Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento

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Sino alla prima metà del Cinquecento la fisionomia della cittadina imerese, a parte qualche intervento mirato di riqualificazione nelle vie maestre, era ancora essenzialmente medioevale e tale dovette apparire,

assieme al resto dell’Isola, all’imperatore Carlo V d’Asburgo (I come re di Sicilia, 1516-1556) nella sua visita del 1535. Emblematico, in tal senso, era l’aspetto del principale slargo di Termini alta, la piazza maggiore (platea magna o platea civitatis) luogo precipuo, umbilicum urbano, sede del potere amministrativo demaniale con l’edificio comunale detto Toccu, per la presenza di un loggiato antistante (cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle  brecce calcaree a rudiste (Cretaceo sommitale) in Termini Imerese (Palermo) nei sec. XVII-XX, in G. Marino e R. Termotto, a cura di, Arte e storia delle Madonie. Studi per Nico Marino, voll. VII–VIII, Associazione Culturale “Nico Marino”, Cefalù 2019, pp. 119-141, in particolare, pp. 126-127). Inoltre, dagli anni 70’ del Quattrocento, la platea magna era divenuta sede anche dell’autorità religiosa, con la parrocchiale chiesa di S. Maria La Nova, il cui cantiere era rimasto aperto, tra svariate interruzioni e riprese, almeno dagli inizi del XV sec.

La platea magna, spazio polifunzionale, era anche luogo deputato per i servizi pubblici e commerciali (ad es. le taverne, le strutture ricettizie come i fondaci, ricovero di viandanti e delle loro cavalcature, e gli ospitia, cioè alberghi), per gli incontri sociali, per i divertimenti collettivi, le solennità civili e religiose, per il transito delle bestie da soma, nonché punto di convergenza del sistema viario, allora a fondo naturale o in terreno battuto, del tutto privo di razionali opere di smaltimento, bensì a cielo aperto, dove liberamente razzolavano gli animali, non solo quelli da cortile.

Su questo grande slargo incombeva la sommità rocciosa della Rocca, sormontata dal castello con l’imponente mole della torre principale o mastio (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, in questa testata on-line, Lunedì, 14 Settembre 2020). Oltre alla Rocca, c’era anche un altro elemento del paesaggio che caratterizzava il settore circostante la platea magna e che non poteva sfuggire ad un osservatore, anche disattento. Chiunque, dalla piazza avrebbe visto chiaramente uno sprone roccioso, dalla caratteristica forma a piramide con base triangolare, che si ergeva isolato, con un’altezza di circa una decina di metri, immediatamente ad occidente dalla onnipresente vetta della Rocca del Castello (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica…cit.).

Si trattava di una cuspide calcarea, legata ad una forma del rilievo originata da processi naturali esogeni, delimitata da scarpate e versanti asimmetrici (da mediamente a fortemente inclinati), controllati dall’assetto stratigrafico e tettonico, nonché dalla morfoselezione. Quest’ultima, grazie alla presenza di una successione stratigrafica, nella quale si riscontrano rocce relativamente più erodibili (argilliti silicee e selci stratificate ben affioranti nella Via Serpentina Paolo Balsamo), sormontate da quelle relativamente più resistenti all’erosione (calcari della Rocca del Castello). Tutto ciò ha facilitato la formazione di peculiari forme del rilievo (hard-on-soft landforms della letteratura anglosassone), caratterizzate da una marcata accentuazione dei dislivelli topografici, dando origine ad un paesaggio dominato dall’alternarsi di creste rocciose e di morbide dorsali allungate, con una marcata congruenza fra topografia e struttura geologica. La forma di questo rilievo, fortemente condizionata dalla struttura, era orlata da scarpate, originatesi in corrispondenza di banchi rocciosi, aventi la medesima inclinazione (assetto monoclinalico), immergenti verso settentrione. Un ulteriore modellamento è imputabile alla formazione di spianate di abrasione marina legate alle fasi di stazionamenti alto durante il Quaternario (Pleistocene medio), che dovettero trasformare la cuspide calcarea in una sorta di isolotto. Questa pittoresca sporgenza rocciosa, nei rogiti della prima metà del Cinquecento era nominata la Rocca o Rupe (o Rupi) dell’Orologio. Inoltre, una stipula di notar Tommaso Bertòlo, datata 18 gennaio XV indizione 1602 (cfr. Archivio di Stato di Palermo sezione di Termini Imerese, d’ora in poi ASPT, notai defunti, vol. 12974, 1602-3, ff. 159-161), specifica che il detto rilievo derivò il suo nome dalla presenza in loco di un orologio antico (orologio antiquo). Tali documenti, attualmente a nostra disposizione, nel loro scarno linguaggio notarile del tempo, alludendo a cosa ben nota ai contemporanei, purtroppo non aggiungono altri dettagli che, invece, per noi sarebbero stati alquanto preziosi, per cui possiamo soltanto fare delle ipotesi a riguardo.

A nostro avviso, l’orologio antiquo, citato nel rogito del 1602, che già agli esordi del Cinquecento dava il nome alla Rocca omonima, va inteso nel senso di orologio solare (relogio di sole), mentre certamente meritava di essere designato con l’epiteto di “nuovo” quello meccanico monumentale a ruote, che generalmente veniva inserito in particolari strutture di palazzi e chiese, come torri e campanili, o sulle stesse facciate (cfr. J. Allexandre, Traité général des horloges, Guerin & Guerin, Paris 1734, chapitre premier, des horloges solaires, p. 28 e segg., chapitre III, des horloges à rouës de gros volumes, p. 88 e segg.). Del resto, in Italia, già agli inizi del Trecento sono attestati gli esordi dell’orologio meccanico da torre o da facciata (cfr., ad es., Gualvanei de la Flama ordinis praedicatorum, Opusculum de rebus gestis ab Azone, Luchino et Johanne vicecomitibus: ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCXLII, in L. A. Muratori, a cura di, Rerum Italicarum Scriptores, vol. XII, Mediolani 1728, col. 1012; M. Caffi, Della chiesa di S. Eustorgio. Illustrazione storico-monumentale-epigrafica, Boniardi-Pogliani,  Milano 1841, p. 193; L. T. Belgrano, Degli antichi orologi pubblici d’Italia con aggiunta di notizie della posta in Genova, «Archivio Storico Italiano», serie terza, tomo VII, parte I, Galliciana, Firenze 1868, pp. 1-43, estratto). Gli orologi meccanici si diffusero ulteriormente nel corso del Quattrocento e del Cinquecento affiancando o soppiantando quelli solari (cfr. L. T. Belgrano, Degli antichi orologi…cit.; G. Dohrn-van Rossum, L’histoire de l’heure: l’horlogerie et l’organisation moderne du temps, Édiction de la Maison des sciences de l’homme, Paris 1997; C. Cipolla, Le macchine del tempo, Il Mulino, Bologna 2000).

In relazione alla Sicilia, è d’obbligo rimarcare che già Plutarco a proposito di Dione, che fu tiranno di Siracusa dal 357 al 354 a.C. (cfr. Vite parallele Βίοι Παράλληλοι, Vita di Dione, 29), attesta l’esistenza degli orologi solari. Marco Terenzio Varrone (De lingua latina, VI, 4) e Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio (Naturalis Historia, VII, 214) rammentano che nel 263 a. C. il console Manlio Valerio Massimo Messala, avendo conquistato la città di Catina (odierna Catania), condusse a Roma un orologio solare che fu collocato su un pilastro presso i rostri dove era la tribuna delle arringhe, ma che era calibrato per la posizione della città etnea non per l’Urbe. Nonostante ciò, solo nel 164 a. C., il censore Quinto Marcio Filippo fece realizzare un nuovo orologio solare congruente con l’ubicazione di Roma.

Nel medioevo, ulteriori riscontri su strumenti per la misura del tempo, si rintracciano durante il dominio normanno. Il grande arabista siciliano Michele Amari (1806-1889), nella sua opera Le epigrafi arabiche di Sicilia, trascritte tradotte e illustrate, parte prima, Pedone-Lauriel, Palermo MDCCCLXXV, n. II, pp. 17-25 e tav. I, fig. 3) riporta l’iscrizione trilingue (latina, greca ed araba, quest’ultima in caratteri magrebini punteggiati a modo neskhi), apposta all’esterno della cappella palatina, attestante che nel Marzo V indizione 1142, Ruggero II d’Altavilla fece collocare nel palazzo reale di Palermo un mirabile orologio idraulico (per ulteriori approfondimenti rimandiamo il lettore alla consultazione dell’opera di Amari).

Un maggior numero di fonti documentarie si rintracciano nel Quattrocento e nel Cinquecento, segno che si andava diffondendo l’uso degli orologi meccanici nell’Isola. Nel Febbraio XV indizione 1406 (1407) gli abitanti della terra di Polizzi (odierno comune di Polizzi Generosa), dovendo costruire un cembalo (cimbalu) per l’orologio della città, domandarono ed ottennero dal re Martino I 1’autorizzazione di poter imporre una piccola colletta, con la clausola che la somma non avesse a superare le spese in modo da evitare eventuali lagnanze e reclami (cfr. A. Flandina, Statuti ordinamenti e capitoli della città di Polizzi, in Documenti per servire alla storia di Sicilia pubblicati a cura della Società Siciliana per la Storia Patria, seconda serie, Consuetudini e capitoli municipali, vol. I, Palermo 1876, pp. 233-288, in particolare p. 252, notizia tratta dagli atti della regia cancelleria, vol. 224, p. 44). Il cembalo doveva risuonare verosimilmente ogni ora, ma non è dato da sapersi con quale meccanismo di percussione.

A Catania, nel 1525 fu rimesso in funzione un orologio meccanico che dava già segni di vetustà (cfr. R. La Duca, Il Palazzo dei Normanni, Flaccovio, Palermo 1997, cap. X, p. 70). Curiosamente, riguardo Palermo, le più antiche notizie note sugli orologi meccanici a ruote, secondo Rosario La Duca, non sono anteriori al 1572, quando uno di essi fu collocato in una delle torri della cattedrale, anche se nel palazzo pretorio è documentata l’esistenza di un orologio di tale tipologia già nella metà del Cinquecento (cfr. cfr. R. La Duca, Il Palazzo dei Normanni cit., p. 69).

Anche la chiesa madre di Termini Imerese ebbe il suo orologio da torre, a movimento meccanico, tramite ingranaggi, con regolazione a corda. Questo strumento meccanico di misura del tempo, era già esistente agli esordi del Settecento, visto che il 4 Aprile XI indizione 1718 si accenna alle spese di manutenzione dell’orologio, che rientravano nella somma di onze 80 concessa dal Tribunale del Real Patrimonio, invece delle onze 150 già accordate nel 1609 per la fabbriceria dell’opera della nuova chiesa maggiore (cfr. G. Corrieri, Fatto intorno la fabbrica della Maggior Chiesa della Splendidissima città di Termini Imerese e sua dote, 1604-1761, Edizioni del Cancro, Teramo 1997 s. n. p.).

Nel detto secolo è altresì attestato un abile orologiaio salariato, custode ed addetto alla carica e manutenzione ordinaria dell’orologio meccanico precitato.

Il 24 Agosto IX indizione 1746, l’orologiaio Giacomo Pernice, palermitano, ma abitante a Cefalù, si obbligò con i deputati della Maggior Chiesa di Termini ad acconciare a proprie spese, entro un mese e giorni dieci, gli ingranaggi dell’orologio meccanico di detto luogo di culto. L’orologio era alquanto bisognoso di riparazioni legate all’usura del tempo, e gli acconci del Pernice dovevano fare in modo che possa «travagliare, come travaglia un orologio nuovo». L’opera ultimata doveva essere «ben vista» da Girolamo Romano «orologiaio salariato da detta Fabrica» (cfr. G. Corrieri, Fatto intorno la fabbrica….cit., doc. 24).

Il termitano mastro Gerolamo Romano Pansica (n. 25 Novembre 1679; m. 31 Marzo 1752), figlio di mastro Filippo, sino al giorno della sua morte, infatti, ricoprì l’incarico ufficiale di «orologiaio ossia curatore dell’orologio di nostra Maggior Chiesa» (cfr. Libro d’Assenti I Maestro della Nuova Fabrica della Maggior Chiesa di questa Fedele e Splendidissima città di Termine, ms. Fine XVII-prima metà XVIII sec., Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi, BLT ai segni AR β 10 f, f. 115).

Pensiamo, quindi, che sia plausibile ritenere che la Rocca dell’Orologio prendesse nome da un orologio solare (solarium). Quest’ultimo, come è noto, non è altro che uno gnomone (dal greco gnòmon, indice) che consta di una piccola asta, generalmente metallica, verosimilmente posta su di un piano verticale, su cui sono tracciate le direzioni e le lunghezze dell’ombra (la più breve, corrisponde alla linea meridiana, allorché il Sole, nel suo moto apparente, raggiunge la massima altezza o culminazione sull’orizzonte, cioè a mezzodì vero), corrispondenti alle diverse ore. Lo strumento, per essere facilmente visibile e fruibile, doveva essere installato in positura elevata (donde la scelta di collocarlo sulla montagnola omonima), quale indispensabile strumento di misura del tempo (ora locale), per gli usi civili ed ecclesiastici. Ricordiamo che il giorno solare vero, cioè l’intervallo di tempo tra due passaggi consecutivi del Sole allo stesso meridiano, ovvero la durata complessiva delle ore di luce e di buio notturno, non è costante: per il nostro emisfero oscilla tra un massimo di 24h 30s in inverno (perielio) ad un minimo di 23h 59m 39s in estate (afelio).

Sino alla metà degli anni 90’ del XX sec., l’esistenza di tale montagnola e del suo orologio solare era totalmente caduta nell’oblio, non vi essendo alcuna menzione nella locale storiografia. Fu uno degli scriventi (A. Contino), nelle sue lunghe e faticose ricerche d’archivio ad imbattersi, piacevolmente sorpreso, in due copie di rogiti notarili che ne facevano chiara menzione, appartenenti all’importante fondo documentario degli Atti della Comunia del Clero di Termini (d’ora in poi ACCT) che si conserva nella BLT, iniziando con la silloge contenuta nel Mazzo I (ai segni Atti 212) e proseguendo in quelle successive aventi numerazione romana progressiva. Il primo rogito (cfr. Mazzo VII, ms. ACCT sec. XVI-XVII, BLT, f. 587 e segg.), datato 12 Ottobre X indizione 1521, rammenta un certo Sebastiano Pilato, figlio ed erede di mastro Simone, il quale possedeva una casa solerata (raddoppiata da un solaio), sita nella Strada di S. Basilio (Ruga Sancti Basili), in frontespizio con l’abitazione del notaio locale Giangiacomo La Tegera, confinante con le Rupi dell’Orologio (rupibus orilogii), ed altri confini, essendo intermedia la predetta via pubblica.

La Ruga Sancti Basili era una delle due vie di accesso al castello medievale e, precisamente, quella relativa alla porta settentrionale, che iniziava dal Piano di S. Caterina (odierna Piazza S. Giovanni), addentrandosi sino all’interno del recinto della fortezza ed inerpicandosi sin quasi in vetta, dove sorgeva il torrione maggiore. L’asse viario, prendeva nome dalla chiesa castrense di S. Basilio ubicata presso la torre principale o mastio (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica…cit.).

Recentissime ricerche effettuate dagli scriventi attestano che la detta chiesa di San Basilio fu di regio patronato, confermando quanto già ipotizzato dagli scriventi nel nostro contributo precedentemente edito (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica…cit.). Infatti, ciò è attestato da un rogito del 27 Gennaio III indizione 1545, stipulato tra il sac. Silvestre La Tegera (che poi divenne arciprete di Termini) ed il reverendo Paolo Vizzini, vicario della città, relativo ad un giardino recintato (xilba o scirba) posto extra moenia, in frontespizio della chiesa di S. Andrea (cfr. Mazzo X, ms. ACCT sec. XVI-XVII, BLT, p. 1017 e segg.). Il Vizzini, in qualità di beneficiale della chiesa castrense di S. Basilio, viene indicato nell’atto notarile con il titolo di Regio Cappellano (Regi Cappellani), proprio perché questo luogo di culto, già allora, era cappella di regio patronato.

Il secondo rogito (cfr. ACCT, Mazzo VII, p. 632 e segg.), vergato in inchiostro metallo-gallico (sospensione di ossido di ferro in acido gallico, generalmente, ricavato dalle galle di quercia) che a contatto con l’umidità atmosferica si è fortemente ossidato, producendo una marcata corrosione del supporto cartaceo, e rendendo, quindi, poco leggibile il documento. Incerto rimane, pertanto, l’anno e la relativa indizione: 18 Aprile VII indizione 1564 (oppure XII indizione 1584). La stipula, rammenta che i coniugi mastro Pietro e Giovanna Maglietta  possedevano una casa nel quartiere della maggior chiesa e piazza di detta città, confinante con quella di Bartolomeo de Arena e con quella del nobile Michele Antonio (michelantoni) de Marino, in frontespizio del bastione o baluardo chiamato dell’Orologio (bastionis seu Belguardii vocato di lo Horologio), che prendeva nome dall’aver nucleato l’omonima Rocca o Rupe. Tale elemento peculiare del paesaggio urbano dovette scomparire nel corso della seconda metà del Cinquecento, a causa di processi antropici che mutarono notevolmente il panorama naturale, portando al suo incapsulamento all’interno di una fortificazione alla moderna, cioè con un sistema di difesa poligonale. Tale struttura antropica sorse nelle more dell’ampliamento del Castello, al fine di trasformarne la fisionomia, sino allora di fortezza medievale relegata sulla vetta della formidabile acropoli, alla luce delle nuove esigenze militari, anche a discapito sia del tessuto urbano medievale, impassibilmente sacrificato, tanto da provocare pesanti modificazione della pianta cittadina, nonché della fisiografia dei luoghi (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centrosettentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina, 2019, p. 60). I sistemi bastionati, provvisti di cortine murarie a scarpa e terrapieni, erano un efficace strumento di difesa contro i nuovi mezzi di offesa (cfr. L. Martella, I sistemi bastionati: evoluzione e tecnica, in A. Marino, a cura di, Fortezze d’Europa. Forme, professioni e mestieri dell’architettura difensiva in Europa e nel Mediterraneo spagnolo, Atti del Convegno, Aquila, 6-7-8 marzo 2002, Gangemi, Roma 2003, pp. 299-304).

Per ulteriori approfondimenti, concernenti la struttura organizzativa del sistema difensivo cinquecentesco siciliano, nella quale si inseriscono a pieno titolo anche i lavori di realizzazione delle opere di difesa militare, rimandiamo il lettore al documentato studio dello storico Antonino Giuffrida (cfr. A. Giuffrida, La fortezza indifesa e il progetto del Vega per una ristrutturazione del sistema difensivo siciliano, in R. Cancila, a cura di, Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), Associazione Mediterranea, Palermo 2007, Quaderni – Mediterranea ricerche storiche, 4, tomo I, pp. 227-288).

A proposito di Termini Imerese, sappiamo che sin dal 1553, sotto il viceré Juan (Giovanni) de Vega (1547-1557), solerte continuatore dell’azione di rinnovamento non solo militare dell’Isola, condotta dai precedessori Ettore Pignatelli e soprattutto Ferrante Gonzaga, si iniziarono ad appaltare le nuove opere di fortificazione indirizzate, sia a recingere la cittadina, enucleando le borgate sino ad allora extra moenia (ad es. S. Lucia), sia ad accrescere ed ammodernare il perimetro della fortezza (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 60). Nelle more dei lavori di ampliamento dell’area di pertinenza del castello, scomparvero interi quartieri medievali, siti nella parte alta della cittadina, che si abbarbicavano tenacemente alla roccia calcarea giurassico-cretacea che costituiva la base della cuspide della Rupe dell’Orologio. Le nuove strutture bastionate, e relativi terrapieni, furono edificate tra la fine degli anni 50’ e gli inizi degli anni 60’ del Cinquecento, sotto la direzione del capomastro Bartolomeo Cascuni (Caxuni) o Cascone (varianti siciliane del cognome Guascone), secondo un progetto già predisposto, grazie all’opera di squadre di mastri muratori e manovali, guastatori (operai utilizzati specialmente per il movimento terra), pirriatori (operai specializzati nel prelievo e taglio del materiale lapideo calcareo proveniente da cave di prestito), carcaroti (addetti alla fabbricazione della calce), burdunari (mulattieri), etc. Il nuovo complesso bastionato, che prese il nome di Bastione Nuovo o Tenaglia, incapsulò totalmente la precitata Rocca dell’Orologio, che scomparve alla vista abituale degli abitanti, avvezzi a considerarla un punto di riferimento obbligato, sia per conoscere l’orario, sia per orientarsi nel dedalo delle viuzze della parte alta della città medievale.

Il progetto delle nuove fortificazioni castrensi di Termini è attribuibile all’architetto bergamasco Antonio Ferramolino (m. Africa, odierna Mahdia, 18 agosto 1550), allievo del condottiero Gabriele Tadino (n. Martinengo, 1480; m. 1544), distintosi inizialmente al servizio della Serenissima e, successivamente, sul fronte austro-ungarico, nell’esercito imperiale di Ferdinando d’Asburgo, indi in Grecia (Corone nel Peloponneso), ed infine, dal 1553, Ingegnere del Regno di Sicilia al servizio del viceré Ettore Pignatelli duca di Monteleone e dei successori Ferrante Gonzaga e Juan de Vega, rivestendo l’incarico di progettista di gran parte delle nuove fortezze siciliane del tempo (cfr. V. Di Giovanni, Le fortificazioni di Palermo nel secolo XVI giusta l’ordini dell’ing. Antonio Ferramolino, in Documenti per servire alla Storia di Sicilia, Società Siciliana di Storia Patria, s. IV, IV, Lo Statuto, Palermo 1896; G. Tadini, Ferramolino da Bergamo. L’ingegnere militare che nel ‘500 fortificò la Sicilia, Poligrafiche Bolis, Bergamo 1977; A. Cámara Muñoz, El dibujo en la ingeniería militar del siglo XVI, “A distancia”, numero monografico, 1991; L. Dufour, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta 1500-1823, Lombardi, Siracusa 1992; M. Viganò, a cura di, Architetti e ingegneri militari italiani all’estero dal XV al XVIII secolo. Livorno, 1994, pp. 79-101; E. Garofalo, M. Vesco, Antonio Ferramolino da Bergamo, un ingegnere militare nel Mediterraneo di Carlo V, in G. Verdiani, Ed., Defensive Architecture of the Mediterranean XV to XVIII Centuries, vol. III, FORTMED 2016, Dipartimento di Architettura DIDA, DIDAPRESS, Firenze 2016, pp. 111-118).

Riteniamo che, inizialmente, l’enucleazione della Rocca dell’Orologio nel perimetro castrense, non fosse stata prevista e ciò si evince non solo dalla denominazione di Bastione Nuovo o Tenaglia, ma soprattutto dalle varie piante del Castello di Termini dove le strutture murarie appaiono chiaramente innestate su una precedente cortina fortificata. A titolo di esempio, ci piace ricordare la planimetria delle fortificazioni di Termine e la Pianta del Castello di Termine, inserite nell’opera ms. della Biblioteca Nacional de España in Madrid, Plantas de todas las plaças y fortaleças del Reyno de Sicilia sacadas de orde[n] de Su Mag[esta]d el Rey D[on]. Phelippe Quarto anno de CIƆIƆCXXXX (pp. 93-93) ai segni Mss 1. Tali piante sono firmate dal valente disegnatore, incisore e cartografo Francesco Negro, ma furono rilevate in collaborazione con Carlo Maria Ventimiglia Ruiz (1576-1662), letterato, filosofo, matematico, astronomo e geodeta siciliano (cfr. C. Polto, Negro, Francesco, on-line all’indirizzo: https://www.digitaldisci.it/francesco-negro/; N. Aricò, Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia, 1640, Francesco Negro, Carlo Maria Ventimiglia, Messina, 1992; L. Dufour, Dalle piazzeforti al territorio: gli ingegneri militari e la cartografia in Sicilia tra ’500 e ’700, Memorie della Società Geografica Italiana, LVII, 1999; L. Dufour, A. La Gumina, a cura di, Imago Siciliae: cartografia storica della Sicilia 1420 -1860, Catania 1998, p. 36; L. Dufour, El Reino de Sicilia. Las fortificaciones en tiempos de Carlo V, in C. J. Hernando Sánchez, a cura di, Las fortificaciones de Carlos V, Ediciones del Umbral, Madrid 2000, p. 509 e segg.). Purtroppo, la pianta della città, con scala in canne siciliane, avendo fini prettamente militari, esibisce solo le fortificazioni, mentre il tessuto urbano interno è appena abbozzato esclusivamente attorno la piazza principale.

Il nuovo complesso bastionato, che incorporava la Rocca dell’Orologio, innestato nel sistema di architettura fortificata del castello termitano, tra il baluardo della Guardiana (prospettante sul Piano di S. Caterina e sull’avvallamento della Fossola) e la nuova porta della Terravecchia (in corrispondenza dell’odierna Via Castellana), era rafforzato da due strutture difensive avanzate che, nel complesso, davano origine ad una tenaglia (in spagnolo tenaza) formata dalla muraglia principale (cortina recta) e da due grandi baluardi (baluartes) situati negli spigoli (esquinas). Questo modello, era stato già applicato in strutture fortificate poste su di un piano, come quelle de La Goletta (in arabo Al Halq al-Wādī, ‘la gola del fiume’), fortezza posta a difesa di Tunisi (ambedue, assieme all’arcipelago maltese, punti chiave per il dominio del Canale di Sicilia), conquistata nel 1535 dalle forze militari guidate personalmente da Carlo V. Da notare che, nei contesti morfologici acclivi, l’architetto spagnolo Pedro Luis Escrivá (n. Valencia, 1490 c.), nel suo trattato ms. del 1538, Apología en excusacion y favor de las fábricas del reino de Nápoles (nel 1878 pubblicato a Madrid, Memorial de Ingenieros, dal colonnello Eduardo Mariátegui), aveva proposto l’uso di una struttura a forbice, in spagnolo tijera. La Goletta, infatti, ebbe la sua struttura fortificata “attanagliata” (atenazada) ossia a tenaglia (tenaza) che, secondo José Javier De Castro Fernández e Javier Mateo de Castro, fu ideata nel 1539 dal governatore don Francisco de Tovar (dal 1538 al 1546), buon intenditore di architettura militare, quale sostanziale miglioramento del progetto di Antonio Ferramolino e Bernardino Mendoza, datato 1537 (cfr. J. J. De Castro Fernández, J. Mateo de Castro, Las primeras fortificaciones abaluartadas en la Goleta de Túnez, in G. Verdiani, Ed., Defensive Architecture…cit., pp. 295-302).

L‘opera de La Goletta fu poi protratta dal successore, don Luis Pérez de Vargas che nel 1546 sostituì Tovar, rimanendo in carica fino all’assedio di Mahdia del 1550, dove perì (cfr. L. Poinssot, R. Lantier, Les  Gouverneurs  de la Golette durant l’occupation espagnole (1535-1574), «Revue Tunisienne», Nouvelle série, 1er année, 1930, pp. 219-252).

Essendo già defunto il Ferramolino, il viceré Juan de Vega conferì l’incarico di progettista delle nuove fortificazioni siciliane (ubicate soprattutto nel settore orientale), e di aggiornamento di quelle esistenti, al magnifico ingigneri Pedro Prado, di origine spagnola (cfr. C. Gallo, Momenti ed aspetti della politica difensiva del viceré de Vega in Sicilia, «Archivio storico siciliano», serie IV, vol. V, 1979, pp. 35-57; N. Aricò, Pedro Prado e la fondazione di Carlentini nella Sicilia di Juan de Vega, Olschki, Firenze 2016).

Pedro Prado, raffinato architetto ed al contempo ingegnere militare, giunto in Sicilia nel 1548 proveniente da Napoli, dove aveva lavorato al forte di Sant’Elmo al servizio del precitato Escrivá, ricoprì la carica di Ingegnere del Regno di Sicilia dal 1551 ai primi mesi del 1555 (cfr. M. Vesco, Ingegneri militari nella Sicilia degli Asburgo: formazione, competenze e carriera di una figura professionale tra Cinque e Seicento nelle sue ricognizioni, in P. Rodríguez-Navarro, Ed., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, vol. I, Editorial Universitat Politècnica de València, València 2015, pp. 223-230).

Il Prado, nelle sue puntigliose ricognizioni non mancò di annotare ed indicare al viceré tutti i talloni d’Achille esibiti dalle fortificazioni ed i rimedi per risolvere queste importanti criticità del sistema difensivo. Una di queste fu quella di Siracusa, dove nel 1551 il Prado, rispetto all’opera del Ferramolino già realizzata, progettò un avanzamento della difesa tramite una struttura a tenaglia con i baluardi di S. Antonio e di Sette Punti, a protezione delle fortificazioni medievali (cfr. N. Aricò, Pedro Prado…cit., p. 78; L. Di Mauro, Scipione Campi. Progetto delle fortificazioni di Siracusa. 1576-1578, scheda, in A. Buccaro, M. Rascaglia, a cura di, Leonardo e il Rinascimento nei Codici napoletani: Influenze e modelli per l’ingegneria, FedOA – Federico II University Press-CB Edizioni Grandi Opere, Napoli 2020, pp. 654-657, in particolare, p. 656).

Dopo la morte del Prado, essendo rimaste incompiute alcune opere, il viceré Juan de Vega conferì, nel 1556, al già citato maestro Bartolomeo Cascone, o più esattamente Guascone, l’incarico di revisore di fortificazioni siciliane, mentre nel 1558, il duca di Medinaceli lo elevò a revisore e misuratore di fabbriche e ponti (cfr. M. Vesco, Ingegneri militari nella Sicilia…cit. p. 225).

Avanziamo, quindi, qui per la prima volta, l’ipotesi di attribuire al detto Pedro Prado la paternità progettuale della addizione della Tenaglia o Bastione Nuovo nelle fortificazioni castrensi di Termini Imerese. Tale intervento, andava ad ovviare ad una notevole carenza strategica nel tracciato difensivo già realizzato (probabilmente dal Ferramolino), con evidente parallelismo con quanto il Prado compì a Siracusa, ma anche a Palermo dove progettò il piano di espansione del quartiere della Kalsa (su quest’ultimo, cfr. M. Vesco, Un nuovo assetto per il quartiere della Kalsa nel Cinquecento: l’addizione urbana del piano di porta dei Greci, in G. Cassata, E. De Castro, M.M. De Luca, coord., Il quartiere della Kalsa a Palermo. Dalle architetture civili e religiose delle origini alle attuali articolate realtà museali, Regione Siciliana, Palermo 2013, pp. 47-65). La paternità esecutiva della tenaglia  termitana (attestata da riscontri documentari nel 1560), invece, appartiene certamente al detto Cascone o Guascone.

La soluzione tecnica del sistema atenazado pare che fosse particolarmente preferita da Carlo V, grande conoscitore di strategia militare, cui spettava il placet in siffatte opere, anche perché propugnata da alcuni architetti militari spagnoli del suo entourage, tra i quali i già citati Pedro Luis Escrivá, ideatore della struttura a forbice (tijera) e Pedro Prado che nel 1552 applico il modello a tenaglia anche nelle fortificazioni di Sant’Elmo e di San Michele a Malta (cfr. J. J. De Castro Fernández, J. Mateo de Castro, Baluartes contra tenazas, in P. Rodríguez-Navarro, ed., Defensive Architecture…cit., pp. 263-270).

La tecnica della tenaglia (tenaille) si ritrova menzionata ed applicata anche in ambito francese, come conferma la manualistica di architettura militare della fine del Cinquecento e degli inizi del Seicento. A titolo d’esempio, ricordiamo il trattato del gentiluomo protestante savoiardo Jacques Perret di Chambery (1540-1610), architetto e matematico, che evidenzia l’utilità della tenaille per ovviare alla debolezza degli angoli esterni, troppo acuti, dei bastioni (bastions retranchez en forme de tenailles: parce que autrement faits, leurs angles extérieurs sèroient par trop aigus, cfr. J. Perret, Architectura et perspectiva des fortifications & artifices de Iaques Perret Gentilhomme Savoysien. Mis en lumière par la vefue & les deux fils de Théodore de Bry, Richter, Francfort sur le Main, 1602, p. 1).

I due baluardi della tenaglia del Castello di Termini erano così disposti. Quello orientale, in buona sostanza, ancora appariscente in un giardino contiguo alla via Castellana, fu denominato di S. Clara perché sorto sul sito del tardo-quattrocentesco complesso monastico sotto il titolo di Santa Maria la Catina ordinis Sancte Clare, sacrificato dall’ampliamento delle opere di fortificazione cinquecentesche. Del resto, già a quel tempo, era prassi diffusa designare con un agionimo i bastioni, ponendoli sotto il patrocinio di una figura dal crisma di santità. Il bastione di S. Clara, era un vero e proprio revellino a protezione della Porta della Terravecchia. Quest’ultima, ingresso secondario alla fortezza, dapprima fu una tappa obbligata per tutti i possessori di abitazioni nel quartiere della Terravecchia inglobato nel nuovo recinto castrense, loro malgrado, costretti al passaggio attraverso l’andito. Il baluardo occidentale, provvisto di una guardiola d’avvistamento, fu detto della Piazza o della Villa o della Città, per essere orientato verso la platea civitatis già citata. Le strutture della tenaglia (tenaza) che inglobano la Rocca dell’Orologio, fortunatamente sono tuttora in gran parte esistenti e, a nostro avviso, andrebbero opportunamente tutelate come importante geomorfosito, legato all’attività antropogenica in ambito militare, e rese fruibili al pubblico. Esse, a loro volta, oltre ad incapsulare la Rocca dell’Orologio, come una sorta di “matriosca” sono quasi del tutto attorniate dai caseggiati del viale Enrico Iannelli, e delle vie Belvedere, Castellana, Emilia (unicamente in quest’ultima sono ancora affioranti i calcari giurassici della Rocca dell’Orologio) e Circonvallazione Castello, sorti negli anni 70’ ed 80’ dell’Ottocento su dei lotti di terreno che l’amministrazione comunale del tempo accordò a dei privati per uso edificatorio, anche sul sito del fossato colmato (non sappiamo se ab origine a secco o adacquato) che le attorniava sul fianco rivolto alla città (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica…cit.).

Il 3 Febbraio I indizione 1558, un dispaccio del viceré Juan de la Cerda, duca di Medinaceli, che si ritrova in copia negli atti ufficiali del magistrato civico, relativi all’anno indizionale 1557-58 (cfr. Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele Città di Termini, d’ora in poi AMG, 1557-58, ms. BLT), stabilì la costruzione della nuova Fabrica (…) in lo bastione di la Rocca nominata di lo Relogio. Nel precedente anno indizionale 1556-57, era stato demolito il monastero di Santa Maria la Catina ordinis Sancte Clare esistente nella Terravecchia, nelle more dei lavori di fortificazione di detti bastioni.

Dal deliberato del consiglio civico del 23 Agosto I indizione 1558, apprendiamo che dallo Spettabile Signor Giovanni Sollima Maestro Razionale, d’ordine del viceré del 10 gennaio prossimo passato «fu concluso et accordato di compl[et]arisi et farisi la fortecza di detta cita [sic, città]», che il documento specifica trattarsi della «fortecza di la T[er]ra vecha», ed a tale scopo, essendo del tutto insufficienti i fondi derivanti dal donativo sulle fortificazioni, si dovette ricorrere al supporto finanziario dell’universitas di Termini per la realizzazione di tale programma di militarizzazione. Generalmente, la somma richiesta per tali lavori veniva ripartita equamente tra la Regia Corte e le amministrazioni civiche (cfr. V. Favarò, La modernizzazione militare nella Sicilia di Filippo II, Quaderni Mediterranea. Ricerche storiche, 10, Associazione Mediterranea. Ricerche storiche, Palermo 2009, p. 42). La fonte documentaria, specifica che l’universitas termitana destinò all’uopo la cospicua somma di diecimila scudi (1 scudo equivaleva a 12 tarì e 2,5 scudi equivalevano ad 1 onza) «da pagarisj s[opr]a li gabelli» che erano state imposte «ad opu di li fabrichi [sic, fabrichi] di detta cita [sic, città]» (cfr. AMG, 1557-58, cit.). L’atto fu sottoscritto dai magnifici Roberto Mariscalco e Giovanni Francesco de Anfuso «deputati di detti fabichi [sic, fabrichi]», cioè sovrintendenti ai lavori relativi alle opere di fortificazione, compreso l’invio dei lavoratori salariati reclutati in maniera forzosa, il controllo dell’operato degli appaltatori e della qualità delle opere e dei materiali impiegati (cfr. A. Giuffrida, La fortezza indifesa…cit., in particolare, pp. 246-249).

Il 23 dicembre IV indizione 1560, fu posto l’accento sulla esigenza improcrastinabile di completarsi il predetto revellino, che non solo doveva svolgere la funzione di proteggere la porta della Terravecchia, ma fungere efficacemente di vedetta contro la minaccia delle frequenti scorrerie turche, da ubicarsi appresso li Rocchi di lo Castello e, nello specifico, nella cortina della Rocca dell’Orologio, dove vi era lo spigolo (spico). L’amministrazione, però, non disponeva della somma necessaria di ben 400 onze. Il Magnifico Romeo Mastiani, facoltoso mercante termitano, ma di origine pisana, detentore di lucrose rendite dell’universitas, fiutando l’affare, rese disponibile a tasso agevolato un prestito di onze 30 annuali sui suoi patrimoni, ma soprattutto sui proventi delle gabelle comunali su beni di consumo (farina, vino e mosti) da lui tenute in gestione, introiti per capitale di onze 400, al fine di essere utilizzato per le spese di completamento del detto revellino per vigilare la marina da quel punto strategico. In virtù di tale prestito, dopo più di un secolo, la città di Termini pagava alla cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa la somma di onze 5, tarì 25 e grana 2, spettante sull’eredità di detto Mastiani (cfr.  Libro II di contratti e scritture della Cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa di Termini. ms. sec. XVI-XVIII, Archivio storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, f. 27 e segg.).

L’atto verbale predetto fu sottoscritto dai giurati, i magnifici Federico de Buonafede, Giovanni Francesco de Anfuso, Giovanni Battista Lomellino, Pompilio de Bruno, nonché da nobili, consoli delle arti, facoltosi (honorabiles), tra i quali si riescono a leggere i seguenti nominativi: magnifico Nicolò de Chambris, magnifico Alfonso de Chambris, lo nobili Leonardo Lu Forti, Bartolomeo de Arena, mastro Vincenzo Chaccula (noto argentiere del tempo), l’honorabilis Nicodemo de Novo, mastro Andrea di Blasi, Pietro Cardusio, Andrea la Viola, Tommaso Martorana, Stefano Battaglia, Antonino de Vitali, Antonino de Gregorio, Guglielmo di Pace, Vincenzo Pucillo, Michele Schimbenti (Schimmenti).

Similmente, altri rogiti in copia (cfr. Mazzo di numero I della chiesa di S. Maria la Nunziata, ms. AME, sec. XVI-XVII, ai segni C α 1) menzionano il detto bastione ed il quartiere limitrofo, gravitante su un piccolo slargo, per l’appunto denominato Platea Parva (26 Giugno IV indizione 1561, f. 319) che, come attesta una stipula più antica, era confinante con la strada pubblica, designata per qua itur ad castrum thermarum (22 Gennaio XV indizione 1542, f. 321), che dalla piazza di città conduceva alla porta meridionale del castello, rione che poi fu interamente distrutto per creare attorno ai bastioni una zona di servitù militare. Il piano di detto bastione è già menzionato l’anno seguente, assieme ai resti di case già dirute (7 Settembre VI indizione 1562, f. 346).

Medesimo destino ebbero altri quartieri, che finirono per essere parzialmente o totalmente distrutti, scomparendo anche dalla memoria collettiva (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 61).

Sul fianco nord-occidentale della Rocca dell’Orologio sorgeva un quartiere, prospiciente sul Piano di S. Caterina, che era detto di lagnuni, cioè dell’angolo, del cantone, evidentemente per la sua collocazione appartata, quasi nascosta. Ciò è attestato da un rogito del 20 Ottobre II indizione 1543 nel quale risulta che un certo Tommaso Mascellino (de Maxillino) possedeva una casa, costituita da un unico vano (corpo), ma sopraelevata da un solaio (solerata), al quale evidentemente si accedeva con una scala, posta nella Terravecchia di Termini e nel quartiere chiamato dell’Agnone (vocato di lagnuni). Le case contigue erano quella di notar Giangiacomo La Tegera (che, come abbiamo visto, era menzionata dal già citato rogito del 12 Ottobre X indizione 1521, relativo alla Ruga Sancti Basilii), quella degli eredi della fu donna Bartolomea de Moretta, dall’altra abitazione ovvero cucina degli eredi del fu don Giovanni de Bruno ed infine, dalla cucina della casa del magnifico Callisto de Rubeo (cfr. AMG, 1543-44, in Frammenti degli atti dei Giurati, 1518-1589, ai segni III 10 i 2).

Un altro quartiere, che in parte finì per soccombere di fronte ai lavori di realizzazione delle imponenti opere bastionate, fu quello denominato di S. Leonardo o delli Buccirii, cioé dei Macelli (cfr. siciliano vuccirìa, anticamente buccirìa, francese boucherie, provenzale bocarìa, catalano boquerìa, ‘beccheria’, ‘macello’), per la presenza, rispettivamente, della chiesa omonima e dei mattatoi cittadini. Questi ultimi, erano convenientemente ubicati non lontano dall’avvallamento torrentizio della Fossola, che allora si addentrava all’interno dell’abitato e che veniva utilizzato per smaltire i rifiuti della macellazione (per ulteriori approfondimenti, cfr. A. Contino, Aqua Himerae...cit., pp. 176-182 e fig. 30 p. 177).

Nel primo decennio del XV secolo è già documentata l’esistenza in Termini di un luogo di culto dedicato a S. Leonardo, come conferma un rogito di notar Giuliano Bonafede, datato 29 Novembre 1409, citato dallo storico locale tardo-settecentesco Gerolamo Maria Sceusa Provenzano, accademico euraceo con lo pseudonimo di Uranio Bellino (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima, e Fedele Città Della Sicilia, suo Nome, sua Origine, suo culto, e Suoi progressi, sotto i Dominij che il nostro Regno han governato, ms. 1796, BLT, ai segni AR d β 22, f. 48r).

In ACCT, Mazzo III, f. 343 e segg., sono presenti due copie di rogiti dello scadere del Cinquecento che attestano l’esistenza del quartiere di S. Leonardo nell’area dei macelli di Termini. Partiamo dal rogito più recente, datato 10 Febbraio XI indizione 1598 (Pro Antonino Salerno cum Petro et Dominica de Dinaro), nel quale si rammentano i coniugi Pietro e Domenichella (Minicella) de Dinaro, possessori di una casa monocellulare, sita nel quartiere già chiamato di S. Leonardo (in quarterio olim nuncupato Sancti Leonardi), ovvero detto propriamente di li Buccirij, confinante con quello che un tempo era un magazzino di Antonio Russo, con le abitazioni di Antonino Salerno e del fu Gerolamo Solìto, quest’ultima in passato macello o mandra (recinto murario per la mandria del bestiame da macellare) di Giovanni Marchisi, mentre dall’altro lato, confinava con la casa posseduta da Tommaso de Gregorio, già del fu Giovanni de Anna. L’altro atto, di appena un quadriennio più antico, essendo datato 31 Marzo VII indizione 1594 (Pro Dominica Strambella et Vassallo cum Petro Dinaro), rammenta nel Borgo di Termini (in burgo thermarum) il quartiere denominato di S. Leonardo (quarterio Sancti Leonardi). Sembra quindi plausibile pensare che nel 1594 il luogo di culto dedicato a questo santo fosse ancora in funzione, risultando già adibito ad usi profani un quadriennio dopo.

Per quanto attiene ai macelli di Termini in questo sito, questi sono indirettamente documentati sin dagli anni 30’ del Quattrocento. Un rogito agli atti di notar Giuliano Bonafede, datato 9 Novembre 1438, infatti, rammenta l’esistenza di uno slargo denominato Piano dei Macelli (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., f. 48r).

Recentemente, abbiamo rintracciato due rogiti, sinora totalmente inediti, che si conservano in copia nel Rollo [Ruolo] Vecchio di con[tra]tti [del Monte di Pietà di Termini], ms sec. XVI-XVII, AME, relativi ai mattatoi termitani del tempo. Il primo, datato 18 Gennaio I indizione 1557, è una copia tratta dagli atti di notar Cesare de Carroccio di Termini, inserita ai ff. 15r-16r, che permette di avere preziose informazioni sugli scannatoi termitani e sulla loro ubicazione topografica, grazie anche alla inusitata indicazione dell’orientazione rispetto ai punti cardinali. In tale stipula, risulta che la confraternita del Monte di Pietà di Termini (allora ubicata nella chiesa di S. Sebastiano con annesso ospedale, poi inglobata nella seicentesca chiesa di S. Croce di Gerusalemme o del Monte), previa proposta dell’organo di consultazione detto consiglio civico, congregato in detta città il primo novembre X indizione 1551, ebbe concessa licenza viceregia (data in Catania il 14 Gennaio X indizione 1552), al fine di avere la privativa assoluta della gestione dei macelli cittadini. La confraternita, infatti, ebbe facoltà di edificare macelli, affittarli e percepirne liberamente gli introiti. Ricordiamo che il mattatoio, realizzato ex novo dai detti confratelli, fu poi edificato di fronte la chiesa di S. Caterina alessandrina, a tergo di una delle porte civiche cinquecentesche, poi murata (porta di S. Caterina o della Fossola o di S. Giovanni, cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 179-180).

I quattro macelli preesistenti, attigui ed adiacenti erano posseduti dalla magnifica Bernardina moglie del magnifico Giovan Domenico de Garifo. Dal rogito apprendiamo che i mattatoi erano provvisti di loggia (pinnata) antistante e di un recinto murario per la mandria (mandra) del bestiame da macellare, retrostante, ininterrotto tranne in corrispondenza di una casa fatiscente (casalenum) contigua. I quattro macelli, ubicati all’interno del perimetro murario, prospettavano sulla strada che dalla piazza di città (plano platee dicte civitatis) conduceva verso la chiesa di S. Caterina (ecclesie sancte catherine), essendo contigui, dalla parte superiore, verso oriente, con la casa o magazzino degli eredi del fu Pietro Scrignetto junior e, dalla parte inferiore, verso occidente, muro comune mediante (cioè col muro portante in comune) con certi lotti di terreno edificabili, cinti da muri, che un tempo furono una mandra chiamata di pirrello o di perdico (dai cognomi dei proprietari e/o esercenti). Questi ultimi confinavano nella parte anteriore con la detta strada pubblica ed in quella posteriore con la mandra dei predetti macelli, ed infine, verso settentrione, erano in frontespizio con parte delle terre incolte (vacue) della Fossola (fossula), con l’interposizione della via che dal Piano di S. Caterina (planicie dicte ecclesie sancte catherine), procedeva sino all’interno del castello (fortilicium) di detta città, chiamato della Terravecchia (terris veteris). Nel rogito viene specificato che, verso oriente, vi era un’altra via pubblica, intermedia tra la detta mandra ed una certa casa a piano terreno edificata dal fu magnifico Raniero Volterrano (vulterano), che iniziava dal cantone (cantoneria) di detta casa o magazzino degli eredi di fu Pietro Scrignetto e finiva nella sopraddetta via (la quale non era altro che la già citata strada medievale detta Ruga Sancti Basili) che conduceva sino all’interno del perimetro fortificato del castello (fortilitium) della Terravecchia.

Da notare che, addì 23 dicembre I indizione 1557, i giurati (amministratori comunali) diedero potestà e facoltà ai «retturi et confrati di lo munti [di Pietà] di putiri ipsi suli edificarsi et tenirj in ditta cita [sic, città] buchirij et casa di scorchiaturj [dove venivano scuoiati gli animali]» da collocarsi «in la strata chi si va di la plaza di ditta  verso la ecc[lesi]a di s[an]ta caterina» (cfr. AMG, 1557-58, ms. cit.). Occorre precisare che questo asse viario non aveva alcuna relazione con l’attuale ampio viale Enrico Iannelli, essendo quest’ultimo sorto laddove vi erano dei caseggiati, separati da vicoli, demoliti nella prima metà del Settecento. Le fonti cinquecentesche (cfr., ad es. rogito in notar Leonardo Gentile di Termini del 4 maggio VII indizione 1549, copia in Libro I di Atti Atti e Scritture della Cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa di Termini, ff. 29v.-31) parlano di questa strada pubblica con l’indicazione per la quale si va alla chiesa di S. Giovanni (strata publica per quam itur ad ecclesia divi joannis), poiché dopo aver superato il Piano di Santa Caterina, questo asse viario si dirigeva verso l’omonimo edificio di culto (del quale rimangono pochi ruderi e la torre campanaria con cuspide maiolicata). Su questa strada prospettava pure la casa con cortile dell’honorabilis Michele de Pusaterio, già scorticatoio (scorchiatorio) e mandra del fu Calogero de Serio, un vero e proprio mattatoio medievale.

Il secondo rogito (f. 72) del medesimo manoscritto, di un decennio successivo, poiché data al 10 Aprile X indizione 1567, ci informa che la predetta magnifica Bernardina [de Anna] moglie del magnifico Giovanni Domenico de Garifo, per sé e per i suoi eredi, diede ed alienò al devoto Monte di Pietà di Termini i quatto macelli con mandra e casaleno, provvisti di loggiato, contigui e collaterali, dietro pagamento di onze 100. Da questa somma, decurtato il valore della sorte principale, cioè tarì 27, ed in vigore della bolla e regia prammatica, cioè onze 9 e tarì 3 annuali (secondo l’anno indizionale), ripartite in tre rate uguali (da versare il 1° maggio; il 1° settembre, il 1° gennaio) di onze 3 e tarì 1, rimanevano da pagare onze 91.

Dopo gli sventramenti dell’edificato medievale, nella piazza, contigua al bastione dell’Orologio, sopravvisse solo la chiesa di S. Antonio Abate (il cui sito corrisponde al tratto terminale dell’attuale Via Castellana, non lontano dall’imbocco nel Belvedere Principe di Piemonte). Questo santo, secondo il bios scritto da S. Atanasio, fu un anacoreta vissuto in Egitto nel III-IV sec. d. C., una delle maggiori figure dell’ascetismo cristiano, invocato quale protettore dei macellai (cosa che si attaglia con la prossimità della chiesa eponima ed i macelli cittadini).

Il luogo di culto, già esistente agli inizi del Quattrocento, era posto nella piazza pubblica (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., f. 47v, atti notar Giuliano Bonafede, 15 Gennaio 1411) che, a quel tempo, doveva essere estesa almeno sino all’attuale intersezione tra le vie Belvedere e Castellana. Inoltre, la chiesa era il fulcro del «quartiere vecchio di S. Antonio» (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., f. 47v, atti notar Giuliano Bonafede, 11 Febbraio 1438), attraversato dalla strada omonima (Ruga di S. Antonio) con il già citato «Piano dei Macelli» (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., f. 48r, atti notar Giuliano Bonafede, rispettivamente, 11 Febbraio 1438 e 9 Novembre 1438).

Essendo ormai vetusta, la chiesa di S. Antonio Abate fu riedificata ed ampliata, come conferma un rogito datato 18 gennaio XV indizione 1602, agli atti del locale notaio Tommaso Bertòlo, già scoperto e reso noto da uno degli scriventi (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 61): «La confraternita et conf[rat]i della ecc[lesi]a di s[an]to ant[oni]o di q[est]a città di th[er]mene fondata s[opr]a et costruita a travagli industria et di spesi di confrati antiqui di quella in uno quarteri della piazza di fronte de lo orologio antiquo et innante il castello di essa città confinante pel passato con (…) casi et vanelli già tempo fa ruinati p[er] [fare] piazza della costrutione di uno bastione intanto ch’al pr[ese]nte si retrova detta isolata in un piano <di> detto castello et reedificata accomodata et a[m]pliata p[er] li rettorj et confrati di essa et a loro spesi industria et travaglio». Nel rogito si affermava che il beneficiale che aveva il titolo di S. Antonio Abate non era deputato per il beneficio di detta chiesa, ma su «alcuni benefizi et introiti de antiquo lasciati» sopra alcuni possedimenti «e lochi di casi», tra i quali «un pezzo di solo [sic, suolo] dove al pr[ese]nte vi è lo [sic] ca[m]panile che prima era sacrestia di detta chiesa», gravato di un censo di tarì 1 e grana 10.

La detta chiesa è ben visibile nel disegno acquerellato di Gabriele Merelli, Tenente di Mastro di Campo Gen[era]le, eseguito a punta di china, utilizzando una tinta seppia scura, denominato Castello di Termine. Tale dipinto, è contenuto nell’opera di detto Merelli intitolata Descrittione del Regno di Sicilia e dell’isole ad essa coadiacenti dedicata all’Altezza Serenissima del Signor Don Gio[v anni] D’Austria, tomo II, datato 16 Agosto 1677, che si conserva nella Biblioteca Reale di Torino, ai segni Ms. Militari 39 (cfr. V. Manfré, Memoria del potere e gestione del territorio attraverso l’uso delle carte. La Sicilia in un atlante inedito di Gabriele Merelli del 1677, “Anuario del Departamento de Historia y Teoría del Arte”, vol. 22, 2010, pp. 161-188). Il disegno del Merelli (cfr. immagine) mostra la chiesa di S. Antonio Abate, con la facciata (con torre campanaria) rivolta verso la piazza di città, ubicata ad un dipresso della tenaglia e della Porta della Terravecchia, non lontano dall’ingresso bastionato della porta meridionale del castello, mentre quest’ultimo domina nettamente il paesaggio. In primo piano, sono raffigurati alcuni edifici superstiti della Terravecchia sotto il Castello e, nello specifico, del quartiere di S. Michele Arcangelo (distrutto nel Settecento, oggi in gran parte occupato dal viale alberato del Belvedere Principe di Piemonte) con l’asse viario che i rogiti termitani del tempo chiamano Strada pubblica per la quale si va al Castello.

Il Settecento fu subito foriero di grandi mutamenti per l’intera Europa, nonché per il Regno di Sicilia che, essendo compreso nell’orbita spagnuola, non poté non essere coinvolto a pieno titolo. Il 3 Novembre 1700, essendo defunto ad appena trenta anni, senza eredi diretti, Carlo II di Spagna, si insediò sul trono iberico Filippo di Borbone, figlio secondogenito del Delfino di Francia e nipote di Luigi XIV, appoggiato anche dall’Elettore di Baviera. Gli Asburgo, dal canto loro, avanzarono come pretendente l’arciduca Carlo, figlio dell’imperatore Leopoldo, che fu sostenuto dalla cosiddetta Grande Alleanza (Impero asburgico, Inghilterra, Portogallo, Prussia ed Olanda). Nacque così la guerra di successione spagnuola, nella quale la Sicilia divenne uno degli scenari di queste contese dinastiche, vista la sua collocazione altamente strategica nel Mediterraneo. L’Isola, pertanto, fu dominata da Filippo V di Spagna (dal 1700), poi da Vittorio Amedeo II di Savoia (con il trattato di Utrecht del 1713).

Nel 1718, gli spagnuoli invasero la Sicilia, ma subirono poi il contrattacco della lega formata dall’Impero asburgico, Gran Bretagna, Francia ed Olanda, che li sconfisse a Pachino (battaglia navale di Capo Passero, 11 agosto 1718), iniziando poi l’occupazione dell’isola (Messina, 28 febbraio 1719). La pace dell’Aja del 1720, almeno formalmente, fu l’inizio del dominio di Carlo VI d’Austria, interrotto militarmente nel 1735, con l’invasione dei regni di Napoli e di Sicilia organizzata da Carlo III di Borbone, duca di Parma, iniziatore del dominio borbonico (che ebbe poi termine nel 1860).

Tutte queste vicissitudini storiche e belliche offrono un’efficace chiave di lettura per comprendere le cause delle ulteriori opere di sventramento, perpetrate durante la prima metà del Settecento, nell’area contigua alle fortificazioni castrensi di Termini Imerese, località quest’ultima, di indubbia rilevanza strategica ed economica. Le distruzioni più devastanti furono inferte al settore sito tra la struttura bastionata della Tenaglia e la porta meridionale del castello (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 62).

Allo stato attuale delle ricerche, le varie fasi di demolizione possono essere soltanto abbozzate sulla scorta di una documentazione che, purtroppo, soventemente non solo non è sincrona, ma è anche indiretta essendo legata a censi, generalmente ecclesiastici, divenuti inconsistenti per il sopravvenuto abbattimento degli immobili sui qual gravavano.

Tali fonti documentarie, accennano al diroccamento di abitazioni, avvenute attorno agli anni dieci del Settecento (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 187), verosimilmente da mettere in relazione all’ampliamento della struttura fortificata con l’aggiunta del baluarte de los Balbases (denominazione derivante dal predicato marchionale del nobile genovese Carlo Antonio Spinola e Colonna, viceré di Sicilia dal 1707 sino alla cessione dell’Isola a Vittorio Amedeo II di Savoia), con lo scopo di migliorare la protezione dell’entrata meridionale del castello. La grande struttura bastionata che, nel complesso, prese il nome di piattaforma, era ubicata all’incirca dirimpetto l’attuale ingresso che conduce alla cima della Rocca. Lo storiografo siciliano Giovanni Evangelista Di Blasi (1720-1812), riferisce che nel 1708 il viceré marchese di Balbases stabilì di far piazza d’armi a Termini, come attesta un dispaccio del 28 Agosto di detto anno, dove si legge che nella cittadina imerese vi furono richiamate tutte le truppe spagnuole al comando del cavaliere palermitano Domenico Lucchese (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, seguita da un’Appendice sino al 1842 (a cura di P. Insenga, volume unico, Stamperia Oretea, Palermo 1842, p. 464). In tale contesto dovettero essere avviate opere di adeguamento e di rafforzamento delle strutture bastionate.

Da notare che gli abbattimenti interessarono non solo l’area del pianoro, ma anche parte dei quartieri sotto la Maggior Chiesa e sopra l’Annunziata. E’ probabile che tali edifici siano stati distrutti, sia per rendere libera la visuale di osservazione, sia per sgombrare la traiettoria di tiro delle armi da fuoco.

Nel 1713, a seguito delle disposizioni dell’articolo 5 del trattato di Utrecht del giorno 11 Aprile, ebbe inizio il dominio sabaudo in Sicilia (cfr. V. E. Stellardi, Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia nell’isola di Sicilia dall’anno MDCCXIII al MDCCXIX, Botta, Torino MDCCCLXII, pp. 3-27). A ciò fecero seguito le stipule dell’atto di cessione e del trattato di pace e di cessione del Regno di Sicilia, tra il re Filippo V di Spagna ed il duca Vittorio Amedeo di Savoia, rispettivamente, dati a Madrid il 13 Giugno e ad Utrecht il 13 Luglio. Il 22 Settembre a Torino, Vittorio Amedeo assunse poi il titolo regale (alla presenza degli ambasciatori siciliani), mentre il 10 Ottobre giunse in Sicilia dove fu solennemente incoronato nella cattedrale di Palermo il 24 Dicembre 1713 come Vittorio Amedeo I re di Sicilia (cfr. V. E. Stellardi, Il Regno di Vittorio Amedeo…cit., pp. 33-34 e pp.78-82).

Fu appunto nel 1718, durante il regno sabaudo, che si ebbero gli sventramenti più massicci del tessuto urbano prossimo alle fortificazioni castrensi, in occasione delle operazioni militari legate alla paventata spedizione di riconquista della Sicilia, da parte delle truppe spagnuole.

Una fonte locale che ci dà alcuni ragguagli in proposito è data dall’opera manoscritta del sac. termitano Giovanni Andrea Guarino (1703-1777) intitolata Libro in cui si descrive l’antichità del Venerabile Reclusorio delle Donzelle Vergini sotto titolo del Principe della chiesa Cattolica S. Pietro, olim Monistero di S. Benedetto Abbate, progresso e stato presente; incominciando dall’anno 1443 fin’al 1759 (datata 1759, che si conserva nella BLT ai segni AR e α 11). Il Guarino ci informa che nel 1718 «il quartiero sotto il Castello […] col pretesto di far impedimento al Castello», fu «dall’intutto diroccato, non restando pietra sopra pietra, fin’ad’esser diroccate molte chiese» (tra queste ultime menziona S. Antonio Abate e S. Michele Arcangelo), «come più sotto si dirà; e perciò in detto anno 1718, che regnava Vittorio Amedeo Duca di Savoia sostenne questa piazza l’assedio per giorni 17 [sic], benché poi si rendè alli Spagnoli, che fortemente la battevano». Successivamente, egli rammenta lucidamente che la chiesa di S. Michele Arcangelo «nell’anno 1718, per cagione di far piano al Castello per le guerre imminenti, [fu] diroccato, ed io mi ricordo che essendo di età di anni 13 andai a vedere detta chiesa prima di smantellarsi». Secondo il Guarino, quindi, gran parte delle demolizioni sarebbero state antecedenti all’assedio spagnuolo della fortezza.

Un accenno ai lavori effettuati nei fortilizi più importanti, tra i quali si annovera Termini, si rintraccia nella corrispondenza tra il viceré sabaudo, conte Annibale Maffei, e Vittorio Amedeo di Savoia. Il «ristretto degli articoli della lettera scritta dal Viceré a Sua Maestà li 28 maggio 1718, con la risposta data dalla Maestà Sua a caduno [sic] degli infrascritti capi», ci informa che era stato ordinato «il rinforzo delle provisioni [sic] così da bocca, come da guerra nelle Piazze di Trapani, Siracusa, Melazzo e Termini» e che «il travaglio da farsi alle fortificazioni resta indispensabile, dovendo però seguire con la dovuta moderatione di spesa senza dar luogo a soverchij proggetti [sic] delli Ingegneri et al capriccio de’ Comandanti che alcune volte non lasciano di far proceder a’ travaglij inutili con ommetter [sic] li più necessarij» (cfr. V. E. Stellardi, Il Regno di Vittorio Amedeo…cit., nota n. 42, pp. 448-450). Ancora il 24 Giugno 1718, il Maffei scriveva da Palermo al re che «li travagli di terra per fortificazioni delle Piazze sono stati concertati col parere de Generali sulla conoscenza che si ha del loro stato, sul progetto degl’Ingegneri, e ridotti al più preciso» (cfr. V. E. Stellardi, Il Regno di Vittorio Amedeo…cit., pp. 432-33).

Qui di seguito tratteggeremo quale fu il ruolo strategico di Termini Imerese nel novero delle operazioni militari legate alla spedizione spagnuola e quali furono le conseguenze sull’edificato medievale contiguo alla fortezza.

La sera del 1° Luglio 1718, l’armata spagnola (forte di 432 imbarcazioni con 22.000 uomini, fra cui 5000 di cavalleria), comandata da Jean François de Bette (Bruxelles, 1672; Madrid, 1725), marchese di Leyde o Lede (oggi comune belga nelle Fiandre orientali), che era partita da Cagliari il 28 Giugno, sbarcò nella rada di Solanto (ad E di Palermo, nel territorio dell’odierno comune di S. Flavia). Il medesimo giorno, secondo Mongitore, il Maffei, inviò un contingente di 300 svizzeri al castello di Termini (cfr. A. Mongitore, Diario Palermitano…cit., p. 302). In realtà, è più precisa una missiva del viceré, inviata da Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi), il 3 luglio, compresa nel carteggio tra Annibale Maffei e Vittorio Amedeo (che si conserva presso l’Archivio di Stato di Torino, Miscellanea Stellardi), nella quale si legge: «Inviai a Termini di rinforzo delli 120 uomini che colà si ritrovavano altri cento ottanta comandati dal Conte Biscarello per aver un Ufficiale di qualche importanza in detta Piazza in caso che succedesse qualche accidente al Conte Badat [comandante del castello, poi rimasto prigioniero di guerra a Palermo]» (cfr. Alberico Lo Faso di Serradifalco, La lunga marcia del Conte Maffei, Associazione Mediterranea Ricerche Storiche, Palermo 2018, on-line all’indirizzo shttp://www.storiamediterranea.it/wp-content/uploads/2018/04/La-lunga-marcia-del-conte-Maffei.pdf, p. 5; Alberico Lo Faso di Serradifalco, a cura di, Sicilia 1718. Dai documenti dell’archivio di Stato di Torino, on-line all’indirizzo http://www.storiamediterranea.it/public/md1_dir/b1292.pdf, p. 81). Nel castello di Termini, infatti, furono lasciate 2 compagnie del 2° battaglione Savoia, alle quali si aggiunsero 184 militi appartenenti al 1° Guardie e ad elementi del reggimento svizzero-valesano di Hackbrett (cfr. G. Boeri, G. Aimaretti, La Guerra di Sardegna e di Sicilia 1717-1720, vol. 1: Gli Eserciti contrapposti Savoia, Spagna, Austria – Parte I, L’Esercito Sabaudo nel 1718-1720 e la Guerra per la difesa della Sicilia, Soldiershop, 2017, pp. 21-22).

Secondo il Di Blasi, il 6 Luglio, il marchese di Lede, nella cattedrale di Palermo assunse il dominio della città con il carattere di viceré (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré…edizione del 1842, cit., pp. 493-495).

Dopo la caduta del castello a mare di Palermo (13 Luglio), il 24 di detto mese, secondo quanto sostenuto dal Di Blasi, per porre d’assedio la fortezza di Termini sarebbe stato inviato un contingente di 3000 uomini (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré…ediz. 1842, cit., p. 498). Il termitano Girolamo Maria Sceusa, invece, sostiene che nel «mese di giug[n]o» [sic, probabilmente svista per giugnetto, cioè luglio] sarebbe stati destinati per l’assedio termitano «seimila uomini» (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., ff. 66v-67r). Le altre fonti, sono invece concordi nell’indicare la data del 26 Luglio per l’inizio dell’assedio del castello di Termini, mentre solo il 4 Agosto, la guarnigione sabauda capitolò dopo aver resistito tenacemente agli assalti nemici, sopportando fame e disagi (cfr. Alberico Lo Faso di Serradifalco, a cura di, Sicilia 1718…cit., pp. 39-40).

Un’attendibile e dettagliata descrizione di tale assedio è riportata nell’opera manoscritta dell’abate dottor Gaetano Giardina (Palermo, 17 Marzo 1693; ivi, 25 Giugno 1731), Memorie storiche del regno di Sicilia dall’anno 1718 al 1720, che si conserva della Biblioteca comunale di Palermo ai segni Qq H 150 (proveniente da quella di S. Martino delle Scale). Sospettiamo che nello stendere la trattazione dell’assedio termitano, il Giardina abbia attinto ad una fonte spagnola, verosimilmente sincrona (come fanno intuire alcuni ispanismi e la poca dimestichezza con i toponimi locali). L’edizione a stampa del ms. del Giardina fu curata dal benemerito monsignor Gioacchino Di Marzo (1839-1916), nella sua monumentale collana Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia (cfr. G. Di Marzo, Diari della Città di Palermo dal secolo XVI al XIX, in “Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia”, vol. XV, XI della prima serie, Pedone Lauriel, Palermo MDCCCLXXIII, XII+298 pp., in particolare, pp. 163-166) e da essa abbiamo tratto il testo che riportiamo qui di seguito: «Nel medesimo tempo non lasciavano li Savojardi del presidio del castello di Termine il vessar quei cittadini di volere a forza danari per loro sustentamento, fino a tal punto, che obbligarono li giurati di quella città di mandare in Palermo il loro mastro notaro, rappresentando al marchese di Lede lo stato di quei cittadini, e con questo far le istanze di sollecitar le truppe spagnuole a rendersi, quanto più presto poteano, padroni di quella fortezza, per altro faticosa a soggiogarsi a riguardo del sito, giacché sta fabbricata sull’eminenza di un’aspra ed alta rocca. Dal che ne seguì, che il marchese di Lede ordinò al conte de Montemar [José Carrillo de Albornoz y Montiel (Siviglia, 1671; Saragozza, 1747)], tenente generale, di comandar lui 4,000 uomini per l’impresa del sudetto castello. Onde allestitasi questa soldatesca si drizzò per quella volta, dove li 22 luglio, allo spuntar del sole, furono a vista sopra il Cozzo delle Menzogne [Poggio Balate?] due compagnie di dragoni, ch’essendo state scoperte dal cannone del castello, ebbero in necessità l’accamparsi in un luogo detto Impalistrato [odierna contrada Impalastro], non più di un miglio e mezzo in circa distante dalla città, dove andava radunandosi il rimanente delle truppe, che posero in tanta gelosia di difesa quei Savojardi, che sparavano a chiunque, che da loro era visto, non riguardando né militare, né paesano. Onde si ridusse in tale apprensione quel pubblico di Termini, che, unitisi li giurati, cavalieri ed alcuni gentiluomini, andarono dal conte de Montemar, offerendogli [sic] la città e il commodo delle provvigioni necessarie per le sue truppe; e questo perché fossero con più prestezza vinti i Savojardi, che tanto danno cagionavano con le fucilate e col cannone ai paesani. Si valse il generale di questa offerta, e mandò gl’ingegneri a riconoscere il sito della città, per ritrovarvi luogo più commodo per piantarvi la batteria, acciò si potesse con quella battere il castello. Perlochè giunti li 25 per mare gli attrezzi di guerra necessarii per quell’impresa, si disbarcarono [sic, sbarcarono, cfr. castigliano desembarcar] per le cannonate del castello un miglio e mezzo lungi dalla città, dietro la chiesa de’ santi Cosimo e Damiano, dove, per guardar quegli ordigni, vi giunsero li sopradetti dragoni con altri 400 fanti, come ancora per iscortare alcune artiglierie, che si trasportavano per terra nel piano della porta di Messina [allora esistente presso l’attuale Piazza della Vittoria], per poi collocarsi ai luoghi determinati. Ma non si poterono incominciare i lavori se non il domani, perché giunse il grosso delle truppe, ascendente al numero di 3,000, ed ebbe il luogo dell’accampamento sotto il convento de padri Cappuccini, fuori la città: ed allora li giurati, accompagnati dai cavalieri, presentarono le chiavi al tenente generale, da lui ricevute coll’assistenza degli officiali maggiori; e la sera si diè principio a due trincere [sic], una per le bombe, vicino il palazzo di Solanto alla Bocceria della carne, distante dal castello un tiro di fucile, e per li cannoni a porta Felice, nella Scirba delli Bagni».

Qui interrompiamo temporaneamente il resoconto del Giardina per fornire alcuni chiarimenti relativi alle indicazioni topografiche ivi riferite, alcune delle quali sono confermate anche dallo storico termitano Sceusa (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., ff. 66v-67r). Quest’ultimo, infatti, riferisce che la trincea posta a Termini alta era sita «nel Piano di S. Giovanne vicino la chiesa di S. Caterina». Ivi sorgeva, come riporta il Giardina, il cosiddetto palazzo di Solanto che prendeva nome dalla famiglia Alliata, detentrice dell’omonima baronia con castello e tonnara. Un appartenente a questa casata, il palermitano Don Ludovico Alliata e Chirco, barone di Solanto, il 25 luglio 1643 aveva sposato la ricca ereditiera Donna Francesca Solìto, figlia del fu Don Francesco (cfr. AME, Sponsali, vol. 23 bis, f. 50), avendo così acquisito la cittadinanza termitana (propter ductione uxoris). Il detto palazzo «fu dirupato nell’anno 1718 nell’assedio di questo Regio Castello» (cfr. Anonimo, Libro di assenti delle rendite spettanti alla ven[erabi]le Comunia del Clero di q[ue]sta città di Termini per conto dell’eredità della fu D[onn]a Catarina Solìto ed Anfuso, ms. BLT, sec. XVII, ai segni Atti 255, f. 121). La Scirba, invece, era una grande zona a verde prossima al litorale, già dei Solìto e poi degli Alliata, confinante con le mura di cinta urbiche che convergevano nella struttura fortificata del Torracchio, con il Piano dei Bagni (oggi Piazza delle Terme), il tratto terminale della Strada delle Botteghelle (attuale Via Porta Erculea) e la Strada della Piscarìa (oggi Via Felice Cavallotti). Di tale giardino rimane traccia odonomastica nell’odierna Via Selva Bagni.

Il Giardina, così prosegue il suo racconto: «Quella delle bombe fu perfezionata la notte, non ostante le cannonate del castello, da dove si gettavano per impedire que’ lavori quantità di fuochi artificiali. E il domattina […] comparve spedita: contro a cui il castello impiegò cinque cannoni e mortari [sic, mortai] a pietre, che averebbono in qualche maniera impeditole operazioni, se da’ Spagnuoli non si fosse fatta una strada coperta, nella quale s’introdussero alcuni soldati, non permettendo col fucile di comparire verun soldato dal castello. Il giorno poi de’ 29 apparve la trincera [sic, trincea] della batteria de’ cannoni, che obbligò a tal difesa i Savojardi, che colle cannonate molte fabbriche rovinarono. Onde le batterie di bombe a fuoco e di pietre ed artiglieria dell’una e l’altra parte obbligarono quei cittadini ad abbandonar le lor case e ritirarsi in campagna; e porzione delle monache del monistero [sic, monastero] di s. Chiara furono portate in Palermo nel monistero delle Vergini sino alla resa del castello. Non passarono li 3 agosto, che, rovinato il bastione Balbases, fu fatta la breccia per la quale la notte un ingegnero e due micheletti [in spagnolo Miqueletes o Migueletes, truppe irregolari originarie della Catalogna], gli scoprirono il preparativo di dentro. Né mancò per questo la difesa del castello, ma si accrebbe alla gagliarda con ogni genere di fuoco col pensiero di rovinar le trincere [sic] ai Spagnuoli. Ma questi a tutta forza seguivano a battere in breccia contro la piattaforma e il torrion della bandiera; e non essendo questo bastante per la resa del castello, fu determinato l’assalto per la sera seguente. Al qual effetto si misero all’ordine tre reggimenti, e furono destrutte col cannone le stanze del comandante del castello [presso la medievale porta meridionale], le ruine delle quali agevolavano la salita a’ Spagnnoli [sic]. Previsto dal comandante quel pregiudizio, che potea recargli l’assalto, comparve egli accompagnato da un tamburro [sic] sopra il bastion rovinato, dando segni di voler capitolare; ed essendogli accordato, uscì d’un subito il capitan maggiore con altri officiali, per trattar la capitolazione col marchese [sic, 3° conte] di Montemar, a cui chiesero di uscir dalla breccia con bandiera spiegata e tamburro battente, e portarsi tutto quello, che vi era nel castello. Ma finalmente non gli fu altro concesso che uscir prigioni senz’armi, e solo portarsi quella roba, ch’era propria, e al comandante e capitan maggiore imbarcarsi da privati con la loro roba: e per essersi ben diportato nella difesa del castello, il comandante fu ammesso col suo capitan maggiore a pranzo dal conte de Montemar. Uscite che furono le milizie savojarde, fu quel castello intrigato [sic, consegnato, cfr. castigliano entregar] a 300 Spagnuoli, tanto essendo il numero de’ Savojardi, che restarono prigionieri, avendone avuti tre morti e 12 feriti; e il rimanente de’ Spagnuoli si ritirarono in Palermo; e avendone perso 13 morti, ne ricondussero 37 feriti. Entrati li Spagnuoli nel castello, non trovarono altro che due giorni di viveri, 6 cannoni mediocri, 2 falconetti [cannoni d’artiglieria leggera, trasportabili a mano, di piccolo calibro, tra 5 e 7 cm, che sparavano proiettili sferici massivi del peso compreso tra 1 e 3 libbre] e 2 petriere [mortai di grosso calibro, ≥ 40 cm, utilizzati per il lancio di pietre utilizzate come proiettili], che poteano anco servire; e il rimanente era disfatto. E quel presidio fu condotto prigioniero in Palermo».

Gli storici locali, con molto campanilismo, enfatizzarono alcuni particolari, ampliando in maniera spropositata i tempi dell’assedio, nel tentativo di salvare la leggenda della «Fortezza da poter resistere a qualsivoglia invasione di Nemici» (cfr. G. Benincasa, Sull’origine e sullo stemma di Termini Imerese Città Splendidissima della Sicilia. Dissertazione storico-critica, Amato, Palermo M. DCC. LXXIX., p. 47, nota c, ordine viceregio del 1597), sminuendo l’entità delle evidenti pecche del sistema difensivo ormai obsoleto. Ad esempio, Sceusa sostenne che la guarnigione sabauda sarebbe stata composta di «duecentosessanta soli Soldati», mentre l’assedio sarebbe durato «n[ume]ro diciotto giorni, e notti [sic]» (cfr. G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., ff. 66v-67r), uno in più rispetto al Guarino (cfr., G. A. Guarino, Libro in cui si descrive l’antichità…ms. cit.). Ignazio Candioto, storico locale della prima metà del XX sec., senza peraltro citare alcuna fonte probante, arriva addirittura ad estendere l’assedio a ben «tre settimane» e, retoricamente, mette in risalto la resistenza di «quel manipolo di eroi» sabaudi (cfr. I. Candioto, Civitas Splendidissima (Termini Imerese). Leggenda e storia con documenti, Scuola salesiana del libro, Palermo 1940, p. 128).

Nell’Archivo General de Simancas, in Spagna (sezione Material cartográfico), sono conservate 21 suggestive piante topografiche che originariamente (fondo: Secretaría de Guerra, Suplemento 00234) erano riposte in una cartella, recante la seguente dicitura: «Año 1719. Diferentes Planos de las Fortalezas del R[ey]no. de Sicilia, para las operaciones de la expedizion que se pueso [al] cargo del Marqués de Lede» (cfr. C. Alvarez Terán, Mapas, planos y dibujos (Años 1503-1805), Archivo General de Simancas catalogo XXIX, Ministerio de Cultura, Dirección General de Bellas Artes, Archivos y Bibliotecas, Valladolid 1980, vol. I, p. 955). Tra queste, c’è una stupenda pianta a colori, di anonimo autore, intitolata Plano del Castillo y Ataque de Termini (dimensioni: 29,3 x 39 cm, escala c. 1:1.100, signatura: MPD, 15, 107), con orientazione a settentrione e rosa dei venti ad 8 punte, dipinta su carta ad acquarello che, con dovizia di particolari, raffigura il castello di Termini con la porzione contigua della cittadina (per ulteriori approfondimenti, cfr. O. Belvedere, Elementi per la forma urbana, in O. Belvedere, A. Burgio, R. Macaluso, M. S. Rizzo, Termini Imerese. Ricerche di topografia e di archeologia urbana, Istituto di Archeologia Università degli Studi di Palermo, Nuova Graphicadue, Palermo 1993, p. 35, fig. 27; A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 186-187). Nonostante sia inventariata con la data 1719, qui per la prima volta affermiamo che la detta pianta non è altro che il piano di attacco dell’assedio del Castello di Termini del 1718 e, quindi, va retrodatata almeno di un anno. Infatti, c’è una stringente concordanza tra la precedente minuziosa descrizione dell’assedio spagnuolo, dovuta al Giardina, e le indicazioni fornite dalla pianta medesima. Ad es., combacia l’ubicazione delle due trincee, una nella parte alta della cittadina, con la batteria di 2 mortai (puntati verso i baluardi occidentali del castello), l’altra a Termini bassa, con la batteria di 8 cannoni (rivolti soprattutto verso la piattaforma del castello), collocata presso i Bagni (nell’attuale Via Gisira).

All’occupazione spagnola della Sicilia (sgomberata dalle guarnigioni sabaude), fece seguito la controffensiva austriaca delle truppe imperiali di Claude Florimond d’Argenteau conte di Merçy (Longwy, département Meurthe et Moselle, 1666; Parma, 1734). Si ebbero alterne vicende da entrambe le coalizioni, seguita dalla dura sconfitta degli austriaci a Francavilla (20 Giugno 1719), finché nelle campagne di Palermo fu firmato l’armistizio (6 Maggio 1720). Si convenne che le truppe spagnuole avrebbero dovuto imbarcarsi da Termini, verso cui marciò l’esercito il 9, convergendovi (secondo Sceusa) «diciotto mila uomini» che si imbarcarono nella flotta alla fonda (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré…ediz. 1842, cit., p. 513; G. M. Sceusa Provenzano, Termini Imerese Splendidissima…ms. cit., ff. 67r-67v).

Secondo monsignor Luigi Del Pozzo, il 1° Gennaio 1734, Filippo V re di Spagna avrebbe dichiarato guerra a Carlo VI imperatore di Alemagna (Germania) ordinando al figlio l’infante Don Carlo di preparare un esercito per riconquistare i regni di Napoli e di Sicilia (cfr. Cronaca civile e militare delle due Sicilie sotto la dinastia borbonica dall’anno 1734 in poi, Stamperia Reale, Napoli 1857, p. 21). In realtà, de facto il comando fu affidato a José Carrillo Albornoz conte di Montemar che, in qualità di comandante generale delle truppe di Carlo di Borbone, fu il condottiero che, su incarico del futuro monarca, progettò e realizzò le strategie militari vincenti. La conquista del napoletano culminò con l’entrata solenne del Borbone in Napoli, il 10 maggio 1734, e la battaglia risolutiva di Bitonto del 25 maggio 1734 dove il Montemar sbaragliò le truppe avversarie (cfr. L. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle due Sicilie…cit., pp. 23-24).

Ricevuto formalmente il titolo vicereale, il 22 Agosto, due giorni dopo il Montemar salpò da Napoli in direzione della Sicilia, forte di una flotta di ben 300 tartane (velieri da carico con prua e poppa stellate ed unica alberatura con vela latina ed alberetto a poppa), 5 galee, 5 navi di linea, 2 palandre (grosse imbarcazioni a vela con fondo piatto) ed altre imbarcazioni minori (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré…ediz. 1842, cit., p. 536), avendo come obbiettivo principale la capitolazione di Palermo e di Messina. Il 29 Agosto, si ebbero due sbarchi delle truppe spagnuole, uno al comando del Montemar a Solanto, alla volta di Palermo, l’altro agli ordini del tenente generale, il cavalier conte di Marcillac, a Grotta, alla volta di Messina (cfr. L. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle due Sicilie…cit., p. 26, che però confonde Grotta con Piedigrotta). Il 2 Settembre, il Montemar entrò a Palermo, avendo già pattuito la capitolazione della città, mentre il 10 Settembre fu posto d’assedio il castello a mare, la cui la guarnigione austriaca si arrese dopo tre giorni. Intanto, il 7 Settembre, il Marcillac si era introdotto felicemente nella città di Messina (anche se gli imperiali, comandati dal valente stratega viennese di origine boema, Johann Georg Christian von Lobkowitz, asserragliati nella cittadella, resistettero strenuamente, capitolando soltanto il 25 marzo 1735).

Relativamente all’occupazione di Termini, una fonte coeva ed ufficiale riporta a data del 2 Settembre. Infatti, il Diario, compilato dalla Segreteria di Stato di Napoli, in base ai rapporti  inviati dal Montemar, riferisce che in tale giorno «aveva fatto occupare Termini il detto Signor Conte» («havia hecio ocupar el dicho Señor Conde a Termini», cfr. Diario que en virtud de las noticias del excellentisimo Señor Conde de Montemar Virrey de Sicilia se ha embiado de la Secretaria de Estado de Napoles a Monseñor Obispo de Cordova Ministro de España en Roma, 8 Settembre 1734). Cronache ottocentesche, che non citano fonti pregresse, invece, sostengono che il castello di Termini sarebbe stato ceduto agli spagnoli solo il 28 Settembre (cfr. A. Parisi, Cronologia compendiata delle due Sicilie dai tempi antichi conosciuti sino a tutto l’anno 1830, Solli, Palermo 1842, p. 202; L. Del Pozzo, Cronaca civile e militare delle due Sicilie…cit., p. 26).

Finalmente, il 30 Giugno 1735, Carlo di Borbone entrò solennemente a Palermo, ricevendo il giuramento nella cattedrale e venendo coronato ed unto dall’arcivescovo monsignor Matteo Basile. Secondo il Di Blasi, il 27 Luglio 1735, infine, cadeva l’ultima resistenza austriaca con la resa di Trapani (cfr. G. E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré…ediz. 1842, cit., p. 553).

La documentazione, relativa alle strategie militari legate alla spedizione di riconquista (pianificate agli inizi degli anni 30’ del Settecento), nonché ai successivi progetti di adeguamento delle fortezze dei regni di Napoli e di Sicilia, si conserva nelle cosiddette «carte Montemar» dell’Archivio di Stato di Napoli (cfr. T. Colletta, Piazzeforti di Napoli e Sicilia: le “carte Montemar” e il sistema difensivo meridionale al principio del Settecento, vol. 1 di Castelli e fortificazioni nel Mezzogiorno, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1981; in particolare, relativamente alla Sicilia si veda il cap. 9, Le piazzeforti di Messina, Milazzo, Siracusa, Palermo, Termini, Trapani, Sciacca). Tra gli apparati cartografici, va ricordato il progetto (rimasto irrealizzato), di ampliamento ed ammodernamento delle fortificazioni occidentali e meridionali del castello di Termini, che avrebbero dovuto avvolgere, senza lambirle, le strutture cinquecentesche, dalla Tenaglia sino alla piattaforma (non a caso proprio in corrispondenza del settore che si era mostrato particolarmente vulnerabile durante l’assedio del 1718, non essendo più capace di reggere di fronte agli incalzanti progressi delle armi da fuoco). Le nuove strutture avrebbero ottenuto un significativo progresso, rispetto alle fortificazioni esistenti, imprimendo alle opere una maggiore uguaglianza nello scandirsi dei moduli bastionati.

Nella prospettiva di realizzare la nuova imponente cortina bastionata difensiva, fu creata un’ampia cintura priva di edifici, comprensiva della nuova fascia di rispetto, demolendo ciò che era rimasto dei quartieri medievali già citati, ormai fortemente danneggiati dall’assedio del 1718, non solo a causa degli assedianti, ma anche dagli stessi assediati, nel disperato tentativo di difesa. Fu questo l’ultimo colpo inferto al tessuto urbano di Termini alta, contiguo al castello. Una visione più completa dell’imponente opera di fortificazione progettata, si ritrova ancora tracciata in un’altra successiva rappresentazione cartografica nella quale appare totalmente scomparso il tessuto urbano contiguo, sacrificato alle nuove esigenze belliche. Si tratta di un’elegante carta militare, opera di anonimo cartografo e pittore, con scritte e didascalie in spagnolo, dipinta ad acquarello, che si conserva presso l’Istituto storico e di cultura dell’arma del genio di Roma (cfr. Plano del Real Castillo de Termini, sec. XVIII, in L. Dufour, Atlante storico della Sicilia…cit.). Un’opera fortificata di tale entità richiedeva l’investimento di ingenti somme di denaro, ma il perdurare di un’infelice situazione economica dell’Isola, funestata anche da siccità e carestie (1746-47 e 1747-48, memorabile quella del 1763), probabilmente fu una delle cause della mancata attuazione dell’ambizioso progetto che rimase sulla carta.

Concludendo, ci piace rimarcare che nel caso della Rocca dell’Orologio le forme del paesaggio, originatesi naturalmente, sono state inglobate all’interno di altre direttamente prodotte dall’attività dell’Uomo, cioè le strutture fortificate del Cinquecento (Tenaglia e relativo fossato), del Seicento e degli inizi del Settecento. Tali fortificazioni bastionate, hanno sacrificato altre preesistenti forme, anch’esse direttamente legate a processi antropogenici, costituite dal tessuto urbano, prevalentemente medievale, comprese alcune emergenze architettoniche (edifici ecclesiastici). Successive distruzioni del tessuto urbano avvenute nella prima metà del Settecento, indirettamente e direttamente legate ad eventi bellici, hanno provocato la perdita irrimediabile di quasi tutto il tessuto urbano di questo settore di cerniera tra la città ed il castello, con la conseguente produzione di una notevole quantità di materiale di scarto che dovette essere stoccato in apposite discariche.

Dopo la distruzione del castello sulla rocca (a partire dal 1860), si ebbe dapprima il riempimento con materiali di risulta del fossato, sito a tergo delle strutture bastionate e, successivamente, la creazione di nuovi edifici tardo-ottocenteschi o degli inizi del Novecento, che diedero origine ad un’ulteriore fase antropogenica di edificato attorno alla Tenaglia cinquecentesca. Dopo la metà del Novecento, in maniera fortemente stridente rispetto al precedente edificato, si è parzialmente sostituita e/o affiancata la costruzione di forme antropiche, generalmente sviluppate in elevazione, con esiti decisamente infelici dal punto di vista paesaggistico.

Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra gratitudine, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e don Antonio Todaro per averci permesso in questi anni di effettuare delle fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese. Grazie di cuore all’amico e collega Giuseppe Esposito per averci segnalato alcune fonti manoscritte conservate negli archivi spagnoli.