di boato formidabile, che dovette essere percepita anche a decine di chilometri di distanza. Il castello e l’abitato dovettero essere scossi dalle fondamenta e non è da escludere che si ebbero crolli e lesioni agli edifici, nonché episodi di panico nella popolazione. Subito dopo, si dovette avere una ricaduta (fallout) di materiali proiettati dall’esplosione che si riversarono sotto forma di un nugolo di detriti e di spezzoni lignei ardenti. I primi, ricadendo provocarono vari danni, mentre i secondi, innescarono degli incendi che si estesero inesorabilmente, avendo facile presa sulle onnipresenti strutture lignee delle abitazioni ed oltrepassando facilmente gli angusti vicoli (vanelle), si estese a macchia d’olio, bruciando gran parte dell’antico quartiere della Terravecchia o Vecchio o del Borgo o del Rabato, dentro le mura civiche (intra moenia), che si allargava tutto attorno alla fortezza medievale, comprendendo anche il sito dell’attuale Via Serpentina Paolo Balsamo, che infatti rimase in buona parte privo di edifici (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 48 e pp. 182-184). Una nube di fumo, denso ed acre, dovette avviluppare la fortezza e la città in una cappa nera ed opprimente. Non è noto, allo stato attuale delle ricerche, né il mese, né il giorno dell’evento, né tampoco l’entità dei danni in termini economici e di vite umane. Questo fu uno degli avvenimenti che segnarono il definitivo tramonto della città medievale.

Per quanto riguarda la porta meridionale, elemento sopravvissuto del castello medievale, sappiamo che, sino alla sua demolizione (già avvenuta nell’ottobre 1860), si presentava nella sua struttura costituita da due arcate a sesto acuto, ubicate una dietro l’altra (altezza massima di circa 6 m). Di essa esiste una interessante raffigurazione del 1858, riprodotta nella predetta opera dell’Amari (cfr. Le epigrafi arabiche di Sicilia…cit., p. 12), dove il grande arabista racconta il lungo iter che gli consentì di acquisire le informazioni di base relative alla già citata epigrafe araba ed alla sua collocazione a tergo della porta meridionale del castello, anteriormente al fatidico 1860: «Di cotesta iscrizione io feci parola nella Storia dei Musulmani di Sicilia, tomo II, pag. 274, nota 3, accennando alla speranza che un giorno la si potesse legger meglio. E poiché m’era tolto, quand’io pubblicai quel volume, di tornare in Sicilia, volli procacciarmi delle impronte su carta, sì di questo e sì d’ogni altro monumento d’epigrafia arabica che possediamo in Sicilia. Non era facil cosa allora a ritrarre un cantuccio dell’innocuo castello di Termini. Ci si provò, primo, il mio ottimo amico, e in oggi carissimo congiunto, Francesco Sabatier, in un viaggio ch’ei fece in Sicilia nella primavera del 1858, per istudiare i monumenti dell’antichità e del medio evo. Ma il comandante del castello, dopo averlo cortesemente accolto e mostratagli la iscrizione, ricusò di farne levare le impronte. Per l’amor del cielo, gli disse, io sarei denunziato se vi vedessero con un lapis in mano in questo castello! Io ho gli ordini più severi. E lo accomiatò. Rivoltomi allora al duca di Serradifalco [Domenico Lo Faso e Pietrasanta, 1783-1863, archeologo, architetto, letterato e patriota], benemerito dell’archeologia e volenteroso ad aiutarmi in quelle mie ricerche, ei prese altro cammino, e riuscì nell’intento. Chiestane licenza al comandante generale in Palermo, egli mandò in Termini persona abile, accompagnata dal professor Salvatore Cusa [1821-1893], che fin d’allora insegnava paleografia greca ed arabica nell’Archivio regio di Sicilia. E così, allo scorcio dello stesso anno 1858, io m’ebbi in Parigi una bella impronta della iscrizione e di più un disegnetto colorato del muro dov’essa era incastrata e della porta attigua. La curiosità nostra, dico del Serradifalco, del Cusa e mia, non fu soddisfatta con ciò. S’era accorto il Cusa che la iscrizione continuava sotto una fabbrica aggiunta; se n’era accertato facendovi praticare un buco. Ma la cosa restò lì. Regnando Ferdinando II che avea in uggia e in sospetto perfin l’abbiccì, non era da sperare che si mettesse la martellina nella casa d’un castellano, per far piacere ad archeologi ed orientalisti».

L’Amari (cfr. Le epigrafi arabiche di Sicilia…cit., p. 17), concludendo la sua disamina scrisse: «Maggior voglia avrei, ma non meno scarsi mezzi, di investigare se quella piccola porta coll’arco aguzzo che si vede nel disegno, si possa riferire alla dominazione musulmana. Invero non sarebbe impossibile, né inverosimil cosa, che la iscrizione disposta in tredici righi, fosse stata murata a tempi di Moezz, proprio su la porta; e che poi, rimutando l’edifizio e rifacendo il rivestimento del muro, sia parso bello di stender quel rabeschi in unica fila. Da un altro canto, l’arco acuto potrebbe essere opera di secoli posteriori; per esempio, di re Federigo, dopo la occupazione di Carlo di Valois; ovvero di alcun barone, nell’anarchia feudale che straziò la Sicilia, correndo lo stesso secolo XIV. Ma difficil era a sciogliere cotesto problema avanti il maggio 1860; difficilissimo nell’ottobre seguente, quando non rimaneva altro che il masso della muraglia; impossibile oggidì che le fabbriche sono adeguate al suolo, e che una passeggiata pubblica invita a goder l’aria e lo spettacolo del mare e della deliziosa costiera, là dove stettero in arme, a volta a volta, guardinghi e sospettosi, i Musulmani, i Normanni, i Francesi, gli Aragonesi, gli Spagnuoli, i Savoiardi, e i soldati de’ Borboni di Napoli».

Ulteriori preziose informazioni, relative all’ingresso meridionale del castello, risalenti allo scadere del Settecento, che potrebbero avallare l’ipotesi dell’origine musulmana dell’archivolto, ci vengono fornite dall’erudito termitano Gerolamo Maria Sceusa Provenzano, accademico euraceo con lo pseudonimo Uranio Bellino, nella sua importante opera manoscritta Termini Imerese Splendidissima, e Fedele Città Della Sicilia, suo Nome, sua Origine, suo culto, e Suoi progressi, sotto i Dominij che il nostro Regno han governato, datata 1796, ms. della BLT ai segni AR d β 22. Lo Sceusa nel suo autografo cartaceo ci informa che la detta iscrizione araba era collocata «nella Torre ove esiste la Porta del R[ea]l Castello» aggiungendo che «n[umer]o due monete d’argento ritrovate nelle rovine di essa», erano in suo potere e ne riporta il “disegno” a penna esibente entrambi i versi presenti. Si trattava, quindi, di una torre con evidente funzione di fiancheggiamento, al fine di proteggere l’ingresso meridionale, che potrebbe essere rimasto immutato nei secoli seguenti.

Agli inizi del Seicento fu realizzato lo scavo in roccia lapidea del fossato di difesa del ponte levatoio  (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 61), a servizio dell’accesso meridionale. Quest’ultimo, fu successivamente protetto da nuove apposite strutture bastionate, rispondenti ai più recenti mezzi di offesa e di difesa, mentre l’antica entrata medievale divenne ormai del tutto obsoleta rispetto allo sviluppo dell’artiglieria. Nella pianta acquerellata di Termini (Termine), pregevole anche per la qualità pittorica, ma che purtroppo omette di riportare l’edificato urbano, inserita nell’opera cartacea manoscritta dell’incisore, disegnatore e cartografo Francesco Negro, Plantas de todos las plaças y fortaleças del Reyno de Sicilia sacadas por orde[n] de Su Mag[esta]d el Rey D[on] Phelippe Quarto anno de CIƆIƆCXXXX, della Biblioteca Nacional de España (Madrid), ai segni Ms 1, mancano del tutto tali strutture bastionate che, quindi, furono realizzate posteriormente al 1640.

Finalmente, sin dagli inizi del Settecento, l’ingresso meridionale si presentava, protetto da due baluardi avanzati. Il più interno di tali bastioni, chiamato di Villa Reale, è visibile nel disegno acquerellato di Gabriele Merelli, Tenente di Mastro di Campo Gen[era]le,  eseguito a punta di china di tinta seppia scura, intitolato Castello di Termine, contenuto nella sua opera Descrittione del Regno di Sicilia e dell’isole ad essa coadiacenti dedicata all’Altezza Serenissima del Signor Don Gio[vanni] D’Austria, tomo II, datato 16 Agosto 1677, che si conserva nella Biblioteca Reale di Torino, Ms. Militari 39 (cfr. V. Manfré, Memoria del potere e gestione del territorio attraverso l’uso delle carte. La Sicilia in un atlante inedito di Gabriele Merelli del 1677, “Anuario del Departamento de Historia y Teoría del Arte”, vol. 22, 2010, pp. 161-188). Il bastione più esterno, invece, fu realizzato regnando Filippo di Borbone V di Spagna e IV di Sicilia, ed era detto di Balvases, prendendo nome dal marchese di Balvases, Carlo Antonio Spinola e Colonna, viceré di Sicilia dal 1707 sino alla cessione dell’Isola a Vittorio Amedeo di Savoia. I due baluardi erano stati compiuti avanzando le fortificazioni sul sito dell’attuale Belvedere Principe di Piemonte, sacrificando la parte residua del quartiere della Terravecchia in plano Castri, per l’appunto posto nel pianoro, sopravvissuto in parte all’immenso rogo del 1571 e definitivamente distrutto nel primo ventennio del Settecento, allorché si progettò un grandioso rinnovamento delle strutture fortificate, giammai realizzato (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 62).

Soprattutto nella seconda metà del Cinquecento, con l’acuirsi sia della minaccia turca, sia delle scorrerie barbaresche, l’importanza strategica della cittadina imerese si accrebbe notevolmente grazie alla presenza nella rada del Regio Caricatore del Grano (complesso di magazzini per lo stoccaggio temporaneo di vettovaglie prima di essere sottoposte a dazio) che faceva di Termini il Granaio di Palermo. Pertanto, tra il 1553 c. ed il 1580, l’area di pertinenza dell’antica fortezza medievale fu ampliata con la costruzione di una nuova cinta bastionata  provvista di cortina con muraglia a scarpa, realizzata a sacco e coronata di merlatura, nonché da qualche casamatta. Tale cortina, secondo i relativi capitolati di appalto, avrebbe dovuto essere realizzata esclusivamente con un parametro esterno in conci lastriformi di pietra da taglio, costituita da un calcare marnoso di provenienza locale, squadrati e spianati in facciavista, disposti in corsi orizzontali e paralleli (mentre in realtà ingloba anche frammenti di terracotta, ciottoli, materiali di reimpiego quali frammenti di cocciopesto etc.) rilegati da calce impastata con acqua dolce, con l’aggiunta di cenere di fornace (cinniràzzu) e sabbia fine di provenienza fluviale (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 60-62). Grossi blocchi, generalmente di calcarenite giallastra, come abbiamo già visto di provenienza non locale, rinforzano gli spigoli dei bastioni superstiti; il medesimo materiale lapideo costituisce anche l’elemento decorativo di coronamento, composto da una continua cornice che svolgeva anche la funzione di rinforzo della muratura e rendeva molto difficoltosa la possibilità di arrampicarsi.

Il nuovo perimetro fortificato inglobò una parte della Terravecchia, sita in posizione pittoresca a ridosso del  promontorio, prospiciente sul mare, posta a N della culminazione del castello medievale e che oggi si presenta totalmente snaturato dall’opera distruttiva delle cave di pietra a servizio delle opere portuali. L’asse principale che attraversava tale quartiere del Borgo intra moenia era la Ruga Porte False che, per l’appunto, terminava con la Porta Falsa, dalla quale si poteva raggiungere il promontorio detto Muso di Lupa, oppure si poteva scendere, attraverso una gradinata, sino alla riva del mare dove la roccia, prima dell’opera distruttiva delle cave, assumeva l’aspetto suggestivo di un grande piano inclinato, coincidente con la pendenza naturale degli strati calcarei, tanto da dare al sito la denominazione vernacolare siciliana di Sciddicaculu, nomignolo appioppato anche ai termitani (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 64). La Porta Falsa, antichissimo ingresso civico, per la sua posizione strategica a cavaliere sul mare e per avere nelle sue immediate vicinanze il nuovo deposito degli esplosivi (in sostituzione di quello scoppiato nel 1571) fu protetto da nuove duplici robuste strutture bastionate, simmetricamente disposte ai lati dell’entrata, nonché da un ponte levatoio, prendendo poi il nome di porta di Soccorso o di Mare. Agli inizi di Giugno del 1860, questo ingresso fu utilizzato come via di fuga della guarnigione borbonica.

I due grandi bastioni, furono distrutti negli anni 70’ dell’Ottocento, durante le fasi iniziali dell’attività di cava, quando i lavori portuali per la realizzazione del primo tronco del molo richiesero il rapido avanzamento dei fronti estrattivi, che secondo una disposizione comunale dovevano mantenersi  verticali.

La Terravecchia enucleata nel perimetro castrense conteneva anche abitazioni civili, alcune delle quali sopravvissute all’incendio del 1571, ed edifici ecclesiastici (oggi totalmente scomparsi) che dalla seconda metà del Cinquecento, con l’ampliamento del recinto murario del Castello, erano divenuti “castrensi”: S. Maria della  Terravecchia o Nostra Signora della Grazia o della Consolazione, detta La Piccola (Pichula), per le modeste dimensioni, e S. Egidio Abate, documentata sin dal 1129-30 (cfr. L. T. Withe, Il Monachesimo latino nella Sicilia normanna, Dafni, Catania 1984 p. 140), nei pressi del Castello medievale. Allo stato attuale delle ricerche non conosciamo l’esatta ubicazione di S. Egidio, sappiamo con certezza che era inclusa nell’ambito castrense ed era esistente e funzionante ancora negli anni 60’ del Seicento. Alla luce di ciò, stupisce alquanto l’affermazione, relativa all’ubicazione di detta chiesa castrense, dello storico locale Vincenzo Solìto (cfr. V. Solìto, Termini Himerese posta in Teatro etc., tomo II, Bisagni, Messina 1671, p. 6): «però non saprei adesso indovinare il luogo preciso». Tra gli atti ecclesiastici presenti nei registri conservati in AME, relativi a questo luogo di culto dedicato al santo patrono dei lebbrosi, degli storpi e dei tessitori (celebre è il santuario provenzale di Saint Gilles du Gard presso Arles, sugli itinerari che, rispettivamente, avevano come mete finali Santiago de Compostela e la Terra Santa, cfr., J.F.X. Murphy, St. Giles,  in “The Catholic Encyclopedia”. Robert Appleton Company, New York 1909, ad vocem),  ci piace ricordare quello del 14 novembre 1666, allorché l’arciprete Giuseppe Colnago benedisse le nozze tra Don Luigi de Villaruel della città di Leon in Spagna, Capitan di Corazze e Regio Castellano, con Donna Dorotea di Francisci e Galletti della città di Palermo, proprio nella chiesa di S. Egidio dentro il Castello (cfr. AME, Sponsali, vol. 25 f. 194r).

Sin dal 1553, sotto il viceregno di Giovanni de Vega (1547-1557), sono documentati i primi appalti per le nuove opere di fortificazione finalizzate a cingere la città ed ampliare il perimetro della fortezza. Nelle more dei lavori di ampliamento dell’area di pertinenza del Castello, vennero distrutti interi quartieri, ubicati nella parte alta della cittadina, ai piedi della Rocca del Castello e  di quella dell’Orologio. Le nuove strutture bastionate, edificate tra la fine degli anni 50’ e gli inizi degli anni 60’ del Cinquecento, sotto la direzione dell’architetto Bartolomeo Cascione, nel loro complesso furono denominate Bastione Nuovo o Tenaglia ed incapsularono totalmente la precitata Rocca dell’Orologio. Tali fortificazioni erano rafforzate da due bastioni avanzati. Quello orientale, ancora visibile essendo contiguo ad un giardino in via Castellana, fu detto di S. Clara (per essere sorto sul sito del distrutto tardo-quattrocentesco monastero di clarisse sotto il titolo di Nostra Signora della Catena). La funzione principale del bastione di S. Clara fu quella di proteggere un ingresso secondario, denominato Porta della Terravecchia, perché da esso si poteva discendere alla porzione del quartiere della Terravecchia inglobato nel nuovo recinto castrense. Il bastione occidentale, provvisto di garitta, fu detto della Piazza o della Villa o della Città, per essere rivolto verso la piazza principale della cittadina imerese. Le strutture della cosiddetta Tenaglia sono tuttora in gran parte esistenti, anche se  quasi del tutto attorniate dai caseggiati del viale Enrico Iannelli, e delle vie Belvedere, Castellana, Emilia e Circonvallazione Castello, che sorsero progressivamente negli anni 70’ ed 80’ dell’Ottocento sui lotti di terreno dall’amministrazione comunale concessi a privati.

L’entrata secondaria della Porta della Terravecchia era anch’essa servita da un ponte levatoio, come conferma un documento degli inizi dell’Ottocento che lo ricorda per essere bisognoso di lavori di riparazione, diretti da Francesco Castiglia Capomastro del Real Castello. Si tratta di una lettera data a Palermo e datata il 24 Luglio 1808, nella quale, per l’appunto, furono stabilite le opere di riparazione del ponte levatoio a servizio della Porta della Terravecchia (cfr. Documenti sul castello di Termini, 1808-1857, Sezione militare, Ministero della Guerra, fascio 407, Segreteria di Guerra – n[umero] 32, ms. BLT). En passant, ci piace ricordare un’altra missiva, datata 22 Aprile 1834, conservata nel medesimo fondo documentario, nella quale si evidenzia che la detta porta era bisognosa di urgenti restauri perché si paventava la possibilità di sortita ed evasione da parte dei reclusi nel bagno penale. Quest’ultimo era ubicato nel «sito più alto del Castello detto della croce», cioè nel mastio.

Quindi, sia l’entrata meridionale, sia quella della Terravecchia erano protette da ponti levatoi e, pertanto, vi doveva essere anche il relativo fossato, successivamente riempito da materiale di scarto (sterro), divenendo così una sorta di discarica a cielo aperto. Qui di seguito menzioniamo la documentazione da noi scoperta e che, per la prima volta, comprova l’esistenza della detta  trincea che non solo andò irrimediabilmente ad incidere sugli strati archeologici, ma anche su quelli del sottostante substrato siliceo.

Una volta che il comune acquisì la Rocca con le sue pertinenze si volle “nascondere” alla vista le strutture bastionate della cosiddetta Tenaglia, concedendo per fini edificatori a dei privati cittadini i suoli di terreno antistanti. Ciò è confermato, ad es., dalla deliberazione del consiglio comunale di Termini Imerese, approvata in data 15 Maggio 1874, relativa alla «Concessione di terreno per uso di fabbricare». Tale delibera ci informa che «il tratto di terreno comunale che, dal parterre di Belvedere al piano di San Giovanni confina col bastione del diruto castello», come da «pianta e stima dell’architetto comunale Sig[nor]. [Antonino] Ciresi» era stato «diviso in N[umer].o 151 lotti per la complessiva rendita di lire duemilacentottantasei e cent[esimi]. ventidue annuali» da concedersi in enfiteusi per «uso di fabbricare» (cfr. DCC 8, 1873-1880, vol. 8, 15 Maggio 1874 n. 35, sindaco il Sig. Cav. Francesco Cosenz, ms. BLT).

La presenza del fossato, anche se ormai occultato dal riempimento di materiale di scarto, costituì un fattore poco allettante per gli eventuali enfiteuti, proprio nei tratti in cui raggiungeva una maggiore profondità, visti i più alti costi di fondazione richiesti. Ciò è confermato da un’ulteriore deliberazione del consiglio comunale di Termini Imerese, datata 5 Febbraio 1880, relativa alla «Enfiteusi  di terreno a confinare con il diruto Castello». Da essa si apprende che negli anni precedenti, come da rogiti in notar Benedetto Geraci ed Antonino Gargotta Facella, erano stati accordati a dei privati, per fini edificatori, dei lotti di terreno limitrofi «colle trincee del diruto castello a partire dal Passeggio Belvedere fino al piano di San Giovanni». I lotti contigui al Belvedere erano stati già assegnati, mentre non si era potuto «concedere la zona retrostante verso il piano di San Giovanni addossata ai bastioni del detto abolito castello» giacché «il suolo fino a considerevole profondità» risultava costituito «di un deposito di sterro» e, pertanto, i privati erano restii a farsi carico delle elevate spese di fondazione delle abitazioni da edificarvi (cfr. DCC 8, 1873-1880, vol. 8, sindaco il Sig. Giambattista Benincasa, ms. BLT, pp. 550-555).

Concludiamo, evidenziando che la scomparsa del castello di Termini Imerese e lo stravolgimento della sua Rocca, iniziata nel 1860 col saccheggio e sistematica demolizione della fortezza, proseguita dal 1873 con l’attività di cava, sempre più aggressiva e pervasiva per tutta la prima metà del Novecento (in barba alla legge 1 giugno 1939 n. 1089 “Tutela delle cose di interesse artistico o storico”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 184 del giorno 8 agosto 1939), ha comportato per la cittadina imerese una perdita incalcolabile in termini paesaggistici, storici, archeologici, architettonici, turistici, ecologici, geomorfologici, stratigrafici, paleontologici etc. L’irreparabile distruzione di quell’unicum che era la fortezza termitana con il suo ineguagliabile paesaggio castrense, frutto di un felice connubio tra la naturale possanza del sito e l’accorta plurimillenaria attività antropica. Non esitiamo a catalogare la distruzione ed il successivo, progressivo, fatale deterioramento del paesaggio termitano, non solo di quello castrense, emblematicamente qui tratteggiato, come un ennesimo esempio della miope gestione dell’ingente patrimonio paesaggistico italiano (Cfr. E. Turri, Il paesaggio tra persistenza e trasformazione, in Touring Club Italiano, Il paesaggio italiano. Idee, contributi, immagini, Touring Editore, Milano 2000, pp. 72-75), da parte dei responsabili che, in realtà, con la loro condotta finiscono spesso per essere degli irresponsabili.

Ma anche oggi, volendo fare il punto del primo ventennio del XXI sec., dobbiamo constatare, purtroppo, che una vera, profonda e diffusa cultura di salvaguardia e corretta gestione dell’ingente ed insostituibile patrimonio paesaggistico italiano, non è ancora divenuta “percezione” comune e  partecipe degli italiani (Cfr. ad es. S. Settis, Italia S.P.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002; L. Benevolo, L’architettura nell’Italia contemporanea. Ovvero il tramonto del paesaggio, Laterza, Bari 2006). Tutto ciò, nonostante l’approvazione del Testo Unico sulla Tutela dei Beni Culturali e del Paesaggio (cfr. Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2004 – Supplemento Ordinario n. 8), ed alla luce della più nitida Convenzione Europea del Paesaggio (cfr. Council of Europe, European Landscape Convention, Florence 2000, http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/Conventions/Landscape/default_en.asp)  e della carta internazionale del turismo culturale (cfr. ICOMOS, International Charter on Cultural Tourism – 1999, http://www.icomos.org/tourism/charter.html; ICOMOS Australia, Carta di Burra per la conservazione dei luoghi e dei beni patrimoniali di valore culturale, 1979 e successive modificazioni ed integrazioni).

Patrizia Bova e Antonio Contino

 

Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra riconoscenza, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e don Antonio Todaro per averci permesso in questi anni di effettuare delle fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese. Questo studio è dedicato ai nostri rispettivi padri: Giuseppe Bova (1930-2020) e Salvatore Contino in arte Tinosa (1922-2008), che ebbero sempre nei loro cuori un grande amore per la città di Termini Imerese ed un vivido ricordo dell’attività estrattiva delle cave della Rocca del Castello.