La figura e le prime testimonianze dell’attività artistica del pittore Nicolò Pettineo (de Pettineo o de Pittineo o Pictineo, documentato dal 1498 al 1514) furono scoperte grazie alle pionieristiche ricerche archivistiche del pittore e studioso d’arte Ignazio De Michele (n. 1810) da Termini Imerese,
rese note in un puntuale studio, edito nel 1863 nella nuova serie dell’effemeride palermitana “La Favilla”, curata dal letterato prof. Carmelo Pardi (1822-1875) e da Francesco-Salesio Scavo (cfr. I. De Michele, Al Chiarissimo Signor Giuseppe Meli. Sopra alcune pitture e sculture esistenti in Termini Imerese. “La Favilla Giornale di Scienze, Lettere, Arti e Pedagogia”, serie seconda, anno primo, Stabilimento tipografico di Francesco Giliberti, Palermo, 1863, pp. 228-237 e, in particolare, pp. 234-235).
Il De Michele, figura eminentemente eclettica, capace di assommare in sé la duplice veste di artista versatile, colto e raffinato e, nel contempo, di studioso ed intenditore d’arte, era perfettamente conscio, precorrendo ampiamente le investigazioni di ricercatori successivi, dell’enorme potenzialità dell’indagine archivistica nel campo della storia dell’arte ed aveva potuto constatare quanto potesse essere fuorviante una certa dilagante disinvoltura nelle attribuzioni delle opere, basata esclusivamente su reali o presunti raffronti formali e stilistici. Abbiamo conferma di ciò nel suo articolo precitato, dove, per l’appunto, ebbe a scrivere: «avvegnacchè per difetto di quella storia, che si desidera universalmente, è invalso il costume di attribuire spesso ai capiscuola dei tempi molte opere di altri artisti coevi; onde restano nell’oblio i nomi di molti, che insieme agli altri ben conosciuti, formerebbero il decoro e l’onore della scuola patria. Ma è da sperare, che il tempo e gli studi sui lavori, che tuttavia ci rimangono, squarceranno mano mano il velo che li ricuopre, e renderanno ai loro autori quelle opere che indebitamente furon credute d’altra mano».
Relativamente al panorama artistico termitano di fine Quattrocento e del primo Cinquecento, il De Michele, riesumò dall’oblio le figure di «Giacomo Graffeo, Niccolò Pittineo, e Giacomo de Leo, tutti e tre Termitani; i primi due pittori, e scultore in legno il terzo» , i quali, grazie a lui, avendone rintracciati gli «originali contratti esistenti nell’archivio dei notari defunti della Comune di Termini-Imerese» (oggi nell’Archivio di Stato di Palermo sezione di Termini Imerese, d’ora in poi ASPT), da quel momento «evocati dalla polvere de’ defunti, si presentano dopo più di tre secoli e mezzo per reclamare il loro posto nella storia dell’arti [sic] siciliane, di cui è difetto appo noi, e che vi si sopperisca da qualche nostro ingegno potente, è voto giusto, comune di quanti albergano in petto anima siciliana» (p. 229).
Riguardo al nostro artista ecco cosa ebbe a vergare il De Michele, come sintesi ragionata delle sue ricerche e riflessioni: «Niccolò Pittineo, da Termini, pittore. Per compimento di questi cenni mi rimarrebbe a parlare di Niccolò Pittineo pittore Termitano, del quale si trovano diversi contratti dal notar Filippo d’Ugo. In uno di essi con data del 9 settembre 1514 si obbligava di dipingere a fresco nella chiesa di santa Maria la Misericordia la storia del vecchio e nuovo testamento per onze 32. Per la qual cosa fatta scrostare l’imbiancatura nelle pareti di quella antica chiesetta attigua all’attuale eretta sotto lo stesso titolo, oggi pubblica scuola elementare, apparirono dipinte a fresco diverse figure di mezzana grandezza di temi biblici, assai maltrattate dai colpi di martello e dalla calce soprappostavi. Un solo quadretto, che esprime la cattura di N. S. Gesù Cristo rimane il meno guasto e manca di alcune figure, per cui non osando pronunziare un giudizio su quella composizione, mi contento far notare in essa un disegno franco, ed un colorito vigoroso e con gusto armonizzato». Il De Michele allude alla primitiva chiesetta intitolata a S. Maria della Misericordia, a quel tempo già utilizzata per usi profani, cioè come edificio scolastico per la didattica primaria secondo il metodo Lancastriano (ideato dal pedagogista-pedagogo e filantropo inglese Joseph Lancaster, 1778-1838), successivamente adibita a sala di concerti, poi magazzino ed oggi di pertinenza della struttura museale termitana. Questo luogo di culto è stato erroneamente identificato con l’altra chiesa-ospedale di S. Michele Arcangelo, la quale invece sorgeva sul sito dell’attuale viale alberato del Belvedere e che fu distrutta nel 1718; sarebbe pertanto auspicabile emendare questo errore, presente in diverse fonti, ad es. nei siti on-line istituzionali, nei dépliant e nelle indicazioni poste nella struttura museale (per un’ampia disamina e per le vicende storiche relative a questo luogo di culto, cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale), Giambra, Terme Vigliatore, 2019, pp. 183-187; P. Bova – A. Contino, Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento, 20 Dicembre 2020, su questa testata on-line).
Tornando ai dati archivistici scoperti dal De Michele, egli ci informa che «in un altro del 6 ottobre 1504 per la somma di onze 43 lo stesso Pittineo si obbligava ingessare, dorare e dipingere un Confalone [sic, gonfalone] nuovo di S. Maria la Misericordia, con quelle figure che avrebbero richieste i rettori della confraternita eretta nella chiesa sotto quel titolo. Ma non ostante le più assidue e diligenti ricerche non mi è riuscito di rinvenire il Confalone in discorso […]».
Le ricerche sul Pettineo furono poi ampliate da monsignor Gioacchino Di Marzo (1839-1916), ciantro (cantore) della Cappella palatina, letterato, storico e benemerito studioso dell’arte siciliana, che in due sue opere ci fornisce ulteriori riscontri documentari che gli permettono di ricostruire un quadro più ampio dell’attività artistica del pittore.
Il Di Marzo, in una sua pregevole e corposa opera (2 voll., 1880-83), dedicata ai Gagini ed al loro ruolo egemone nel panorama della scultura siciliana del Quattrocento e del Cinquecento, riporta integralmente il testo di due preziosi documenti nei quali si fa menzione del pittore. Il primo, datato 18 Aprile I indizione 1513, fu estratto dal registro dell’anno 1512-13 di notar Filippo Giacomo d’Ugo di Termini, sempre nell’archivio su menzionato. Il rogito rammenta il lapicida, l’honorabilis m[agiste]r Franciscus de li Mastri de Carrara, sculptor marmorum, che si obbligò con l’honorabilis Francesco Indovina (Francisco la Indivina), procuratore della cappella del Gloriosissimo Corpo del Signore Nostro Gesù Cristo nella Maggior Chiesa di Termini, a scolpire in detta città una custodia marmorea per detto luogo di culto, raffigurante il tutelare. L’atto in questione fu sottoscritto dai nobili Gerardo Pisano, Giovanni Pietro Solito, dal venerabile sacerdote Bartolomeo Di Matteo e, infine, proprio dal maestro Nicolò de Pettineo ( m[agiste].r Nicolaus de Pictineo), forse in qualità di artista esperto, oppure perché avrebbe dovuto decorare l’opera marmorea, secondo l’uso del tempo (cfr. G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, Tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo MDCCCLXXXIII, vol. II, doc. XXXVII, pp. 47-48, in particolare, p. 48).
Il secondo è un atto d’incarico, sempre dai rogiti di notar Filippo Giacomo d’Ugo, datato 18 Giugno I indizione 1513, nel quale il maestro Nicolò Pettineo (m[agiste].r Nicolaus de Pictineo) qualificato con il titolo distintivo di honorabilis, cittadino della città di Termini (civis civitatis Thermarum), si obbligò con i fratelli Vincenzo e Matteo Lu Monaco della terra di Vicari (oggi omonimo comune in provincia di Palermo), tutti presenti alla stipula, a svolgere lavori di indoratura e pittura relativi ad una certa croce lignea, già intagliata dal maestro Giacomo de Leo, anch’egli termitano, da destinarsi per la maggior chiesa vicarese (dove già era stata trasportata). Il rogito ci informa che doveva essere espressamente presa a modello la croce bifrontale sagomata, con i capicroce gigliati e la cornice a cespi di cardo inanellati, dipinta nel 1484 dal pittore palermitano Pietro Ruzzolone, già allora posta su una trave dipinta nella parrocchiale chiesa termitana di S. Maria La Nova, ed il cui rogito d’incarico del 26 Aprile II indizione, in notar Antonio De Michele, fu edito proprio da Ignazio De Michele (Cfr. I. De Michele, Sopra un’antica Croce nel Duomo di Termini-Imerese, F. Lao, Palermo 1859; ivi ci informa che nella ricerca ebbe come indispensabile guida il regesto manoscritto, redatto da Stefano Mira e Marino, marchese di S. Giacinto, contenente i «sunti dei pubblici contratti antichi»; si veda pure, per l’opera, M. C. Di Natale, Le Croci dipinte in Sicilia. L’area occidentale dal XIV al XVI secolo, Flaccovio editore, Palermo 1992, pp. 137-138). Il pittore e decoratore si obbligava ad indorare opportunamente, in special modo gli ornamenti floreali ad intaglio, presenti su entrambe le facce, e dipingere, magistralmente (maistrivilimenti), con colori fini, rispettivamente, sul recto la crocifissione di Cristo e sul verso la sua resurrezione. La somma pattuita, da pagarsi in solidum dai due committenti, i fratelli Lu Monaco, fu concordata di onze 19, da versarsi in tre soluzioni, due rate di onze 6 ed il saldo ad opera finita, alla quale andava aggiunto il vitto e l’alloggio a Vicari, tutto spesato, per il pittore ed altri (quindi vi erano dei garzoni di bottega), completando tutto il lavoro entro il Natale venturo. Furono presenti alla stipula Nicolaus Chifintino, Antoninus Corso ed Antonius Salamuni. Di tale croce, secondo Di Marzo, «né si ha più memoria oggigiorno» (cfr. G. Di Marzo, I Gagini…cit., I, p. 676; II, doc. CCLXXXVI, p. 383).
E doveroso ricordare che alla fine del vol. II della sua opera sui Gagini, il Di Marzo inserì un indice degli artisti mentovati nell’opera, dove il nostro è citato come «Pettineo (Niccolò), termitano, pittore» (cfr. G. Di Marzo, I Gagini…cit., II, p. 494), accogliendo quindi la tesi dell’origine termitana, propugnata dal De Michele.
Un quadro più ampio, relativo al Pettineo fu tratteggiato dallo stesso monsignor Di Marzo nella sua opera dedicata alla pittura rinascimentale a Palermo (cfr. G. Di Marzo, La Pittura in Palermo nel Rinascimento. Storia e Documenti (con venti tavole), Reber, Palermo 1899, capo VI, Altri pittori siciliani e di fuori, pp. 259-262)
In questa sua successiva pubblicazione, Gioacchino Di Marzo, oltre a ritenere in maniera riduttiva, il nostro artista «Mediocre sempre, ma alquanto migliore di costoro» (alludendo ai Graffeo), nonostante tutti i rogiti designino il pittore magister Nicolaus de Pictineo, habitator civitatis Thermarum, respinse decisamente l’origine termitana (già da lui accolta in precedenza), senza peraltro fornire alcuna spiegazione e non comprovando il suo assunto con qualche ulteriore dato documentario, designandolo «Niccolò da Pettinèo, così certamente [sic!] appellato dalla sua patria e non già termitano, come alcun volle» (alludendo al De Michele). E’ paradossale che, sinora, questa interpretazione del Di Marzo, alquanto soggettiva, sia stata seguita dalla critica e dalla storiografia ufficiale, in maniera così acritica e pedissequa, probabilmente sulla scorta di un’esagerata autorità indiscussa attribuita dai suoi posteri al grande studioso. Lo storico dell’arte, Francesco Abbate, recentemente, ha addirittura sostenuto l’origine palermitana dell’artista, citando perfino il Di Marzo che invece si è guardato bene di fare una simile affermazione (cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Cinquecento, Donzelli, Roma 2001, pp. 31-32). Il Di Marzo, infatti, ci informa che negli atti di notar Giovanni Catania, anno 1501-2 ind. V, nel volume di numero 1919 dell’Archivio dei notari defunti, sezione dell’Archivio di Stato in Palermo, egli rintracciò una «prima notizia […] in Palermo in un atto dei 7 d’aprile del 1502, onde magister Nicolaus de Pictineo, habitator civitatis Thermarum, si obbliga a Fabio Laporta ed a maestro Antonio di Monteleone, l’uno rettore e l’altro procuratore della cappella di S. Giacomo di Lariazza in Corleone, a dipingervi a tempera d’oglio in un gonfalone da un lato la Trasfigurazione di Cristo e dall’altro lato San Giacomo, sedente in abiti ponteficali fra due angeli, pel prezzo di onze due e tari diciotto […]. Ed in un atto seguente sotto la stessa data, pur ivi, il medesimo dipintore si obbliga al detto Fabio Laporta ed a Gregorio di Semforino, confrati dell’anzidetta cappella, a dipinger per essa, pel prezzo di onze quattro […], un quadro su tela, alto dieci palmi (m 2. 58) e largo sette (m 1. 81), con la figura di San Giacomo, assiso ponteficalmente in mezzo con abiti di fine colore carmisino e con fregi e diadema e pastorale in oro; a destra S. Andrea, all’apostolica, con la sua gran croce e il diadema in oro, ed a manca S. Elena, vestita di broccato e parimente con aureo diadema. Havvi espressa condizione che i volti delle figure dovessero dipingersi a tempera d’olio. Ma né gonfalone né quadro trovai più in Corleone, e non v’ ha dubbio che furon distrutti. Dopo aver citato la stipula d’incarico per il perduto gonfalone nuovo di S. Maria della Misericordia di Termini Imerese, scoperta dal De Michele, riferisce di un’altra commissione agli atti del locale notaio d’Ugo, di dipingere «a 26 d’aprile del 1506 […], per la chiesa di San Giacomo [che quindi aveva già perso la prerogativa di chiesa madre] una tela del titolare sedente con due angeli e con quattro storie in ciascun dei due lati, pel prezzo di onze quattro […]: ma di essa tela sul luogo non si ha più oggi notizia». Riguardo al ciclo delle «storie del vecchio e del nuovo Testamento» nella «chiesuola di S. Maria della Misericordia» che documenta l’attività di frescante del Pettineo, secondo il contratto di affidamento del «9 di settembre del 1514, pel prezzo di onze trentadue», ricorda i brandelli staccati dal De Michele nei quali uno «rappresenta Cristo legato e scortato dai soldati giudei, uno dei quali è in atto di menargli un pugno sul collo; e vi ha sentita espressione ed alquanto gusto di colore, ma il disegno vi è duro e tagliente. Meglio dipinta è la sola parte superiore, che resta d’un Cristo in croce, con vestigio della figura del mal ladrone, ed inoltre una testa, che sembra del Buon Pastore. Da questi avanzi di suoi freschi risulta ch’ei fu pittore di merito ben secondario, suppergiù come i Graffeo, sui quali però sembra di avvantaggiarsi alcun poco per un certo maggiore sviluppo. Il che affermerei addirittura, se di lui potesse provarsi che abbia dipinto, siccome inclino a credere, un quadro di bella composizione, che vidi in Cefalù nella maggior sala della casa comunale, pervenutovi con altri quadri dell’eredità Cirincione, e che rappresenta in alto ed al naturale Cristo nella sua gloria col Battista ed una Santa moniale genuflessi dai lati in atto di preghiera, e dappiè gli Apostoli e molti Santi in piccole dimensioni. Ma nient’altro sul conto del medesimo fin qui si conosce di certo, se non che ad un suo figlio di nome Giovan Francesco, ma che non risulta essere stato pittore, a 26 di novembre del 1515, rappresentando egli il padre Niccolò assente, si costituivano in Termini debitori di onze due e tari quindici Niccolò e Filippo Scorsone pel prezzo di due salme e mezza di mosto» come risulta da un rogito di notar Michele de Marino, anno 1515-16 indizione IV, f. 364, del predetto archivio, «dal che meglio si rileva che in Termini egli ebbe suo stabil soggiorno e famiglia».
Presso la palermitana Galleria interdisciplinare Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, inaugurata il 23 giugno 1954 con la denominazione di Galleria Nazionale della Sicilia (cfr. G. Vigni, La Galleria Nazionale della Sicilia a Palermo, “Bollettino d’Arte”, s. IV, XL, 1954, pp. 185-190; T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. Sicilia occidentale (1484-1557), Electa, Napoli 1998, vol. I, p. 47; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale…cit., pp. 31-32), si conserva La Madonna con il Bambino e due angeli musici, l’opera più antica sinora nota del nostro artista, prima del restauro «completamente sfigurata da una ridipintura settecentesca» (cfr. G. Vigni, La Galleria…cit., p. 189) che mostra, per l’appunto, la Vergine con il Bambino, assisa su uno scanno modanato dall’aspetto marmoreo, con alle spalle due angeli musici. La tavola in questione, appare legata ai modi di Riccardo Quartararo, pittore di spicco della Palermo del secondo Quattrocento (Sciacca, 1443 – Palermo, 1506, cfr. M. Andaloro, Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, in “Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte”. Università di Roma. Anno Accademico 1974-75 e 1975-76, Roma 1976, pp. 81-124; P. Santucci, Su Riccardo Quartararo. Il percorso di un maestro mediterraneo nell’ambito della civiltà Aragonese, in “Dialoghi di Storia dell’Arte”, 2, 1996, maggio, pp. 32-57; T. Pugliatti, Riccardo Quartararo: una personalità da rivedere, in: A. Cadei, Arte d’Occidente. Temi e metodi. Studi in onore di Angiola Maria Romanini, vol. 1-3, 1999, pp. 1063-1070; A. Dentamaro, Quartararo, Riccardo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, volume 85, 2016, https://www.treccani.it/enciclopedia/riccardo-quartararo_%28Dizionario-Biografico%29/), alle cui opere poté ispirarsi il Pettineo, senza peraltro necessariamente esserne allievo. Un cartiglio posto in un angolo della tavola predetta, esibisce l’iscrizione: Nicolaus de Pettineo me pinxit an. 1498 (curiosamente, lo storico dell’arte Stefano Bottari, invece, riporta la data 1494, cfr. S. Bottari, Intorno a Nicolò da Pettineo in S. Bottari, Contributo allo studio delle arti figurative in Sicilia, “Archivio Storico Messinese”, nuova serie, volume I, parte prima, anni XXVIII-XXXV, Società Messinese di Storia Patria, Officine Grafiche Principiato, Messina 1935, p. 126 e segg., in particolare, p. 127).
Nel 1997, la storica dell’arte, Teresa Pugliatti, ha pubblicato un aggiornato e documentato contributo (al quale rimandiamo per ulteriori approfondimenti e per una rassegna delle opere attribuite), che inquadra la figura e l’attività del nostro artista nel novero della pittura siciliana fra Quattrocento e Cinquecento. In tale saggio, viene sottolineata la scoperta della firma autografa dell’artista nella tela del museo civico “Baldassare Romano” di Termini Imerese, generalmente interpretata come Deposizione di Cristo, già erroneamente attribuita a Giacomo Graffeo dal De Michele (cfr. T. Pugliatti, Nicolò da Pettineo pittore. Su una firma ignorata e su alcuni rapporti culturali nella pittura siciliana fra XV e XVI secolo, in G. Barbera, T. Pugliatti, C. Zappia, a cura di, Scritti in onore di Alessandro Marabottini, De Luca, Roma 1997, pp. 111-118; si veda anche T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…cit., p. 53). La firma, in realtà, fu scoperta da Angela Gueli Aguglia, allora direttrice della detta struttura museale.
Ignazio De Michele ci testimonia che tale olio su tela era conservato nella Chiesa Madre termitana, precisamente nella quarta cappella di sinistra (che, come è noto, sin dal Seicento, fu intitolata a S. Bartolomeo Apostolo), e l’opera, evidentemente, doveva essere posta in una parete laterale. Il dipinto, «alto p[almi]. 7, 4 e largo p[almi]. 6, 6 […], in tempi assai remoti fu pessimamente rattoppato, scemato nella parte inferiore, e modificato al di sopra della primitiva forma semicircolare, ora, mercé le cure del Consiglio Comunale, è stato ridotto a novella vita dall’abile artista Giuseppe Culotta» (nella foto).
Vale la pena di esaminare in dettaglio l’origine di questa erronea attribuzione. Il De Michele, consultando i rogiti di notar Filippo Giacomo d’Ugo di Termini, reperì l’atto di commissione, datato 18 marzo XIII indizione 1510, nel quale i confratelli della scomparsa chiesa di S. Gerardo (sul sito della chiesa di S. Croce al Monte), attraverso il loro procuratore, tal Vincenzo de Veso, dietro compenso di onze 6, incaricarono Giacomo Graffeo di dipingere una tela raffigurante himaginem unam Crucifixi domini nostri Iesu Cristi (cfr. I. De Michele, Sopra alcune pitture e sculture…cit., pp. 231-233, e doc. in nota n. 2 a p. 256). Il rogito specifica che il Graffeo si obbligava a dipingere convenientemente l’incarnato di detta himaginem crucifixi, ad applicare dorature (ad es. al diadema), raffigurare il titulus (con consueto acronimo I[esus] N[azzarenus] R[ex] I[udeorum], relativo alla regalità di Gesù di Nazareth, discendente da Davide), il pellicano (verosimilmente posto in alto, simbolo cristologico legato al sacrificio, cfr. Augustinus Hipponensis, Espositio Psalmus CI, 1, pp. 36-42; L. Charbonneau-Lassay, Le Bestiaire du Christ, Desclée de Brouwer, Paris 1940; ed. italiana, Il Bestiario del Cristo, Ed. Arkeios, Roma 1994, vol. II, pp. 123-137) ed il caput Adae (il teschio, verosimilmente posto in basso, alludente al toponimo Golgota, cfr. Marco, 15, 22, ed identificato con il cranio di Adamo, assurto a simbolo del peccato originale riscattato dal sacrificio di Cristo; inoltre, Jacopo da Varagine, 1228-1298, nella sua Legenda aurea sostiene addirittura che Gesù sarebbe stato crocifisso sul sito della sepoltura di Adamo, cfr. J. a Varagine, Legenda Aurea vulgo Historia Lombardica dicta, ed. Th. Graesse, Impensis Librariae Arnoldinae, Lipsiae 1850, p. 229), mentre la croce doveva essere semplice, con otto punte ai nodi. L’atto, inoltre, riferisce che se il procuratore ed i confratelli (in alternativa al supporto di tela?), avranno scelto di fare la detta croce quadra, dandola di legname, il Graffeo sia tenuto a dipingerla.
Nonostante fosse conscio delle evidenti difficoltà legate alle discrepanze tra il rogito di commissione al Graffeo e l’iconografia del dipinto della Chiesa Madre, il De Michele, attraverso varie osservazioni, alcune delle quali vere e proprie interpretazioni forzate del documento, tentò di avallare la sua traballante attribuzione: «Egli è in vero assai difficile poter con certezza asserire, che il quadro esistente nel Duomo sia quello stesso dipinto dal Graffeo pei confrati della chiesa di S. Gerardo, poichè ignorando altre opere certe del detto artista non può farsene confronto col quadro in discorso; né tampoco dalle vaghe parole dell’atto notarile, abbastanza oscuro, è facile inferirne l’autenticità: pure dalla caratteristica dell’epoca della menzionata dipintura sopra tela, di scuola siciliana; dalla figura semicircolare del quadro, sul quale bene si adattava la croce di rilievo in legno, che ad, arbitrio dei confrati poteasi consegnare al pittore per dipingerla (per la qualcosa nel quadro dovea essere semplicemente cennata la croce, ed il Cristo in conseguenza deposto dalla stessa); dai gruppi che circondano il Cristo deposto; e finalmente dai diademi dorati, che vi si osservano, non è inverisimile che possa esser quello il dipinto del Graffeo, e che dalla chiesa abbattuta fosse passato alla chiesa madre per conservarlo. In esso si vede il Cristo morto sulle ginocchia della madre Addolorata, che gli sorregge la testa colla mano destra; a fianco San Giovanni in ginocchio piangente, che con ambe le mani gli sostiene il braccio destro, mentre le gambe son mantenute dalla Maddalena; dietro a lei stan ritti Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, l’uno dei quali vestito di rosso con un berretto d’egual colore tiene un martello, e l’altro con un giubbone bruno e cappello a forma dei contadini calabresi [sic] mostra nella destra i tre chiodi; dietro la Maddalena sta Santa Sofia [sic] in piedi che ha nelle mani una tazza dorata piena d’unguento, e dietro la detta Santa sopra alcune rocce la croce col titolo».
L’opera in questione (secondo la scheda della soprintendenza per i beni artistici e storici, misurerebbe m 1,75 per m 1,55), a nostro avviso, è da interpretare piuttosto come Compianto sul Cristo morto, caratterizzata da una rappresentazione dai toni drammatici e dolenti, nonché da una forte empatia emozionale che accomuna ed unisce i protagonisti, dai lineamenti segnati dal pathos, in un terribile stato di angoscia, commozione e dolore al cospetto della caducità della vita, che però sarà riscattata dal Salvatore che, risorgendo, trionferà sulla morte e sul peccato. Il tema del lamento funebre intorno al corpo del Cristo morto viene sviluppato con un linguaggio di pacata compostezza e con un intento fortemente devozionale, al fine di suscitare nei fedeli tutta una gamma di sentimenti (di pietà, di adorazione, di meditazione, di contemplazione etc.) nei riguardi del Redentore, e del suo atto salvifico d’amore incondizionato per l’intero genere umano.
In primo piano, al centro della scena, appare la consueta iconografia del corpo di Gesù, che è stato già deposto dalla croce, coperto dal solo perizoma, esanime, piagato e scarnificato in ogni sua fibra. I segni eloquenti e strazianti delle ferocissime sevizie subite, indegne del genere umano, sono la ferita sul petto causati dalla lancia, gli arti superiori ed inferiori marcati dalle stimmate della crocifissione. Rispetto l’osservatore, il Cristo è rappresentato con il capo a sinistra e il corpo, rivolto a destra, coronato di spine, disteso in una posa rigida, da rigor mortis. Il corpo, a sinistra, è sorretto dalla mesta figura della Madre sulle cui ginocchia giace parzialmente. La Madre, nella sua gestualità, attrae a sé il Figlio, in un ultimo contatto fisico prima dell’inumazione. La Vergine, che rivolge mestamente e dolente il suo ultimo sguardo di materna tenerezza al Figlio adorato, mostra il volto incorniciato dal velo candido che copre il capo. S. Giovanni Evangelista, dal cui volto traspare il dolore per la perdita del Maestro, aiuta Maria nell’atto di sostenere il corpo inanimato del Figlio. A destra, S. Maria Maddalena è effigiata inginocchiata, a sostenere le gambe del Cristo. I lunghi capelli biondi riuniti in trecce, denotanti il suo stato di nubile, non sono nascosti da alcun velo. In piedi, con alle spalle la croce vuota, appare una figura femminile che il De Michele identificò con S. Sofia in base alla scritta presente nella aureola dove leggesi SOFA, ma ciò è anacronistico perché fu martirizzata nel 122 d. C., durante il pontificato del papa San Sisto I, mentre le prime notizie del culto della Santa e delle figlie risalgono al VI sec. d. C. A nostro avviso, invece, andrebbe letto S[. M. DI CLE]OFA. S. Maria di Cleofa, infatti, è effigiata ammantata di scuri veli, che fanno contrasto con il candore del soggólo (elemento tipico dell’abbigliamento muliebre, ampiamente diffuso in Europa dal Medioevo al Rinascimento, costituito da una striscia di tessuto leggero, teletta o velo, che circondava il viso fasciando la parte superiore del torace ed il collo, congiungendosi poi alla sommità del capo a nascondere totalmente i capelli e le tempie). Maria di Cleofa è raffigurata mentre reca gli unguenti secondo l’iconografia che ne esalta la funzione di “mirrofora”, portatrice di mirra (cfr. Acta Sanctorum, Aprilis, I, Venetia 1737, pp. 811-818; F. Spatafora, Maria di Cleofa, in “Bibliotheca Sanctorum”, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1967, vol. VIII, coll. 972-977; Pope, H. (1910), Mary of Cleophas. In The Catholic Encyclopedia. New York: Robert Appleton Company. http://www.newadvent.org/cathen/09748b.htm).
Ad un dipresso, le due figure maschili barbute del vecchio Nicodemo e del notabile Giuseppe d’Arimatea, le uniche senza aureola. Giuseppe d’Arimatea fu inserito nel culto dei Santi, al 17 marzo, nel Martyrologium Romanum, cum Notationibus Caesaris Baronii per l’appunto, curato ed edito dal cardinale Cesare Baronio che lo completò nel 1586).
In quinta scenica, un cielo uniformemente immerso in una luce irreale. Lo scorcio di paesaggio rupestre appare in maniera discontinua, per la presenza dei personaggi. Si osservano dei brani di costoni rupestri che trovano la loro migliore rappresentazione artistica, vero e proprio virtuosismo del Pettineo, conscio della padronanza assoluta delle tecniche della pittura, nell’estremo settore di sinistra del dipinto. Ivi domina una rupestre raffigurazione di un costone roccioso dall’aspetto stratiforme, marcato da ripide scarpate, talvolta a strapiombo, con la rigogliosa vegetazione, pervicacemente abbarbicata, talora pendule dai dirupi. Il cartiglio in basso, contenente la firma dell’autore, è molto malridotto per la presenza di lacune e/o abrasioni della pellicola del dipinto. Proponiamo la seguente ipotesi ricostruttiva di lettura e di integrazione delle lacune: ni[c]ola di pittin[eo].
La collocazione dell’opera, all’interno della Maggior Chiesa, ci induce a sospettare che fosse stata realizzata appositamente per decorare la precitata antica cappella del Gloriosissimo Corpo del Signore Nostro Gesù Cristo, allora ubicata grossomodo dove c’è quella intitolata al SS. Crocifisso, la sesta nella navata sinistra. Solo nel Seicento, infatti, fu realizzata l’attuale collocazione a tergo del coro, interamente rifatta nel Settecento ed ornata da altorilievi marmorei, realizzati dallo scultore palermitano Federico Siragusa, allievo di Ignazio Marabitti (1719-1797).
In sintesi, questo è quanto sinora era noto dai documenti e dall’autografia delle opere relativamente al nostro artista, attivo a Termini Imerese sin dagli inizi del Cinquecento. Questo quadro viene qui ampliato dai risultati delle capillari indagini archivistiche svolte dagli scriventi nel novero di oltre un decennio di ricerche documentarie.
Il primo dato archivistico scoperto, avalla quanto reperito dal De Michele e dal Di Marzo confermando che il pittore ebbe stabile dimora a Termini Imerese almeno dagli inizi del Cinquecento. Un rogito del 15 Novembre IX indizione 1505 (cfr. Anonimo, Libro II di Contratti e Scritture della Cappella del SS. Sacramento della Maggior chiesa di Termini Imerese, ms., sec. XV-XVII, Archivio storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, f. 8), infatti, ci informa finalmente sulla collocazione topografica della casa dove dimorava il maestro Nicolò Pettineo (magistri nicolaj de pittineo) che ricadeva in un settore extraurbano periferico: nel borgo della città di Termini, nella contrada di S. Lucia (in burgo civitatis in contrata sancte lucie), allora ancora poco abitata e ricca di spazi vuoti (terre vacue).
In quel torno di tempo, il Pettineo è indicato come cittadino di Termini. A titolo di esempio, ci piace menzionare due atti inediti, stilati presso notar Riccardo Pesce di Termini (cfr. ASPT, vol. 12864, 1505-6, registro, s. n.), rispettivamente, stipulati il 31 Ottobre IX indizione 1505 ed il 15 Maggio IX indizione 1506, con m[ast]ro jac[ob]o di leo (per lavori di indoratura) e con un certo p[etr]o de napuli, nei quali il pictor Pettineo è indicato come h[onorabi]lis m[agiste]r nic[ola]o de pittineo oppure pictineo e qualificato civis th[er]marum.
Ulteriori nostre ricerche, hanno permesso di reperire per la prima volta, un piccolo, ma significativo, corpus di documenti d’archivio, sinora totalmente inediti, costituiti da atti di battesimo, contenuti nel più antico registro (redatto in continuità dal primo Maggio XV indizione 1542 al 30 Aprile VI indizione 1548) dell’AME. Tale gruppo di dati, ordinato cronologicamente, tra il 1542 ed il 1547, con la trascrizione integrale, le abbreviazioni sciolte, è qui riportato, per la prima volta, in appendice. E’ quindi attestato, inconfutabilmente, che per tutta la prima metà del Cinquecento furono stabilmente presenti in Termini Imerese almeno due esponenti, con famiglie proprie, di una casata di una certa distinzione sociale, dal cognome Pettineo/Pittineo (varianti rintracciate: negli atti di battesimo, Pictineo, Pittjneo/Pjttjneo/Pittjneu, Dipitineo/dj Pittjneo, negli indici del registro, Pittineo/Pettineo): Gianfrancesco ed il Magnifico Michele, il primo dei quali non esitiamo ad identificare con il figlio del pittore, già citato dal Di Marzo.
Il figlio dell’artista, Gianfrancesco, infatti, risulta menzionato in due atti relativi al battesimo delle figlie Margherita e Girolama. La prima, fu battezzata dal sac. Valente La Quaraisima, il 18 Ottobre II indizione 1544, avendo come padrini due personaggi di casate del locale patriziato urbano, il Magnifico Francesco La Mantia ed il Signor Antonino de Gravina, mentre la madrina, una certa Antonia La Provenza, poiché appare frequentemente citata in tale veste, dovette essere una delle perpetue (cfr. Documento n. 3). La seconda figlia, ricevette il sacramento battesimale dal sac. Stefano Spataro, il 27 Marzo V indizione 1547, alla presenza dei padrini, Martino Moretta ed il Magnifico Giansimone Bertone, e della madrina Domenica La Grigola, un’altra delle perpetue (cfr. Documento n. 8). Da notare che Giansimone Bertone svolse a Termini Imerese la professione di notaio ed appartenne ad una casata mercantile di origine ligure.
Più corposo è il gruppo degli atti di battesimo che citano Michele Pettineo, spesso qualificato con il titolo distintivo nobiliare di Magnifico.
Il 3 Maggio XV indizione 1542 i Magnifici Michele Pettineo e Vincenzo Mascellino, nonché Domenica La Grigola, furono presenti al battesimo, officiato dal sac. Gaspare Crescione, di Calogero figlio di mastro Silvestro d’India (cfr. Documento n. 1). Il Pettineo, il 19 Ottobre II indizione 1543 fu ancora presente, insieme a Francesco Di Dio e Filippa L’Angelica al battesimo, officiato dal sac. Pietro di Ferro, di Caterina figlia di Giovanni Scidia (cfr. Documento n. 2). Il 17 Marzo III indizione 1545, il detto Pettineo, Giacomo Bonafede e Filippa L’Angelica furono ancora testimoni al battesimo, officiato dal sac. Spataro, di Gianfrancesco figlio di Cipriano di Giovanni (cfr. Documento n. 4).
Il 2 Maggio III indizione 1545, il sac. Spataro battezzò Francesco, figlio di Michele Pettineo, alla presenza del Signor Luciano La Gula (che da altre fonti sappiamo svolgere la professione di medico) e di tal fra Antonio La Mantia (cfr. Documento n. 5).
Curiosamente, alla data 28 Giugno III indizione 1545, esiste un altro atto di battesimo che però risulta depennato, relativo a Francesco, figlio di Michele Pettineo, essendo il sacramento impartito dal detto sac. Spataro, alla presenza di Pietro Marchese, del Magnifico Luciano La Gula e di Filippa L’Angelica (cfr. Documento n. 6). Il 18 Dicembre V indizione 1546, il sac. Silvestre de Gippetto battezzò Pietruccio (pitruzo) figlio del Magnifico Michele Pettineo, essendo presenti il Signor Pompeo di Vita, il Magnifico Gianguglielmo Marchese e Domenica La Grigola (cfr. Documento n. 7).
Infine, un ulteriore documento, proveniente da altra fonte, ci informa dell’ubicazione dell’abitazione del nobile Michele Pettineo. Il 3 Dicembre IX indizione 1550, infatti, i Nobili coniugi Vincenzo e Margherita Mascellino (de Maxillino), dichiararono di possedere una casa raddoppiata da solaio (solerata), consistente in una stanza, sita nel borgo intra moenia di questa città di Termini, nel quartiere di S. Giacomo, confinante con l’abitazione del Nobile Michele Pettineo (cfr. Anonimo, Atti e Scritture del Convento di S. Francesco d’Assisi della città di Termini, ms. sec. XV-XVII, Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, ai segni Atti 286, f. 390). Da notare che il detto Nobile Vincenzo Mascellino è lo stesso che, con il titolo di Magnifico, assieme a Michele Pettineo fu padrino di battesimo del precitato Calogero figlio di mastro Silvestro d’India (cfr. Documento n. 1).
La presenza del cognome Pettineo nel Termitano è altresì attestata, sin dagli inizi del Trecento, nel borgo di Brucato che allora esisteva nel sito attuale, naturalmente fortificato, di Monte Castellaccio, alle pendici orientali del S. Calogero, prospiciente sul tratto terminale del Torto. Dopo alterne vicende, il borgo medievale di Brucato fu abbandonato dagli abitanti verso la fine del secolo predetto. Illuminante è un documento del Tabulario della Magione (n. 479) che si conserva presso l’Archivio di Stato di Palermo, pubblicato dallo storico francese Henri Bresc. In esso risulta che il 19 Settembre VI indizione 1307, a Brucato fu stipulata la donazione da parte del sac. Benedictus de Johanne Riccia, abitante del casale, al sac. Rogerius de Berrola di Polizzi, di una casa in Capitania Sancte Marie Maioris (vicino la chiesa madre) e di una vigna in contrata Fontis Muse, a Polizzi, luogo d’origine del donatario. Tra i 14 abitanti di Brucato, citati come testimoni, troviamo un Raniero (Ego Raynerius de Pictineo) ed addirittura un omonimo del pittore, Nicolò Pettineo (Ego Nicolaus de Pictineo), «qui portent un toponyme d’origine» (cfr. H. Bresc, Les sources historiques, in J.-M. Pesez (dir.), Brucato. Histoire et archéologie d’un habitat médiéval en Sicile, Collections de l’École française de Rome, 78, École Française de Rome, Palais Farnese, Scuola Tipografica S. Pio X, Rome 1984, Deuxième Partie, Analyse des données, chapitre I, pp. 37-84, in particolare doc. N°. 20, pp. 73-75). Naturalmente, questo dato documentario è di per sé insufficiente per permettere di stabilire una connessione genealogica tra i Pettineo del Trecento e quelli del Quattrocento, ma può costituire un importante indizio della presenza duratura di una casata, così cognominata, nell’ambito termitano.
Concludendo, i risultati delle indagini archivistiche svolte dagli scriventi, hanno confermato che a Termini Imerese ebbe stabile dimora una famiglia, il cui cognome era Pettineo, alla quale appartenne il pittore Nicolò. Pertanto, manca qualsiasi dato probante che il «de Pectineo» dei documenti indichi un’eventuale provenienza geografica dell’artista dall’omonimo centro abitato del Messinese, come sostenuto dal Di Marzo senza alcun dato probante; al contrario, siamo in presenza di un antico patronimico, etimologicamente derivato dal toponimo. Del resto, tutte le fonti sinora note indicano il pittore come habitator oppure come cittadino di Termini Imerese. Egli appartenne al variegato ceto degli Honorabiles, mentre un esponente del casato termitano dei Pettineo, Michele, nel Cinquecento appartenne alla locale nobiltà civica, il ceto dirigente della Splendidissima, che pomposamente si fregiava dell’altisonante titolo di Magnifico.
Patrizia Bova e Antonio Contino
Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra riconoscenza, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, al direttore ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Il nostro ringraziamento particolare rivolgiamo a don Francesco Anfuso ed a don Antonio Todaro per averci permesso in questi anni di effettuare delle preziose ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese. Ringraziamo altresì l’amico Fabio Lo Bono per le immagini del Compianto su Cristo Morto del Pettineo e la relativa scheda della soprintendenza per i beni artistici e storici.
Appendice documentaria
Documento n. 1
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, 1542-48, ms. AME, f. 1v n. 2, ad indicem: Caloiaro d’India]
die iij [Madii XV Indictionis 1542] p[re]sti caspano crixunj b[attiau] lu f[igliu] / di m[astr]o Silvestrj di India n[omine] calo/yaro lj co[m]pari m[agni]f[ico] michelj pictineo et m[agni]f[ico] viche[n]so ma/xillino la com[m]arj minica / lagrigola
Documento n. 2
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 33r n. 7, ad indicem: Caterina Sedia]
Eode[m] [19 Octobris II Indictionis 1543] p[resti] pet[r]o di ferro b[attiau] la f[iglia] di joha[n]nj / xidja n[omin]e catarjna lj comparj mich/elj pittjneu et fra[n]chjsco / rjdeu [di Dio] et [philippa] la/ngeljca
Documento n. 3
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 42r n. 5, ad indicem: Margarita Pittineo]
Eode[m] [18 Octobris III Indictionis 1544] p[resti] valentj la quatragesima / b[attiau] la f[iglia] di Joanfr[an]c[esc]o dipitineo / no[mine]: margarita lj com[pari]: m[agni]f[ico] fr[an]c[esc]o la mantia et lu s[ignor] ant[oni]no / de gravina la com[mari]: antona la / pruvensa
Documento n. 4
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 57v n. 5, ad indicem: Gio[van]: Franc[esc]o di Giovanne]
dje 17 [Martii III Indictionis 1545] b[attiau] p[re]stj stefano [spataro] lu f[igliu] / dj chjprjano dj juha[n]ni n[omine] joha[n]/fra[n]chjsco ljco[mpari] jacupu bonafjdj / et mjch[a]elj pjttjneo la cu[mmarj] ut su/pra [Filippa L’Angelica]
Documento n. 5
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 60r f n. 6, ad indicem: Francesco Pettineo]
die 2 madij iije Jnd[ictioni]s 1545 / p[re]stj stefano spataro b[attiau] lo f[iglio] dj mjchelj pittjneo n[omine] fran[cesc]o / lj conpari [sic] lo s[igno]r luciano lagula / et fr[atj] ant[oni]o lamantia
Documento n. 6
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 63r n. 4]
[l’atto seguente è cassato] die 28 [Jungno iije Jnd[ictioni]s 1545] lu djtto [Stefano Spataro] b[attiau] lu f[igliu] dj m[agni]f[ico] / mjchelj pittjneo n[omine] franc[esc]o / lj co[m]pari jo[han]: petro marchjsj et m[agni]f[ico] / luciano lagula la co[m]marj ph[lipp]a la Jngelica [sic]
Documento n. 7
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 86v n. 3, ad indicem: Petro Pittineo]
Eode[m] dje [18 decembris Ve Jnd[ictioni]s 1546] lo djtto [silvestre] de gippetto b[attiau] / lu f[igliu] dj m[agni]f[icu] mjchelj pi/ttjneo n[omine] petruzu lj co[m]parj / lo s[igno]rj ponpeo [sic] dj vita et m[agni]f[ico] jo[han]: / gulglermo [sic] marchjsj la co[m]marj / [domenica] lagrigola
Documento n. 8
[Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, fondo anagrafico, Battesimi, vol. 1, f. 94v n. 7, ad indicem: Ger[olam]o [sic] Pittineo]
Eode[m] [27 marcij Ve Jnd[ictioni]s 1547] p[re]stj stefano spataro b[attiau] la f[iglia] / dj Joanfr[an]c[esc]o dj pittjneo no[min]e gi/lorma lj co[m]parj marttjno [sic] mo/retta et m[agni]f[ico] jo[han]: Simunj berttunj [sic] / la co[m]marj [domenica] la grigola
vale sempre la pena di scavare, la verità stupisce e ripaga della fatica….
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