La Via Giovannangelo Felice corre lungo il cuore di Montemaggiore Belsito, piccola cittadina dell’entroterra palermitano, fino a confluire nel Corso Re Galantuomo, intitolato al primo Re dell’Italia unita;
attorno ad essa si snodano altre vie dedicate alla memoria di figure storiche coeve di Vittorio Emanuele II: Via Silvio Pellico, Via Rosalino Pilo, Via Vincenzo Marchesano. Da qui, da questa strada, ha inizio il viaggio sentimentale di Santi Licata, giovane autore di queste pagine, lungo sentieri biografici che lo condurranno a riscoprire una presenza storica che meritava di essere finalmente restituita alla memoria collettiva.
Potrebbe sembrare inconsueto accostare il sentimento alla storia ma chi coltiva la passione della ricerca storica coltiva pure, inevitabilmente, emozioni e passioni, odi e amori, poiché la storia è innanzitutto il racconto di una vita: individuale o collettiva, quotidiana o epocale; e la vita è emozione, passione, odio, amore; per se stessi, per un’idea, per un’istituzione, per una terra, per una classe sociale, per altri uomini o donne. È facile, a questo punto, immaginare Santi Licata crescere in Montemaggiore Belsito percorrendo quella strada e chiedendo, ai più grandi, notizie sul personaggio cui essa è intestata. Logico e anche storico, dunque, che Licata traesse spunto anche da questa Via per raccontare brevemente e intensamente la storia del personaggio che gli ha conferito il nome: Giovannangelo Felice, appunto.
Il lettore scoprirà o riscoprirà la storia e la vita di questa personalità siciliana leggendo le pagine che seguono; qui si ricorderà soltanto che il Frate Giovannangelo Felice, al secolo Antonino Felice, fu, come Pellico, Pilo, Marchesano, il Re sabaudo, tra quegli uomini e donne che fecero l’Italia unita partecipando al Risorgimento e che perì durante una delle battaglie più accanite e decisive per il conseguimento dell’unità nazionale: quella del 4 aprile 1860 a Palermo, combattuta all’interno e all’intorno del convento della Gancia, tra soldati borbonici e rivoluzionari democratici.
Conviene qui ricordare che la rivolta palermitana della Gancia è un fatto storico troppo spesso dimenticato però d’importanza cruciale non solo nella lotta per l’unità nazionale ma anche nel conflitto politico tra democratici e liberali che contrassegnò il Risorgimento e dal cui esito vennero fuori l’Italia gattopardesca, del cambiamo tutto senza cambiare nulla, immortalata dalla letteratura siciliana di De Roberto e Tomasi di Lampedusa, e l’Italia dei delusi e del Risorgimento tradito, raccontata dalla prosa di Alfredo Oriani, dai versi di Giosuè Carducci, dal romanzo storico di Pirandello. Tanto alla rivolta della Gancia quanto al processo di unificazione nazionale, Licata ha dedicato altri importanti studi e opere: L’affaire Riso. «Mi chiamo Francesco Riso, del fu Giovanni…» (2018); e con il fratello Filippo: 150. L’Unità d’Italia vista attraverso la storia di un paese siciliano: Montemaggiore Belsito (2012).
Il saggio su Francesco Riso, protagonista della già menzionata rivolta della Gancia, aggiunge un interessante tassello al mosaico biografico del giovane rivoluzionario palermitano: la testimonianza del chirurgo di Montemaggiore Belsito, Vincenzo Marchesano. La monografia sull’unificazione nazionale espone una lettura particolare del momento genetico fondamentale della nascita della Nazione, rievocato seguendo le vicende di una comunità locale.
Entrambe le ricerche, oltre a condividere il tema storiografico del Risorgimento italiano, hanno un elemento metodologico in comune: intrecciano la storia della comunità nazionale con la storia della comunità locale.
Nel caso di Santi e Filippo Licata, i loro studi offrono la possibilità di vagliare e verificare se il Risorgimento e la costruzione dello Stato unitario furono imposti alle comunità locali o se, e con quale intensità, dalle comunità locali si andò incontro al Risorgimento e all’edificazione dello Stato unitario. Inserite in questo contesto, le pagine su Frate Giovannangelo Felice si connettono con quella che Paolo Mieli ha definito come una ferita del Risorgimento (Il Corriere della Sera, 8 marzo 2011), ossia la vicenda del complicato rapporto tra universo cattolico e mondo risorgimentale.
Il Frate di Montemaggiore diventa, così, simbolo di altre storie locali e globali: quelle dei frati e dei preti che appoggiarono e fecero la lotta per l’unità nazionale.
La sua biografia invita a rammentare che tra coloro che si batterono per l’unità nazionale vi fu anche un certo numero di esponenti della Chiesa, convinti che il Risorgimento non intendeva porre in dubbio la divinità e la sua gloria ma puntava al diritto di un popolo di darsi una nazione e al diritto delle persone di vivere una vita più dignitosa.
Michelangelo Ingrassia