Negli stessi anni in cui al Nord si combatteva la guerra partigiana, il Sud già liberato esprimeva un grande movimento di popolo proteso alla contestazione radicale della società borghese e animato dalla volontà di realizzare una totale rottura storica e politica con il passato fascista e prefascista.
Questo sentiero impervio della Resistenza è ancora oggi poco esplorato dalla storiografia. Certo, sono state riscoperte e inventariate come reperti della Liberazione le stragi nazifasciste perpetrate in Sicilia all’indomani dello sbarco angloamericano; le insurrezioni e le rappresaglie accadute dopo l’armistizio dell’8 settembre a Matera, Bari, Civitavecchia, Teramo, Bellona, Terra di Lavoro, Nola, Barletta, Teverola, Capua, Rionero in Vuture. È rimasto nell’ombra, invece, quello che Enzo Forcella definì, in un interessante saggio pubblicato nel lontano 1976, “un altro dopoguerra”, che evidenziava una guerra di Liberazione organizzata in Sicilia e nel Meridione e una combattuta nel Nord. Una dicotomia di tipo politico, più che militare. Una duplice rappresentazione che mostra al Nord le masse ancora in lotta contro i nazifascisti e al Sud le masse già alle prese con i Governi del Comitato di Liberazione Nazionale; cosicché le masse del Sud si ritrovavano già in quella realtà materiale per la quale stavano ancora combattendo le masse del Nord. Ciò che nel Settentrione doveva ancora realizzarsi, insomma, nel Meridione era già stato realizzato e aveva provocato una dura contestazione. Prendeva corpo nel Sud, infatti, quella che Marco Albertario ha indicato, in un pregevole saggio comparso sul numero 3/2015 di Micromega, un “processo di normalizzazione teso a quietare sul nascere le spinte innovatrici incubate nella Resistenza”. Tra il 1943 e il 1945, dunque, rotolando verso Sud la storia pone in risalto l’attività di gruppi e movimenti nati a Sinistra del Cln e che si prefiggevano di trasformare la Resistenza in rivoluzione sociale. Emblematico, in tal senso, il caso del Movimento Comunista d’Italia, meglio conosciuto col nome del suo giornale “Bandiera Rossa”, le cui vicende sono state ricostruite da Silverio Corvisieri nel volume “Bandiera Rossa nella Resistenza romana”. Si trattava di un movimento operante al di fuori del Cln, attivo a Roma e nel Lazio, la cui lotta partigiana, in polemica contro l’adesione del Pci al Cln, si sostanziava nella resistenza all’occupazione nazifascista e nell’affermazione secondo la quale la guerra di liberazione offriva alla classe operaia l’opportunità unica di impadronirsi del potere. Il gruppo di Bandiera Rossa, tra i cui dirigenti troviamo il sarto palermitano Gabriele Pappalardo, si estinse travolto dagli arresti e dalla soppressione del giornale attuati dagli angloamericani e dallo scontro con il Pci e con la linea politica togliattiana dell’unità nazionale.
Nel Meridione, con epicentro Napoli, si sviluppava intanto l’esperienza della Cgl rossa, raccontata da Francesco Giliani nel libro “Fedeli alla classe”. Organizzazione sindacale formata da militanti azionisti, socialisti e comunisti contrari alla politica di unità nazionale del Cln e a ogni strategia politica che non fosse “classe contro classe”; forte, nel suo tempo migliore, di 150 mila iscritti e 30 Camere del Lavoro, la Cgl rossa era operante in Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e a Napoli aveva persino costituito una federazione del Pci alternativa a quella togliattiana. Al suo interno fu politicamente attiva una frazione costituita da quadri provenienti dalla Sinistra bordighiana, dalla Sinistra socialista e dalla Sinistra azionista come Dino Gentili. Non riuscendo a reggere lo scontro frontale con il Pci e con la Cgil nel frattempo costituitasi con il Patto di Roma, la Cgl rossa votò il proprio scioglimento dopo che i suoi esponenti, scrive Giliani, furono “espulsi senza procedure democratiche e con accuse infamanti” dal Partito Comunista Italiano; Di Vittorio, contemporaneamente “affondò il colpo e rifiutò agli scissionisti la possibilità di entrare in Cgil come comitato della sinistra sindacale”.
A Sinistra del Cln operarono pure i Gruppi Libertari dell’Italia Liberata della Federazione Anarchica Italiana. Nel volume “Congressi e convegni della Federazione Anarchica Italiana. Atti e Documenti (1944-1995)”, curato da Giorgio Sacchetti, sono riportati gli atti concernenti un convegno indetto a Napoli nei giorni 10 e 11 settembre 1944 nel quale gli anarchici esclusero la possibilità di accordi permanenti con qualsiasi partito e associazione che non fossero esplicitamente anarchici e proposero per la ricostruzione del Paese la realizzazione di libere associazioni, di gestioni pubbliche, di gestioni collettive, tendendo alla rivoluzione sociale da cui doveva nascere il Libero Comune. Alla riunione parteciparono delegazioni del Lazio, della Puglia, della Lucania, dell’Umbria, della Toscana, della Calabria, della Sicilia; da Palermo giunse un telegramma nel quale si comunicava che i Gruppi siciliani avrebbero inviato la relazione del loro congresso, tenutosi in quei giorni nel capoluogo siciliano.
È in questo contesto che s’inserisce la vicenda della giovane siciliana Maria Occhipinti (nella foto), comunista, protagonista della ribellione antileva a Ragusa nel gennaio del 1945, catturata, confinata a Ustica, incarcerata, costretta all’esilio in patria dopo il 25 aprile, accusata dai partiti del Cln, insieme ai militanti che con lei sostennero la rivolta, di rigurgito fascista. Commenta Enzo Forcella nel suo già citato saggio, che introduce le memorie della Occhipinti in quel bel volume intitolato “Una donna di Ragusa”, che tale accusa mossa dalle forze del Cln fu una mistificazione propagandistica: “questa gente poteva essere accusata di deviazionismo di Sinistra ma non di essere rigurgiti fascisti […] La componente di Sinistra, presente nella ribellione ai richiami, rifletteva effettivamente lo sconcerto, le resistenze e le lacerazioni che la svolta di Salerno aveva provocato in alcuni settori delle masse popolari meridionali”.
In un convegno svoltosi presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Catania il 14 e 15 marzo 1975 sul tema “Nord e Sud nella storia d’Italia, 1943-1945”, lo storico Rosario Villari, intervenendo sul problema della continuità strutturale o del mutamento di regime da ricercare alla base delle nuove forme istituzionali e politiche sorte dopo la Liberazione, affermò che la classe dirigente italiana che al Nord come al Sud aveva gestito queste forme nuove, le aveva orientate verso esiti di conservazione politica e di restaurazione neo-capitalistica; la lotta del 1943-45 non travolse, insieme con il fascismo, le forze che al fascismo erano servite da supporto. Dieci anni prima, nel 1966, Norberto Bobbio intitolava “Resistenza incompiuta” un suo importante saggio nel quale erano condensate le frustrazioni di una generazione. Da quelle frustrazioni e dalle forze che gravitarono a Sinistra del Comitato di Liberazione Nazionale venne la storia della Sinistra extraparlamentare nell’Italia repubblicana. Storie da riscoprire oggi più che mai come vivaio di idee e programmi alternativi all’esistente.
Michelangelo Ingrassia