Che cosa hanno in comune il movimento della luna, Dante, Goethe, la cassata, Friedrich Nietzsche e Richard Wagner? La Pasqua siciliana.
A indicare la domenica successiva al primo plenilunio di primavera la datazione della Santa Pasqua fu un vescovo siciliano: Pascasino da Lilibeo (oggi Marsala). Lo accenna Santi Correnti nella sua Breve storia della Sicilia. Nell’anno 451 il vescovo di Lilibeo, aggiunge Francesca La Grutta in uno studio sulla sede vescovile di Marsala, fu inviato da papa Leone Magno come suo legato al Concilio di Calcedonia, per risolvere la controversia sorta tra Latini e Alessandrini. La decisione di legare la ricorrenza pasquale con il movimento della luna fu presa dopo la dotta trattazione di Pascasino, che era pure astronomo e matematico.
Altri fatti storici connettono la Sicilia e la festa cristiana. Nella Settimana Santa del 1860 esplose a Palermo la rivolta della Gancia, che spenta in città avvampò invece in tutta l’Isola convincendo Garibaldi a imbarcarsi nell’impresa. Fu il giorno di Pasquetta del 1282 che esplose a Palermo la famosa rivolta del Vespro siciliano. Dante, nel Canto VIII del Paradiso, ricorda il motto popolare di «Mora, mora!» gridato quel 30 marzo dalle donne siciliane e che divenne il grido della ribellione.
Forse la potenza mitica del Vespro siciliano influiva non poco sul «modo così fragoroso di adorare Iddio» cui si riferiva Goethe negli appunti del suo viaggio in Sicilia. La domenica di Resurrezione dell’8 aprile 1787, infatti, il celebre letterato tedesco in visita a Palermo annota che «l’esplosione di gioia per la resurrezione del Signore si è fatta sentire fin dall’alba: i petardi, le racchette, le bombe, i serpentelli, sparati davanti alla porta delle chiese, si contavano a carra, mentre i devoti affluivano per i battenti spalancati. Fra il suono delle campane e degli organi, le salmodie delle processioni e i cori dei preti che le precedevano, ce n’era abbastanza per frastornare gli orecchi».
Meno di un secolo dopo, nel 1882, il giovane palermitano Enrico Onufrio avverte i turisti lettori della sua Guida Pratica di Palermo che potrebbero imbattersi nello «strepito infernale di fischietti, di corni di tamburelli e di trombette; è un vociare, un gridare, e uno schiamazzare incessante che fa uscire dai gangheri»; si tratta della dimenticata Fiera di Pasqua, che a quei tempi era allestita nella ormai scomparsa piazza Castello, situata nei pressi della Cala. Una Fiera annuale, prevalentemente di giocattoli, che poi si sposterà al Foro Italico e qui resisterà fino agli anni settanta del Novecento, come testimonia Rosario La Duca.
Non bisogna credere che la Pasqua antica era soltanto fiere e mortaretti. Dal Cacioppo, infatti, che scrive nel 1835, si apprende che dal mezzogiorno del giovedì Santo e sino a tutto il venerdì nessuno andava più in carrozza né a cavallo per la città e non si suonavano più campane in segno di rispetto per le celebrazioni e tutti seguivano le processioni: della confraternita dei cocchieri, per esempio, o della Madonna di Soledad alla quale intervenivano tutti i corpi della guarnigione militare.
Tra le cose vecchie della Pasqua siciliana, oltre agli episodi storici e alle consuetudini, c’è pure una gustosa narrazione gastronomica. La studiosa palermitana Maria Adele Di Leo scrive che la cucina pasquale siciliana è elaborata «con gli stessi usi che fanno parte della tradizione agropastorale, presente non solo nella storia della Sicilia, ma in quella dei popoli mediterranei». Anche a Pasqua, però, sono i dolci a dominare le tavole; insieme ai pani rituali, aggiunge la Di Leo, «preparati a base di farina, uova, zucchero, pasta reale e ricotta». Tipico del periodo pasquale è un dolce a forma di pecorella, fatto di pasta reale e imbottito di pistacchio e zucca candita. Nel siracusano e ragusano si gustano le “cassateddi”: un incontro di pastafrolla, crema di ricotta, cioccolato fondente, zucca candita, ciliegie candite e glassa al limone. Le ghiottonerie principali, tuttavia, sono due: il “pupu cull’ovu” e la “cassata”. Il primo, spiega Rosario La Duca, è «una specie di pupattolo fatto di farina e tutto imbottito di ova sode»; Enrico Onufrio aggiunge che «lo si regala ai fanciulli, i quali, con una crudeltà senza pari, si affrettano ad uccidere il pupattolo per mangiarne le ova». Nel trapanese i “pupi” sono sostituiti dai “cuddura”, che hanno la forma della ciambella. Il professor Antonino Tobia, in un suo squisitissimo libro intitolato La storia presa per la gola, spiega che le ciambelle sono farcite di fichi secchi e decorate al centro con un uovo sodo colorato di rosso. I “cuddura ccu l’ova” congiungono la Pasqua con la rivolta del Vespro. Tobia, infatti, scrive che a Trapani questi dolci, «quando ancora si esponevano nelle vetrine, si chiamavano “campanara”. La leggenda vuole che la forma “a corona” di tale focaccina sia stata determinata dall’omaggio che gli abitanti di Delia tributarono alle castellane durante i Vespri Siciliani». Il dolce pasquale siciliano per eccellenza, tuttavia, è la cassata. Tobia, citando Michele Pasqualino e il suo Vocabolario etimologico siciliano del Diciottesimo secolo, scrive che la parola “cassata” deriva probabilmente dal latino “caseus”, ossia cacio, per la presenza della ricotta. L’etimo “qas’ah”, che indica la scodella in cui il dolce veniva preparato e prendeva forma circolare, suggerisce invece un’origine araba; ne conclude che «potrebbe, tuttavia, trattarsi di un incrocio di latino medievale, casàta, casiàta, che fonde insieme il “pane con cacio” con la voce araba indicante la scodella». Oggi la cassata, sulla quale è incisa la storia delle varie dominazioni che si sono susseguite in Sicilia, dai Greci agli Spagnoli, e i colori risorgimentali della bandiera italiana, si presenta, spiega Tobia, «come una torta dolcissima a base di ricotta, decorata alla maniera barocca con cucuzzata (zucca candita) e altri frutti giulebbati che ne ornano la parte superiore formata di uno strato di glassa con ricami e arabeschi»; tutto è circondato da uno strato di pasta reale nel quale si mescolano pasta di mandorle e farina di pistacchio.
Chissà se Friedrich Nietzsche e Richard Wagner ebbero modo di gustare la cassata siciliana durante la loro permanenza in Sicilia, nei giorni della Pasqua del 1882. Il filosofo alloggiava a Messina, il musicista a Palermo; il primo aveva bisogno di un clima caldo per la sua salute, l’altro cercava di sconfiggere la depressione. A quel tempo l’amicizia tra i due si era già da tempo spezzata; non si sa se l’uno era al corrente della contemporanea presenza dell’altro e viceversa. Quel che è certo è che in quella Pasqua del 1882, seicento anni dopo la Pasquetta del Vespro, la Sicilia accolse e per breve tempo placò Nietzsche, che vergò i versi degli Idilli di Messina, e Wagner, che a Palermo terminò il suo Parsifal.
Michelangelo Ingrassia