Con Giuseppe Casarrubea in visita a Placido Rizzotto settantatre anni dopo il martirio del sindacalista socialista

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Il dominio mafioso del territorio attraverso i gabelloti non è soltanto materiale ma anche culturale, spiega mentre guarda dall’alto Corleone e l’immenso circondario di campi e boschi che la circonda.

Andando a onorare la memoria di Placido Rizzotto settantatre anni dopo il suo martirio, Giuseppe Casarrubea li indica uno per uno feudi e mafiosi dominanti: a Strasatto, Luciano Liggio; a Rubinia, Giovanni Pasqua; a Malvello, Giuseppe Roffino; a Murana, Antonino Streva; a Lupotto, Vincenzo Catanzaro; a Rao, Carmelo Pennino; a Ridocco, Antonino Governali; a Piano di Scala, Angelo Vintaloro; a Donna Giacoma, i fratelli Mancuso; a Patria, Biagio Leggio; a Galardo, Vincenzo Collura; a Giardinello, Vincenzo Maiuri. «I gabelloti che controllano i feudi» egli dice «sono detentori di un potere destinato all’arricchimento (analogo in qualche modo alla cultura della roba di verghiana memoria), ma che ha una spinta direttiva in una struttura culturale capace di determinare un sistema sociale».
Casarrubea è storico autorevole del movimento contadino e del socialismo in Sicilia; la sua ricerca storica sulla strage di Portella della Ginestra è un contributo fondamentale all’interpretazione storiografica di quell’evento, che segna nell’Italia repubblicana e della Guerra Fredda l’avvio dello stragismo come metodo utilizzato dal “Potere” per esercitare la propria forza al di fuori del nomos. Nato a Partinico il 4 marzo 1946, perde il padre il 22 giugno 1947: l’anno prima che fosse ucciso Placido Rizzotto. Diventa orfano per lo stesso movente per cui Carmelo Rizzotto perde il figlio, scomparso il 10 marzo 1948. È la banda di Salvatore Giuliano a eliminare il padre di Casarrubea durante un assalto alla Camera del Lavoro della sua città; è la banda di Luciano Liggio a bastonare assassinare occultare il figlio di Carmelo Rizzotto, che della Camera del Lavoro di Corleone era il Segretario generale.
Sindacalisti, padri, figli, contadini, feudi, mafiosi e banditi, crimini. Che stava accadendo in Sicilia? Chi meglio di Casarrubea, che ha percorso le fasi di sviluppo del suo farsi uomo con un fardello di storia traboccante di dolore del ricordo e di ricordo del dolore, può dare una risposta immunizzata dalla retorica delle ricorrenze formali, delle cerimonie autorizzate, degli articoli accademici, della storiografia troppo scientifica e troppo ufficiale? Distoglie lo sguardo dal paesaggio di masserie, coltivazioni e pascoli che nelle sue opere ha descritto soffermandosi sulla dialettica tra centro rurale e latifondo, e fa una considerazione: nel dopoguerra, egli dice, «si andavano annodando le fila di un percorso che vedeva consegnare la Sicilia al controllo della mafia, quasi per una occulta decisione di delega a personaggi e partiti politici, capaci di gestire il controllo sociale, di realizzare funzioni che lo Stato non poteva o non voleva assolvere. La vita, come la morte di Placido Rizzotto, ne sono una esemplare testimonianza».
L’azione e la soppressione del giovane socialista e sindacalista di Corleone acquisiscono adesso una rilevanza che oltrepassa i limiti della biografia storica e della dimensione geografica. Casarrubea ci accompagna oltre la storia del particulare. Ciò che più interessa non è tanto la dinamica del brutale delitto, le diverse versioni che furono date, gli esiti scandalosi di un ancor più scandaloso processo, i danni collaterali del fatto, la cronaca commovente del ritrovamento e del riconoscimento dei resti, le complicità nascoste e non provate tra taluni personaggi e interpreti della terribile persecuzione e morte di Placido Rizzotto. Importa semmai, chiarisce Casarrubea, «scoprire fenomeni, fatti e cause che superano la semplice azione del sindacalismo siciliano, o la stessa consapevolezza del suo protagonista, su ciò che stava maturando, o era già maturato, nelle sorti presenti e future dell’Italia».
Cosa giustifica allora la particolarità dell’intera vicenda? Casarrubea ripone matita e taccuino e sussurra: «se, a differenza di altri omicidi, quello perpetrato contro Rizzotto, seguì un iter particolare e travagliato, questo lo si deve alla natura del delitto in parola, e al fatto che, con tutta probabilità i clan mafiosi corleonesi, prima dell’eliminazione di un potente avversario, dovevano a loro modo fare giustizia delle sconfitte che pure andavano subendo in virtù delle leggi di riforma agraria in un’area dell’entroterra nella quale detenevano incontrastati il dominio assoluto».
Placido Rizzotto, però, ha in sé la storia della Sicilia del Secondo dopoguerra, incalzo io. Concorda e aggiunge appassionato: «lungo i cinquant’anni che separano Rizzotto da Bernardino Verro, anch’egli tragicamente ucciso dalla mafia corleonese (3 gennaio 1915: tra i denunziati troviamo un Angelo Gagliano, zio materno di Michele Navarra), corre un filo conduttore unico ai cui estremi riscontriamo: nel 1893/94 la repressione crispina del movimento, ad opera dell’esercito e dei tribunali di guerra, assunta direttamente dallo Stato, con notevole impiego di uomini e mezzi. Mafia, latifondisti e gabelloti se ne rimasero per lo più a guardare, e usarono lo Stato come braccio armato; dopo il ’43 all’azione repressiva statuale si sostituisce quella della mafia, mentre lo Stato assume una funzione di garante di questo controllo, quasi per un recondito atto di delega. I fatti che analizziamo riguardano, dunque, un nuovo capitolo della storia della mafia, quello nel quale si narrano le vicende di questa organizzazione criminale come funzioni proprie di un certo tipo di Stato lungo le grandi contraddizioni politiche e sociali del secondo dopoguerra».
Mi chiedo quale lezione trarre a questo punto per il presente dall’insegnamento di Casarrubea e mi rispondo che innanzitutto la mafia muta, nel mutare dei processi sociali economici e politici, non soltanto sotto il profilo del dominio materiale e culturale ma anche nelle sue relazioni con i “Poteri”; e poi che il cambio di ruolo nel gioco delle parti tra Stato e mafia rende evidente ma non legittima né giustifica le miserabili trattative periodicamente intercorse e che qualcuno storicamente oggi giustifica. Penso che ricordare Placido Rizzotto debba significare oggi soprattutto questo.
Giuseppe Casarrubea riprende matita e taccuino. Gli chiedo per quale motivo prenda appunti. Risponde che sta scrivendo un saggio su Placido Rizzotto e mi confida che sarà pubblicato sul numero 151 del 1994 della rivista «Segno». Buona lettura a tutti e tutte.
Michelangelo Ingrassia