Mercanti genovesi a Termini Imerese nel Seicento: la transazione tra Ippolito Malaspina e Pietro Maggiolo per la fregata “Santa Maria di Porto Salvo e San Giuseppe”

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Nel 2017, durante le nostre ricerche archivistiche, tra le polverose e spesso sbiadite, minute certacee del notaio Girolamo di Martino di Termini Imerese,

conservate presso la locale sezione dell’Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASPT), abbiamo scoperto un inedito rogito, stipulato il giorno 4 ottobre Va Indizione 1621, per la vendita della metà di una fregata chiamata Santa Maria di Porto Salvo e San Giuseppe, della stazza (portatus) di 130 salme. Ci apparve subito evidente l’importanza del rinvenimento archivistico. Il venditore, infatti, era un certo Ippolito Malaspina, abitante di questa Splendidissima città di Termini (habitator huius Splendidissimae Civitatis thermarum), qualificato come mercante ligure (mercator januensis) che, procedeva alla transazione avendo l’assenso del suo socio tal Nicolò Bozolo (Bozzolo), mentre l’acquirente era tal Pietro Magiolo (Maggiolo o Magliolo), già possessore dell’altra metà del naviglio, assente alla stipula del contratto, essendo rappresentato da un suo procuratore, un certo Bernardo La Molina. La somma pattuita era di onze 209 e grana 14, con la specifica di essere ponderis generalis (cioè di peso conforme a quello della moneta corrente, quindi di lega pregiata, per evitare di vedersi rifilata della pecunia contraffatta). L’importo concordato per la vendita è veramente molto elevato, visto che un bracciante agricolo, in un anno di durissimo lavoro, bene che andava, arrivava a percepire 3 onze e 10 tarì (cfr. M. La Barbera, Il costume in Sicilia nella seconda metà del Cinquecento, in “Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia”, n. 1, Palermo University Press, Palermo 2010, pp. 152-179, nello specifico, p. 163).
Tale operazione finanziaria permetteva al Magiolo di acquisire la proprietà dell’intera imbarcazione. Quest’ultima era affidata ad un armatore (patronus) locale, Andrea Sasso, che ne deteneva l’esercizio, probabilmente in qualità di locatario, ma ciò non è esplicitato nel rogito.
Allo stato attuale delle ricerche, non ci è dato sapere se il mercante ligure Ippolito Malaspina, abitante a Termini Imerese nel 1621, abbia avuto qualche legame con l’illustre e cospicua casata di cui portava il medesimo cognome.
I Malaspina traevano origine dagli Obertenghi, casata feudale derivata da Oberto, signore della Marca di Liguria Orientale nel X sec., dal quale discendevano anche diverse altre cospicue famiglie italiane: Pallavicino/Pallavicini (in origine Pelavicino, per la famadi taglieggiatori dei malcapitati viandanti), Este,  Massa, Gavi,  Calvacabò e Parodi (cfr. L. A. Muratori, Delle antichità estensi ed italiane, Stamperia ducale, Modena 1717-1740, 2 voll., impressio anastatica, Forni, Sala Bolognese 1984, 1223 pp.; M. Nobili, Formarsi e definirsi dei nomi di famiglia nelle stirpi marchionali dell’Italia centro-settentrionale: il caso degli Obertenghi, in C. Violante, a cura di, “Nobiltà e chiese nel Medioevo e altri saggi. Scritti in onore di G. Tellenbach”, Roma 1993, pp. 77-95).Un discendente di Oberto, Alberto II fu soprannominato Malaspina, d’onde lo stemma “parlante”, cioè alludente al significato del cognome (Spaccato d’argento e di rosso, ad una spina d’oro attraversante sul tutto, cfr. G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, 1886-90, vol. II, p. 53). Verso la fine del XII secolo, i Malaspina si divisero in due grandi linee familiari e patrimoniali denominate, rispettivamente, dello spino fiorito e dello spino secco, emblemi chefurono inseriti nei rispettivi stemmi (lo spino di verde per quello fiorito, al giglio d’argento, di nero per quello secco).
Nel 1132 e nel 1145 furono stipulati due accordi fra Genova ed i Malaspina. Quest’ultimi si obbligarono ad avere abitazione nella città ligure, fornendo aiuto militare e garantendo la sicurezza nei territori di loro appartenenza, mantenendo la loro giurisdizione sui vassalli (cfr. R. Pavoni, Genova e i Malaspina nei Secoli XII e XIII, in «La Storia dei Genovesi», “Atti del VII convegno di studi sui ceti dirigenti nelle istituzioni della Repubblica di Genova”, Genova: 15-17 aprile 1986, Genova 1987, pp. 281-316).
I Malaspina, nel tempo si andavano diversificando in parecchie diramazioni, tanto da annoverare anche diversi personaggi illustri d’incerta appartenenza rispetto alle genealogie note (cfr. P. Litta, Famiglie celebri italiane. Malaspina, 75, Ferrario, Milano 1852, dispense: 133, 135-136, 28 pp.; A. Lercari, Repubblica di Genova e feudalità lunigianese tra il XVI e XVII secolo: i Malaspina di Mulazzo, Madrignano, Suvero e Fosdinovo, in D. Calcagno, a cura di, Atti del Convegno “La montagna tosco-ligure-emiliana e le vie di commercio e pellegrinaggio. Borgo Val di Taro e i Fieschi”, Borgo Val di Taro, 6 giugno 1998, Borgo Val di Taro, 2002, pp. 481-544). Del resto, lo studioso piacentino Giorgio Fiori (1939-2017), rammenta che tra i Malaspina «moltissimi rami di essa erano talmente decaduti che solo il loro cognome rammentava le glorie passate» (cfr. G. Fiori, I Malaspina: castelli e feudi nell’Oltrepò piacentino, pavese, tortonese, Tip. Le. Co. srl, Piacenza 1995, VI+418 pp., in particolare, p. 13)
Giovanni Andrea Musso nel suo stemmario manoscritto delle famiglie nobili liguri, comprendente ben 2569 insegne araldiche, riporta anche quella, con l’onnipresente spino, dei Malaspina genovesi,  che erano ascritti all’albergo dei Doria (cfr. G. A. Musso, La università delle insegne ligustiche delineate da Gio. Andrea Musso, Genova, ms. cartaceo del 1680, Biblioteca Civica Berio di Genova, ai segni m.r.C.f.2.22; sull’opera si veda: A. Lercari, La università delle insegne ligustiche di Giovanni Andrea Musso e l’araldica nell’antica repubblica di Genova, in “La Berio”, rivista semestrale di storia locale e di informazioni bibliografiche, anno XLV, luglio-dicembre 2005, Comune di Genova, Genova 2005, pp. 65-96, nello specifico, p. 89). Ricordiamo che a Genova, l’albergo era un’aggregazione di più famiglie, consorziate in un unico clan, attorno ad una casata dominante, a costituire un ente di natura privata, però riconosciuto dalla legislazione genovese. Nella riforma del 1528, fortemente voluta da Andrea Doria, si stabiliva l’istituzione di 28 famiglie-albergo (cfr. E. Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, “Mélanges de l’École Française de Rome”, LXXXVII/I, 1975, pp. 241-302).
Nella branca dei Malaspina dello spino fiorito, in questo torno di tempo, è attestato un Ippolito, celebrato come illustre conduttore di navigli (cfr. E. Gerini, Memorie storiche d’illustri scrittori e di uomini insigni dell’antica e moderna Lunigiana per l’abate Emanuelle Gerini da Fivizzano in otto libri disposte, vol. II, Frediani, Massa, MDCCCXXIX, pp.72-73), marchese di Fosdinovo (castello avito, dove ebbe i natali nel 1540, oggi nell’omonimo comune toscano della provincia di Massa-Carrara), cavaliere gerosolimitano, ammiraglio, priore di Ungheria e balì di Napoli, generale delle galee pontificie e, infine, insignito dal Gran Maestro della Croce d’Oro.Stanco poi di tanti clamori, il Malaspina si ritirò a Malta (isola dove si spense nel 1625 e fu sepolto nella cappella della Natione Italiana, sita nella concattedrale di San Giovanni a La Valletta). Da notare che Ippolito Malaspina fu amico del celeberrimo pittore italiano Michelangelo Merisi, il Caravaggio (1571-1610), come confermano i contributi archivistici della storica dell’arte Stefania Macioce (cfr. S. Maciocie, Caravaggio a Malta e i suoi referenti: notizie d’archivio, in “Storia dell’arte”,  LXXXI, 1994, pp. 207-28; si veda anche V. Abbate, Sulle orme di Caravaggio: tra Roma e la Sicilia, Marsilio, Venezia 2001, 188 pp., in particolare, p. 35) e gli studi dell’inglese John Gash, storico dell’arte (cfr. J. Gash, The Identity of Caravaggio’s ‘Knight of Malta’, “The Burlington Magazine”, vol. 139, No. 1128, Mar., 1997, pp. 156-160).
Tornando all’atto in questione, anche se non è specificato nel rogito, sia il socio (Nicolò Bozolo o Bozzolo) che l’acquirente (Pietro Magiolo o Maggiolo) del mercante Ippolito Malaspina, erano anche essi di ascendenza ligure.
Bozzolo, infatti, è una frazione del comune di Brugnato, in provincia di La Spezia. A Genova una famiglia ghibellina di origine mercantile, avente questo cognome, fu ascritta nell’albergo dei Doria nel 1528 (cfr. A. M. G. Scorza, Le famiglie nobili genovesi, Fratelli Frilli, Genova 1924, impressio anastatica Forni, Bologna 1973, 1996; Fratelli Frilli, Genova 2003, ad vocem). In detto anno, come hanno evidenziato Rodolfo Savelli, Arturo Pacini e, in tempi più recenti, Andrea Lercari, attraverso una riforma costituzionale si diede vita ad un vero e proprio “patriziato sovrano”, con diritto esclusivo di gestione della cosa pubblica, iscritto nel Liber Civilitatis ripartito in ventotto alberghi (cfr. R. Savelli, La repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981; A. Pacini, I presupposti politici del “secolo dei genovesi”. La riforma del 1528, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, d’ora in poi ASLSP, XXX, 1990, n.s., pp. 261-262 e 317; A. Lercari, La nobiltà civica a Genova e in Liguria dal Comune consolare alla Repubblica aristocratica, in M. Zorzi, M. Fracanzani, I. Quadrio, a cura di, Atti del convegno “Le aristocrazie cittadine. Evoluzione dei ceti dirigenti urbani nei secoli XV-XVIII”, Venezia, 20 ottobre 2007, La musa Talìa, Venezia 2009, pp. 227-362).
I Bozzolo ascesi al patriziato ed ascritti nell’albergo dei Doria, si fregiarono della seguente insegna gentilizia: «d’azzurro al mastio torricellato a destra di un pezzo d’argento, aperto nel campo, la torre sinistrata da un leone d’oro tenente un’ancora senza trave capovolta al naturale, il tutto fondato di verde» (cfr. A. M. G. Scorza, Le famiglie nobili genovesi… cit.; G. A. Ascheri,  Notizie storiche intorno alla riunione delle famiglie in Alberghi in Genova, Faziola, Genova 1846, 92 pp., in particolare, p. 15).
Tre famiglie dal cognome Bozzolo sono presenti nello stemmario delle casate nobili liguri di Giovanni Andrea Musso, dove troviamo Bosola, Bozola e Bozolo con differenti insegne gentilizie. (cfr. G. A. Musso, La università delle insegne ligustiche…cit.; A. Lercari, La università delle insegne ligustiche di Giovanni Andrea Musso…cit., p. 83). Da notare che solo l’arma dei Bosola coincide con quella sopra descritta, appartenente ai Bozzolo ascesi al patriziato nel 1528.
Relativamente al Nicolò Bozolo o Buzolo abitante a Termini, qualificato come genovese, è documentato nel luglio VIa Indizione 1623 con la carica di console della locale comunità ligure (Natione Genoysa), essendo stato nominato dal console generale di Sicilia, Camillo Pallavicino. Però il 17 agosto di quell’anno, gli ubentrava un’altro ligure, Gianfrancesco Belexi o  Billexio o Billeci (cfr. Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele città di Termini, d’ora in poi AMG, ms.  1624-25, Biblioteca Comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT, ai segni III 10 b 3 f. 150). Ricordiamo che già il 9 novembre 1606, il detto Belexi era  divenuto console di Francia a Termini Imerese (cfr. P. Bova e A. Contino, Vestigia di Francia a Termini Imerese nei secoli XV-XVIII, Domenica, 30 Dicembre 2018, on-line su questa testata giornalistica).
Maggiolo o Majolo (Magliolo) si riallacciano al ligure Maggiêu ‘magliolo’ (cfr. lat. malleŏlus ‘tralcio’ letteralmente ‘martelletto’, a sua volta da malleus ‘martello’, per la somiglianza) che indica la talea della vite di un anno utilizzata per propagazione. La talea viene recisa mantenendo alla base e trasversalmente un pezzo del tralcio vecchio di due anni, e ciò la fa somigliare ad una sorta di martelletto. Si spega così il ripetersi di più toponimi in varie zone della Liguria, in funzione della presenza di appezzamenti, più o meno estesi,  adibiti a vigneti. Maggiolo, infatti, è il nome di una frazione del comune di Davagna (Genova), mentre Magliolo è un comune in provincia di Savona.
Una famiglia Maiolo/Maggiolo/Magliolo di valenti cartografi, oriundi da Rapallo (oggi comune in provincia di Genova) è documentata nel Cinquecento nella Superba. Il primo e più noto fu Visconte de Maiolo (n. Genova c. 1475), figlio di Giacomo, del quale oggi esistono quindici cartografie superstiti (atlanti, planisferi e carte nautiche) del Mediterraneo.
Seguirono poi le orme paterne i figli Giacomo e Giovanni Antonio. Giacomo fu autore di dettagliate carte per navigare (portolani), mentre del nipote Baldassarre (figlio di Giovanni Antonio) si conoscono pochi lavori cartografici. Cornelio de Magliolo, altro figlio di Giovanni Antonio, è attestato nel 1607 e nel 1611 per due suppliche al Senato genovese relative al suo stipendio di cartografo, si spense il 19 aprile 1614 e fu sepolto nella tomba di famiglia in S. Maria di Castello, lasciando sei figli, tre femmine sposate e tre maschi (Giovanni Antonio junior di anni 19, Nicolò di anni 16, e Baldassare di anni 7). Essendo poi morto il fratello maggiore, fu Nicolò a continuare l’arte della cartografia, sino alla conclusione della sua vita terrena, il 7 maggio 1649, seguito infine dal figlio Cornelio junior (cfr. A. Ferretto, I cartografi Maggiolo oriundi di Rapallo, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, LII, 1924,pp. 53-83; C. Astengo, Der genuesische Kartograph V. M. und sein Werk, in “Cartographica Helvetica -Fachzeitschrift für Kartengeschichte”, 1996, nn. 13-14, pp. 9-17, on-line: https://www.e-periodica.ch/cntmng?pid=chl-001:1996:13::126; C. Astengo, Vesconte Maggiolo (alias Vesconte de Maiolo, Vesconte de Maiollo), in M. Quaini, a cura di, Cartografi in Liguria (secoli XIV-XIX), Brigati, Genova 2007, pp. 72-75).
Nel chiostro del convento dei domenicani di S. Maria di Castello è, altresì documentata la tomba dell’umanista Lorenzo Maggiolo (Laurentius Maiolus), del quale si sconoscono sinora eventuali legami di parentela con i predetti cartografi. L’umanista genovese, che tanto onorò la sua patria, è rappresentato nell’atto di leggere, allusione al fatto di essere stato celebre lettore di filosofia negli atenei di Padova, Ferrara (1497), Pavia etc., mentre l’iscrizione, datata 1501, lo designa Magnus Medicus, Maximus Philosophus, e Patriae decus (cfr. F. Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, vol. I, Grondona, Genova MDCCCXLVI, giornata terza, XCVI+624 pp., in particolare, pp. 389-390; G. Portigliotti, La tomba di Lorenzo Maggiolo, in “Il Raccoglitore ligure”, III, 20 gennaio 1933, p. 6 e segg.; F. Gabotto, Un nuovo documento intorno a Lorenzo Maggiolo in “Giornale Ligustico di Archeologia, Storia e Belle Arti”, d’ora in poi GLASBA, Gennaio-Febbraio 1889, R. Istituto Sordo Muti, Genova MDCCCLXXXIX, pp. 475-478; C. Gilardi, Ut studerent et predicarent et conventum facerent* La fondazione dei conventi e dei vicariati dei Frati Predicatori in Liguria (1220-1928), ASLSP, n. s., XLVII (CXXI) fasc. I, Genova MMVII, pp.9-54, foto p. 51).
Una famiglia Maggiolo di Genova, ragguardevole e doviziosa, nel 1528 fu aggregata all’albergo degli Usodimare ed ebbe come stemma «un leone coronato d’oro con un giglio in una zampa, in campo azzurro traversato da sbarra nella quale vedesi un tralcio di vite, allusione al cognome che pronunziato in dialetto corrisponde all’italiano magliuolo» (cfr. C. Desimoni, Elenco di carte ed atlanti nautici di autore genovese oppure in Genova fatti o conservati, in GLASBA, anno II, R. Istituto Sordo Muti, Genova MDCCC LXXV, pp. 41-81, in particolare, pp. 76-77).
I Maggiolo sono altresì presenti nello stemmario delle famiglie nobili liguri di Giovanni Andrea Musso (cfr. G. A. Musso, La università delle insegne ligustiche…cit.; A. Lercari, La università delle insegne ligustiche di Giovanni Andrea Musso…cit., p. 89).
Relativamente a Termini Imerese, nell’anno indizionale 1641-42, un Giovanni Magliolo o Maggiolo, assieme a Giambattista Rubato, è attestato come massaro della cappella di S. Giorgio in S. Maria di Gesù (La Gancia), di patronato della locale comunità ligure (cfr. atto del 26 Maggio Xa indizione 1642 in Miscellanea di documenti relativi ai legati per maritaggi d’orfane della Natione Genovese disposti dai fratelli Francesco e Bartolomeo Ferrerio o Li Ferrara, mss. sec. XVI-XVII, Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AMG, ai segni A ζ 5).
I Magliolo ebbero abitazione nel quartiere dei Bagni (quarterio balneorum) o dell’Annunziata (Sancte Marie Annunciate), come risulta dalla copia di un rogito del 12 Gennaio VIIIa Indizione 1611 (cfr. Atti della Comunia del Clero di Termini Imerese, mazzo III, ms. BLT, sec. XVI-XVII).
Il mastro notaro Girolamo di Martino, estensore del rogito in oggetto, faceva anch’egli parte di una famiglia di origine ligure, tanto è vero che ricoprì la carica di notaio del consolato di Genova a Termini Imerese (cfr. Miscellanea di documenti…cit.). I (di) Martinosono presenti nello stemmario delle famiglie nobili liguri di Giovanni Andrea Musso, dove troviamo distinti Martina e Martini con insegne gentilizie differenti (cfr. G. A. Musso, La università delle insegne ligustiche…cit.; A. Lercari, La università delle insegne ligustiche di Giovanni Andrea Musso…cit., p. 90).
Per quanto attiene ad Andrea Sasso patronus della fregata, invece, sappiamo che apparteneva ad una famiglia marinara termitana, ma di antica ascendenza da Amalfi (e dalla vicina Scala), probabile retaggio dell’antica comunità locale, proveniente da questa repubblica marinara, che ebbe il patronato della chiesa di S. Andrea Apostolo (cfr. P. Bova e A. Contino, Termini Imerese, la città medievale e gli amalfitani tra il XIII ed il XVI secolo, on-line su questa testata giornalistica, Sabato 19 Ottobre 2019). Da notare che il termitanomastro Placido Sasso, il 20 Aprile VIIIa Indizione 1685 ebbe conferita la patente di acatapano o maestro di piazza cioé di ufficiale annonario (cfr. AMG, 1684-85, ms. BLT, f. 256v-257r).
Per quanto riguarda l’imbarcazione oggetto della stipula, questa è indicata con il termine di fragata, cioè fregata, voce generalmente ritenuta dai linguisti di etimologia incerta (cfr.  M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna 1999, s.v.), che è attestata anche nel catalano, castigliano e portoghese fragata, nel francese frégate e nel tedesco fregatte. E’ stata proposta una derivazione etimologica dal latino aphractus ‘nave aperta’, a sua volta dal greco ἂφρακτις  ‘imbarcazione senza coperta’, cfr. A. Jal, Glossaire nautique, Didot, Paris 1848, s.v.; B. E. Vidos, Storia delle parole marinaresche italiane passate in francese. Contributo storico-linguistico all’espansione della lingua nautica italiana. Opera pubblicata sotto gli auspici dell’Istituto dl filologia romanza della R. Università di Roma, Olschki, Firenze 1939, 723 pp., vedasi a p. 409; H. Stammerjohann, a cura di, Dizionario di italianismi in francese, inglese, tedesco,  Accademia della Crusca, Firenze 2008, p. 343).
Nel nostro caso, si trattava di una nave mercantile a remi, con una stazza (portatus) di 130 salme (corrispondente a 30,94 tonnellate), provvista di tre alberi con vele latine sull’albero di mezzana, vele latine o quadre sugli altri due, dotata di grande capacità di manovra e di bolina. Ricordiamo che quest’ultimo termine marinaresco indicava la manovra verticale, che permetteva di tendere il gratile cioé il cavo di rinforzo, cucito attorno alle vele quadre, al fine di consentire al veliero di risalire controvento, sfruttando la portanza, cioé la spinta propulsiva delle vele, mantenendo un angolo rispetto al vento reale compreso fra 60° e 37°. Allo scopo di minimizzare gli effetti di scarroccio, cioé deviazione dalla rotta, la nave doveva essere provvista della deriva, cioé di un prolungamento perpendicolare, disposto longitudinalmente, fisso o mobile, simile ad un’ala, posto nella parte inferiore della chiglia del veliero.
Il rogito notarile, da noi rintracciato e scoperto, è  indubbiamente rilevante anche dal punto di vista linguistico poiché, descrivendo la fregata chiamata Santa Maria di Porto Salvo e San Giuseppe, nelle sue varie parti, ci fornisce preziose informazioni sul lessico marinaresco siciliano del Seicento. E’ importante rimarcare che questo linguaggio marinaro seicentesco esibiva ancora molti lemmi già presenti in Sicilia nel medioevo, come si evince dal confronto con il documentato studio relativo al Consolato del Mare di Messina, opera di Giuseppe Tavani (1924-2019), filologo e accademico, già professore emerito di Filologia Romanza all’Università di Roma “La Sapienza” (cfr. G. Tavani, Appunti sul lessico marinaresco medievale in Sicilia: il ‘Consolato di Mare’ di Messina, Bollettino dell’Atlante linguistico mediterraneo, Atti del VI congresso internazionale di studi linguistici mediterranei, Centro di cultura e civiltà della fondazione Giorgio Cini, 1974-75, voll. 16-17, Giardini, Pisa 1978, pp. 85-96, in particolare, p. 95).
Il rogito, descrivendo le parti della nave inizia ovviamente dallo scafo che è chiamato scaffo seu (ovvero) bucco, voce questa attestata nel siciliano buccu, catalano buc, castigliano buque, portoghese buco, ‘scafo della nave’ (cfr. C. Battisti e G. Alessio, Dizionario Etimologico Italiano, 5 voll., 4156 pp., 1950-57, vol. I, A-Ca, Università degli Studi di Firenze – Istituto di Glottologia, Barbèra, Firenze 1950, XXXII+818 pp., si veda a p. 625).
La duplice intitolazione della fregata a Santa Maria di Porto Salvo e San Giuseppe, è chiaramente legata alla tradizionale devozione di imporre nomi religiosi alle imbarcazioni, che nel nostro caso si riallaccia al desiderio di affidare il veliero alla protezione della Vergine e del Santo suo sposo, al fine di ritornare sani e salvi al porto di partenza, al termine di ogni viaggio per mare. E’ probabile che la devozione di questi liguri alla Madonna di Porto Salvo, si riallacci al culto diffuso a Palermo, sorto a seguito del rientro nel porto dell’Urbs Felix, per intercessione della Vergine, della flotta miracolosamente scampata ad un naugragio, dopole vittorie riportate sulla costa africana nel 1524. Dapprima, per volere del comandante delle galee, nel quartiere della Kalsa presso la Cala, fu dipinta a fresco una bella immagine della Madonna sotto il detto titolo, indi cresciuto il culto, fu iniziata la costruzione della chiesa (1526-27) sotto la direzione di Antonello Gagini, terminata dopo oltre un trentennio e purtroppo dimezzata nel 1581, essendo stata sacrificata per i lavori di prolungamento del Cassaro, attuale Corso Vittorio Emanuele (cfr. G. Palermo, Guida istruttiva per potersi conoscere con facilità tanto dal Siciliano che dal forestiere tutte le magnificenze, e gli oggetti degni di osservazione della città di Palermo Capitale di questa parte dei R. Dominj, vol. I, Palermo, Reale Stamperia, Palermo 1816, 756 pp., in particolare, v. Chiesa di Porto-Salvo, pp. 118-119; G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI; memorie storiche e documenti, 2 voll., Tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-83, I, 854 pp., vedasi p. 243).
Questo culto mariano è altresi documentato a Messina, come attesta il gesuita padre Placido Samperi: «Volendo i Marinari Messinesi, Nochieri, e Padroni, così di Vascelli grossi, come di Navili piccioli, e Feluche, pigliare un qualche Santo Tutelare delle loro persone, e legni, come quegli, che prima scioglievano i loro voti alla Madonna di Porto Salvo, la cui divotissima Imagine era nella Chiesa del Monasterio di S. Chiara, (…) si risolsero d’edificare un Oratorio particolare à proprie spese, sotto il medesimo titolo, nel quale potessero, essendo in terra, finite le loro navigationi, esercitarsi nell’opere di Christiana pietà, e fosse la B. Vergine la Protettrice, e la Stella Tramontana ne’ loro viaggi, facendo à [sic] lei parte de’ guadagni delle marinaresche fatiche. Fecero nel principio dentro le mura della Città, verso la Porta Reale un picciolo Sacrario, dove convenivano per udir Messa, mà [sic] essendo questo troppo angusto, e poco à [sic] proposito per gl’intenti loro, eressero un sito più conmodo fuori delle mura, verso la parte settentrionale della Città, vicino al mare, ch’è nel principio del Porto; ove fabricarono una capace Chiesa, sotto titolo della Vergine di Porto Salvo, e non senza ragione in questo luogo: d’onde pare, che Maria Vergine facesse la sentinella, e custodisse nelle tempeste, marosi, e voragini di Scilla, e di Cariddi li fluttuanti legni, e sani, e salvi in Porto gli riconducesse; onde piacque loro dargli il titolo di Porto Salvo. Havendo dunque fabricato å spese comuni quella Chiesa, s’adunarono molti Marinari insieme, & ottennero da Monsignor Arcivescouo la facoltà per fondarvi una numerosa Confraternità. E poi nell’anno 1565 fecero di comun consentimento alcuni Capitoli, e Regole da osservarsi per la conservatione, e buon reggimento di quella, essendosi con publico stromento stipulate. Mà affinchè ne’ tempi avvenire la Chiesa, e Confraternità da loro fondata fosse maggiormente stabilita, e non fosse giamai da altri molestata; ò in qualche modo pretesa, ottennero dalla Santità di Gregorio XIII à 10 di Marzo dell’anno 1582, un molto favorito Breve, nel quale si dà ampia benedittione à quella Confraternità, approvandola, e prohibendo insieme con Ecclesiastiche pene, che nessuno habbia ardimento di molestarla» (cfr. P. Samperi, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria Protettrice de Messina, Divisa in cinque Libri ove si ragiona delle imagini di Nostra Signora, che si riveriscono ne’ Tempij, e Cappelle più famose della città di Messina; delle loro Origini, Fondationi, e singolari avvenimenti. Con alcune Digressioni delle Persone segnalate nelle virtù appartenenti à quel luogo, di cui si fà [sic] mentione, Mattei, Messina MDCXLIV, XIX+644+[47] pp., in particolare, pp. 156-158).
Infine, Santa Maria di Porto Salvo è il titolo della chiesa e convento di S. Anna, a Termini Bassa, nella Strada della Piscarìa, l’attuale Via Felice Cavallotti. Lo storico locale, Vincenzo Solito, così racconta la nascita di questo luogo di culto: «Nel 1610 vennero nella Città di Termini ad habitare li Padri del terzo Ordine di S. Francesco, e vi fondorno il lor соnvento, il che così successe: il padre maestro Fra Francesco Lobello delegato del P. Мaestro Р. Cherubino Мontifredi Provinciale dell’Ordine in virtù di lettere date nel Соnvento della Zisa di Palermo à 29. d’Apŕile 1610. venne nella Città di Termini, е gli fu concessa dai Giurati, е dalli Pescatori la chiesa di S. Bartolomeo  coll’assenso del Signor Arcivescovo di Palermo in virtù d’atto fatto à [sic] 18. di Decembre 9. indit. del medesimo anno, & questo luogo vi habitorno [sic] questi padri alcuni anni, insin’a tanto che dорро nel 1613. si trasferirono da questo ad un’altro [sic] più convenevole, fondando ivi il Convento nuovo, e la chiesa sotto il titolo di S. Maria di Porto Salvo dоve adesso si ritrovano» (cfr. V. Solito, Termini Himerese Città della Sicilia posta in teatro,  Bisagni, Messina 1671, t. II, pp. 107-108). Abbiamo, quindi, l’attestazione della devozione alla Vergine sotto il titolo di S. Maria di Porto Salvo a Palermo, Termini Imerese ed a Messina.
Il rogito ritrovato dagli scriventi, con la transazione commerciale Malaspina-Maggiolo, si inserisce a pieno titolo nel contesto dei flussi commerciali e migratori dalla Liguria verso Termini Imerese, sinora documentati sin dalla fine del secolo XIII, che portarono alla nascita di una vera e propria colonia locale di Januenses, con consolato e luogo di culto intitolato a S. Giorgio Martire. I consoli, documentati almeno dagli inizi del Cinquecento, oltre a tutelare gli interessi commerciali e giuridici dei propri connazionali e dei loro eventuali eredi diretti, riscuotevano tributi ed amministravano i beni della locale colonia genovese.
Questi rapporti tra Genova e Termini, si legano alla rilevanza strategica e commerciale della cittadina imerese come “granaio” (in special modo di Palermo), per la presenza di uno dei più fiorenti Regi Caricatori (complesso di magazzini per il dazio e stoccaggio temporaneo, soprattutto di derrate, prima dell’imbarco). Come ebbe a scrivere lo storico palermitano Carmelo Trasselli (1910-1982), «l’articolo principale sul quale contava il commercio genovese in Sicilia era il frumento» (cfr. C. Trasselli, Genovesi in Sicilia, “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, nuova serie, IX/2,1969, pp. 154-178, citazione a p. 162) e la cittadina imerese era proprio il centro nevralgico di raccolta del grano prodotto in un vasto e fertile entroterra cerealicolo, compreso tra i bacini del S. Leonardo, del Torto e dell’Imera settentrionale.
Concludiamo, riportando qui di seguito la trascrizione delle parti meglio conservate del rogito rintracciato (avendo cura di sciogliere le abbreviazioni), mantenendo intatto il linguaggio e l’ortografia originale, compresi gli eventuali errori ed aggiungendo sintetiche spiegazioni dei termini lessicali di ambito marinaresco, mutuate principalmente dall’opera del conte Carlo Bardesono di Rigras, capitano di corvetta e lessicografo, prezioso repertorio specialistico della terminologia dell’antica e gloriosa marina a vela italiana (cfr. C. Bardesono di Rigras, Vocabolario Marinaresco, Lega Navale, Roma 1932, pp. III +398, 23 tavole esplicative f. t.).
Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra riconoscenza, per l’indispensabile supporto logistico nelle ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare delle fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese. Grazie di cuore all’amico Giovanni Ferrero (Genova) per la sua disponibilità, avendo controllato, su nostra preghiera,gli stemmi delle casate liguri menzionate in questo studio, nel ms. cartaceo del 1680 “La università delle insegne ligustiche” di Giovanni Andrea Musso, della Berio di Genova.

Appendice documentaria
Fonte: Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese, vol. 13157, fondo notai defunti, notar Girolamo di Martino di Termini Imerese, minute dell’anno 1620-21.

Quarto ottobris Ve ind[ictionis] 1621

Ippolitus Malaspina mer[cator] Januens habitator huius Spl[endidissi]mae Civ[ita]tisth[er]mar[um] et nicolao Bozolo eius socio(…)[vendettero]Jo[hanne] Petro magiolo ab[se]nti et pro eo Bernardo La Molina eius com[missiona]t[o] medietatem illius fragate portatus (stazza)s[almarum]130 pat[rona]ta p[er] Andrea Sasso nom[ina]ta S[an]taMaria di porto Salvo et S[an]to Gioseppeet alt[er]a medietas est ditti de Magiolo [per la somma] unc[iarum] 209 etgran[arum] 14 p[onderis] g[eneralis]. (…) [Segue la dettagliata descrizione dell’imbarcazione:] lo scaffo [scafo] seu bucco, li alborij [alberi] et antenne [pennoni montati sull’albero in posizione inclinata verso poppa] delle maystre [albero maestro, più alto, posto al centro] et trinchetto [primo albero partendo da prua], li corredi [accessori], palamento [dotazione di remi], remi della barchetta numero sei, la detta barchetta [imbarcazione di servizio], un bottaczo, doj barlirj [barili], doi beglioli [buglioli, secchi a doghe di legno con manico di corda], sei pali, la chiesiola [custodia ligneadove si collocava la bussola, pressoil timone], le taglia [tipo più semplice di paranchi, per sollevare  pesi] dalto e di basso dall’albori [alberi] distagli grandi da trave e varare, la sentina [parte basale concava dello scafo dove si raccolgono leacque di filtrazione], l’argano [per sollevare di carichi o trazione di funi o catene, quali quella dell’ancora] (…), una bussola grande, quattro pulegi [pulegge, cioé organi di trasmissione del moto, attraverso catene, funi etc., costituite da un albero girevole, munito di ruota coassiale sagomata] (…) grandi.

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