Un evento inquietante che lega due date simboliche: la Giornata dell’Unità d’Italia e la Giornata della memoria e dell’impegno contro le mafie.
La storia delle relazioni pericolose tra lo Stato e la criminalità organizzata inizia alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, sulle ceneri del primo morto ammazzato dalla mafia dei feudi.
La sera del 3 marzo 1861, a Santa Margherita Belice, tre fucilate uccisero a pochi passi da casa Giuseppe Montalbano, 42 anni, fervente mazziniano e protagonista della rivoluzione palermitana del 1848. Montalbano, che partecipò pure all’impresa dei Mille combattendo nelle campagne di Salemi, dopo il decreto garibaldino del 2 giugno 1860 — relativo alla ripartizione delle terre demaniali ai contadini — rivendicò, a capo dei braccianti margheritesi, tre feudi spettanti al Comune ma usurpati dalla principessa Giovanna Filangieri con la complicità del ceto agrario e baronale locale già legato al governo borbonico.
Il delitto fu preceduto da una serie di minacce e avvertimenti a Montalbano e alla sua famiglia. A esso seguì una sommossa popolare di due giorni, culminata nell’assalto al Municipio di Santa Margherita Belice dove si erano rifugiati alcuni tra coloro che erano stati indicati da vari testimoni quali esecutori del criminale agguato.
È inquietante riflettere sul fatto che il delitto avvenne quattordici giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) e cinque mesi dopo il plebiscito unitario siciliano (21 ottobre 1860). Eppure, nonostante queste singolari coincidenze, la storia di quello che possiamo definire come il primo cadavere eccellente dell’Italia unita sembra dimenticata se non ignorata, tranne una meritoria citazione nel sito della «Fondazione Giovanni Falcone». Nella storiografia risorgimentale, infatti, sono poche le tracce che conducono alla vicenda: un articolo di Nicola Giordano nella rivista «Il Risorgimento in Sicilia» (Palermo, luglio-dicembre 1966) e un articolo di Giuseppe Quatriglio in «Cronache Parlamentari» (Palermo, agosto-settembre 1986) il cui titolo, «Con Garibaldi poi contro le cosche» è emblematico. C’è infine tutta una documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Palermo e la Società Siciliana di Storia Patria che il nipote della vittima, l’ex parlamentare comunista Giuseppe Montalbano, ha raccolto in tre importanti monografie: La sommossa contadina margheritese del marzo 1861 e il Risorgimento in Sicilia (Palermo 1982); Topi, Cavour, liberali nel Risorgimento in Sicilia (Palermo 1987); Cavour borbonico (Palermo 1989).
Attraverso le fonti d’archivio, Montalbano nipote ha sostenuto la tesi che «nel marzo 1861 e nei mesi successivi gli organi competenti — procuratore del Re presso il Tribunale di Sciacca, polizia e carabinieri dell’intero circondario — non svolgono alcuna attività per scoprire i colpevoli dell’assassinio di mio nonno». Si tratta di organi del potere esecutivo il cui capo, all’epoca del delitto e nei mesi successivi, è «Cavour, quale primo Presidente del primo Governo dello Stato italiano unitario».
Certo, l’immagine raffigurata da Montalbano di un Cavour complice, più o meno consapevole, di quella che Francesco Renda, nel primo volume della sua opera Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, ha definito «mafia dei feudi», può apparire suggestiva; va tuttavia ricordato che il delitto avvenne in un momento politico complicato per Cavour, che lo vide impegnato a evitare che i democratici e i repubblicani, attraverso l’impresa garibaldina, «sorpassino» i liberali. In tale contesto si può convenire con il Montalbano quando sostiene che Cavour, pur di assicurarsi i favori della casta latifondista già legata ai borbonici e timorosa delle eventuali rivendicazioni dei repubblicani, preferì chiudere gli occhi su un crimine che, tutto sommato, era maturato in una realtà estranea a quella piemontese. Forse in questo senso il quotidiano di Sinistra «Il Precursore» del 9 marzo 1861, nel commentare l’agguato, denunciava: «Ecco che ce ne viene dall’imprevidente garanzia che si è voluta accordare ai borbonici». Forse per questo, prima di morire, lo stesso Montalbano, in una lettera al colonnello garibaldino Giuseppe Oddo datata 23 febbraio 1861, scriveva che «il governo del Re cerca traversare le nostre aspirazioni […] bisogna convenire di essere traditi».
Qualche anno dopo, in una lettera all’amico Ubaldino Peruzzi datata 20 gennaio 1863, Michele Amari sosteneva che ormai «in Sicilia i reggitori, succedutisi troppo rapidamente e tutti della provincia subalpina, con le loro idee di governo antico e stabile, han fatto all’amore con i borbonici»; delineando così quella situazione che in seguito Tomasi di Lampedusa avrebbe tradotto nella nota frase: «cambiare tutto per non cambiare nulla».
L’inerzia e l’indifferenza del governo di Cavour, documentate da Montalbano junior nei suoi libri, impongono alcune riflessioni. Innanzitutto il connubio mafia-politica si è ambiguamente intersecato con la storia d’Italia fin dagli albori della sua Unità; anche quella colpevole mentalità d’indifferenza, da parte dei governi centrali verso la realtà siciliana, nasce con l’Italia unita; cosi come sin da allora matura quella sottovalutazione del problema mafioso nella classe dirigente nazionale.
È significativo rilevare, infine, che quei medesimi organi di governo inerti a proposito del delitto Montalbano, furono abbastanza solerti nel reprimere brutalmente la sommossa di Santa Margherita Belice, dove i braccianti avevano denunciato mandanti, movente ed esecutori del crimine mafioso ma furono perseguitati da quello stesso Stato per il quale avevano lottato nella speranza di conquistare la libertà dal latifondo, dalla prevaricazione e dal bisogno.
Michelangelo Ingrassia
i siciliani devono conoscere molto meglio la loro storia se vogliono cambiarla!!
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