Sin dagli anni 80’ del Quattrocento, a Termini Imerese, al di fuori del perimetro murario medievale, in un sito topograficamente sottostante rispetto al vertice della collina su cui sorge l’antica chiesa di Santa Lucia,
si aprivano delle cave di pietra calcarea, denominate in siciliano pirrère, che esibivano configurazioni di coltivazione «a cielo aperto».
E’ doveroso qui sottolineare che la chiesa di Santa Lucia Vergine e Martire Siracusana, era già esistente negli anni indizionali 1308-9 e 1309-10, poiché è documentato dai resoconti dei collettori pontifici che essa, a quel tempo, contribuiva alle somme delle decime che l’arcidiocesi di Palermo versava alla Camera Apostolica. Pertanto, essa doveva essere regolarmente officiata e funzionante, detenendo redditus et proventus sufficienti per poter essere assoggettata al prelievo delle decime e ciò, indirettamente, attesta la rilevanza del luogo di culto (n. 214: Ecclesiae S. Luciae de eodem loco [Termini] valet unc[iarum] I ½ solvit pro prima tar[enos] III, cfr. P. Sella, a cura di, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia. Studi e Testi, n. 112, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, Roma MDCCCCXLIV, VI+188 pp.). Nel Trecento, questa chiesa doveva dominare nettamente il paesaggio circostante e costituiva un elemento visivo di riferimento anche per i naviganti, anche perché le abitazioni in questo sito iniziano ad essere citate nei rogiti notarili agli inizi del Cinquecento.
Lo storico locale sac. Vincenzo Solìto, per quanto sia da ricordare per essere stato il primo a scrivere una storia della città di Termini Imerese degna di questo nome, è totalmente incorso in errore quando riferisce la fondazione della chiesa di Santa Lucia agli anni 70’ del Quattrocento, basandosi su deduzioni ricavate da un documento del 1483: «Circa quest’anno [notizia precedente del 1477] fù [sic] edificata la chiesa dedicata alla gloriosa S. Lucia, che hoggi è confraternita: si hà [sic] dalli confini del convento di Santa Maria di Giesù nel 1483» (cfr. V. Solìto, Termini Himerese Città della Sicilia posta in teatro etc., tomo II, Bisagni, Messina 1671, p. 95). Purtroppo, questo studioso è stato seguito acriticamente e pedissequamente dalla stragrande maggioranza della storiografia, non soltanto esclusivamente locale. Ancora una volta, il Solìto viene totalmente smentito dallo storico locale tardo settecentesco Gerolamo Maria Sceusa Provenzano, il quale menziona un rogito di notar Giuliano Bonafede di Termini, datato 11 Ottobre 1409, che attesta l’esistenza della chiesa di Santa Lucia (cfr. G. M. Sceusa e Provenzano Termini Imerese Splendidissima, e Fedele Città Della Sicilia, suo Nome, sua Origine, suo culto, e Suoi progressi, sotto i Dominij che il nostro Regno han governato, ms. 1796, Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT, ai segni AR d β 22, f. 48r).
Le cave di calcare di Santa Lucia, nonostante abbiano apportato delle vistose modificazioni antropiche sulla morfologia e sul paesaggio, in conseguenza dell’attività estrattiva di materiale lapideo, non hanno lasciato tracce particolarmente evidenti (probabilmente a causa delle operazioni seguite alla dismissione ed al successivo sviluppo in loco di un intero quartiere), ma della cui esistenza abbiamo assoluta certezza grazie a diversi riscontri documentari (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina 2019, pp. 63-68, e in particolare, pp. 66-67), che abbiamo studiato ed analizzato attentamente.
Il lemma siciliano pirrèra deriva dal francese perrière ‘cava di pietra’ (da pierre ‘pietra’ con l’aggiunta del suffisso -ière) che, a sua volta, si riconnette all’antico provenzale peirèira, entrambi dal latino medievale petrària ‘cava di pietra’, originato dal classico petra ‘pietra’ (cfr. https://www.cnrtl.fr/etymologie/perrière; C. du Fresne sieur du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, editio nova, D. P. Carpenter, G. A. L. Henschel, éd. , Favre, Niort 1883-87, t. 6, col. 297c., http://ducange.enc.sorbonne.fr/PETRARIA1; per l’etimo siciliano cfr. R. A. Cannizzo, Affinità linguistiche franco-siciliane, Flaccaventolibri, Ragusa 1986, 84 pp., si veda a p. 56). Dal lemma francofono discendono anche i due toponimi di La Perrière, comuni francesi, rispettivamente ubicati nel dipartimento dell’Orne, nella regione della Normandia e nel dipartimento della Savoia, nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi.
Le cave di Santa Lucia, che erano abbastanza prossime all’abitato medievale, rifornivano la cittadina di due diverse varietà merceologiche di materiale lapideo. La prima, era un calcare marnoso grigio-biancastro a grana fine, caratterizzato da elevata divisibilità, grazie alla presenza di una stratificazione ben evidente, che esibiva discrete caratteristiche litotecniche, tanto da essere comunemente utilizzato come pietra da costruzione in conci sbozzati o in frammenti (per fondazioni, murature etc.). La seconda, era un calcare grigiastro riccamente fossilifero, molto più compatto e con ottime caratteristiche litotecniche (buoni parametri di resistenza fisico-meccanica), utilizzato come pietra d’intaglio per realizzare elementi ornamentali anche aggettanti (ad es. basamenti, architravi, cornici, mensole etc.) di edifici pubblici, privati ed ecclesiastici.
L’attività estrattiva delle pirrère dovette subire una vera e propria impennata, raggiungendo l’apice nella seconda metà del Cinquecento, in concomitanza dei lavori di costruzione della nuova cinta muraria cinquecentesca, decisa durante il regno di Carlo V d’Asburgo (1516-1556), attuata da Filippo II di Spagna e I di Sicilia (1556-1598) ed inserita nel quadro del potenziamento delle fortificazioni delle città costiere siciliane esposte all’incombente minaccia della pirateria. Termini Imerese doveva necessariamente essere ampliata e fortificata, vista la sua rilevanza strategica e mercantile, con il suo grande Caricatore, centro primario di raccolta e stoccaggio temporaneo dei cereali (provenienti dal vasto e fertile entroterra, comprendente i bacini dei fiumi S. Leonardo, Torto ed Imera settentrionale), che poteva opportunamente essere protetto da atti di pirateria, soltanto attraverso la sua enucleazione nell’area urbana.
Le nuove mura, che cinsero la città con una cortina provvista di scarpa e rinforzata da bastioni angolari, servita da nove porte d’accesso, furono edificate nel corso di trentacinque anni (1556-1591) con uno sforzo logistico ed economico enorme. Nel contempo (1557-1580 c.), furono attuati gli imponenti lavori che ampliarono l’area di pertinenza del Castello (sino allora limitata alla sola cima della rocca), con la costruzione di una nuova cinta bastionata e relativo fossato di difesa (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 56-62; P. Bova e A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, Lunedì, 14 Settembre 2020; Idem, Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento, 20 Dicembre 2020, entrambi su questa testata giornalistica on-line).
La costruzione di tutte queste opere di fortificazione ebbe sull’abitato (che manteneva ancora un assetto, una fisionomia ed una odonomastica prettamente medievale), e sul territorio immediatamente circostante, un impatto geomorfologico particolarmente severo, soprattutto sulla fascia costiera che perse la sua naturale conformazione assumendo una fisionomia del tutto artificiale essendo sbarrata dalla nuova cortina muraria bastionata. Diversi corsi d’acqua a regime torrentizio furono letteralmente tranciati e sbarrati nelle zone di testata, mentre furono ancora maggiori le modifiche nelle aree di foce e tutto ciò ebbe delle importanti ripercussioni sul deflusso idrico superficiale.
Un’altra cava che fu ampiamente utilizzata per alimentare la richiesta di materiali lapidei per le cortine murarie fu quella di Patara (oggi contrada Santa Marina), le cui litologie sono del tutto analoghe a quelle di Santa Lucia (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 67-68).
Nel medioevo, la roccia calcareo-marnosa che costituisce l’ossatura della collina di Santa Lucia doveva esibire una buona esposizione naturale, con molti affioramenti ben visibili, nonostante la presenza di ampie aree a verde, alcune delle quali terrazzate, mentre oggi il substrato calcareo è quasi del tutto occultato dalle abitazioni che, dopo la dismissione delle cave, sono sorte progressivamente nel sito nel corso del Seicento e del Settecento. La successione litostratigrafica è comunque ricostruibile grazie ai dati raccolti in concomitanza di vari interventi di scavo a sezione, per lo più eseguiti lungo i principali assi viari (ad es. per la messa in opera della rete idrica, fognaria, metanifera, per il rinnovo della pavimentazione viaria etc.), nonché attraverso l’interpretazione dei logs stratigrafici relativi ai sondaggi geognostici effettuati in passato nell’area in oggetto [cfr. A. Contino, Geologia urbana dell’abitato e della zona industriale di Termini Imerese (Sicilia settentrionale), tesi inedita di Dottorato di Ricerca in Geologia, XVII ciclo, Università degli Studi di Palermo, 2005, 214 pp.].
Le rocce sedimentarie costituenti il sottosuolo di questo settore dell’abitato di Termini Imerese raccontano un’affascinante storia geologica, legata alla loro genesi ed evoluzione, riportandoci indietro in un arco di tempo compreso tra circa 113 e 28 milioni di anni fa, quando si deposero sotto forma di sedimenti in un antico bacino marino profondo, noto nella letteratura scientifica con la denominazione di Sicilide (cfr. L. Ogniben, Nota illustrativa dello Schema geologico della Sicilia nord-orientale, “Rivista Mineraria Siciliana”, 64-65, 1960, pp. 183-212). Questo antico bacino marino finì poi per scomparire essendo coinvolto dai movimenti tettonici compressivi che hanno dato origine all’edificio montuoso della catena siciliana, la quale è un vero e proprio elemento di raccordo tra l’Appennino meridionale italiano ed il Maghreb africano.
Nel settore Termitano, la catena siciliana, esibisce una strutturazione a tre livelli di corpi rocciosi mesozoici ed in parte cenozoici, tettonicamente sovrapposti (che complessivamente raggiungono spessori dell’ordine di una quindicina di chilometri): a) inferiore, caratterizzato da unità tettoniche costituite da rocce calcareo-dolomitiche di piattaforma carbonatica (nell’area: unità Trapanesi); b) intermedio, costituito da unità calcareo-dolomitiche e calcareo-silicee mesozoiche di mare profondo (unità Imeresi) nonché dalle relative coperture terrigene argilloso-arenacee (flysch Numidico); c) superiore, formato dalle unità Sicilidi predette.
I grandi corpi rocciosi che vediamo oggi inglobati nella catena siciliana, si depositarono all’interno di distinti domini (sia di mare basso, sia profondo), tra circa 242 e 13 milioni di anni fa.
Tra circa 14 e 11 milioni di anni fa, a causa della convergenza tra le placche africana ed europea, i corpi rocciosi delle successioni bacinali (unità Imeresi, Numidiche e Sicilidi) furono deformati, rimossi dalla loro collocazione originaria, raccorciati, traslati e sovrapposti, tramite contatti a basso angolo, su quelle ancora radicate di piattaforma carbonatica (unità Trapanesi e Panormidi). Queste ultime, a partire da circa 8 milioni di anni fa, sono state coinvolte dalla compressione e ciò ha indotto anche la rideformazione dei corpi tettonici sovrastanti, creatisi durante il primo evento. Tra circa 6-4 milioni di anni fa, attraverso l’attivazione di grandi faglie (fratture con apprezzabile spostamento delle due parti) a cinematica complessa (con movimenti sia compressivi che laterali), che hanno prodotto la creazione di grandi alti morfostrutturali e, addirittura, anche l’inversione dei rapporti di sovrapposizione tra le unità di bacino e quelle di piattaforma, con il sollevamento delle unità Panormidi (che oggi troviamo nelle Madonie a 1979 m s.l.m., in corrispondenza del Pizzo Carbonara).
Circa 1,5 milioni di anni fa la catena montuosa è stata successivamente smembrata in blocchi per mezzo di grandi sistemi di faglie con movimento prevalentemente distensivo, che hanno dato vita al susseguirsi di alti e bassi morfostrutturali (noti nella letteratura geologica, rispettivamente, con i termini, di origine germanica, horst e graben).
La Rocca del Castello di Termini Imerese, che costituiva l’acropoli dell’abitato indigeno e della città ellenistico-romana e medievale, è un emblematico esempio di alto morfostrutturale che, per le sue caratteristiche geologiche e geomorfologiche, ha condizionato le scelte insediative e lo sviluppo di un tipico abitato di altura e di versante, posto sulla rupe rocciosa prospiciente sul mare, a controllo sia dell’ampio e lunato golfo, sia delle vie d’accesso ad un vasto e fertile entroterra agricolo e silvo-pastorale. Tutto ciò ha dato altresì origine all’inscindibile connubio esistente, soprattutto nel centro storico termitano, tra gli affioramenti di rocce lapidee ed il sovrastante edificato urbano, dando vita talvolta ad effetti particolarmente suggestivi dal punto di vista paesaggistico, soprattutto laddove vi sono esposizioni naturali, anche se parziali, della successione calcareo-dolomitica, silicea e calcarea mesozoica, corrispondente al margine dell’antico dominio bacinale Imerese. Particolarmente accattivante in tal senso è la spettacolare esposizione di parte dell’intervallo dolomitico (Formazione Fanusi, attribuita alla parte basale del Giurassico), all’interno del centro storico, soprattutto nel quartiere Rocchecelle-Annunziata, a ridosso del Largo Impallaria, con l’incombente mole della chiesa di S. Orsola e della torre dei Saccari (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 51 e p. 103).
Nei bassi morfostrutturali circostanti, invece, si sono preservate sia le coperture terrigene, argilloso-arenacee (flysch Numidico, Oligocene superiore-Miocene inferiore, 29-14 milioni di anni fa circa), sia i terreni derivanti dalla deformazione del dominio Sicilide (Argille Varicolori e Formazione di Polizzi), tettonicamente sovrastanti, sotto forma di lembi più o meno estesi arealmente. Queste rocce, escludendo l’area prossima alla Rocca del Castello, costituiscono il sottosuolo dell’abitato di Termini Imerese, sia del centro storico (S. Lorenzo, S. Lucia, S. Francesco di Paola, Cappuccini, Fonte Serio etc.), sia della periferia (Bevuto).
Nel dettaglio, la successione argillosa ed argilloso-calcarea del dominio Sicilide, dal basso verso l’alto, è caratterizzata da (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 108-109): a) argille marnose variegate, sottilmente e fittamente scagliettate, a luoghi tettonizzate, con intercalazioni di livelli silicei (diaspri), di calcari marnosi verdastri, e di calcari arenacei grigiastri (Argille Varicolori, parte alta del Cretacico inferiore-Eocene inferiore, 113-55 milioni di anni fa circa); b) segue, alla base, un passaggio graduale contraddistinto dall’incremento progressivo dei livelli calcareo-marnosi grigiastri, all’interno delle argille grigio-verdastre o bruno-rossastre (cfr. A. Contino, Stratigrafia e strutture geologiche del settore occidentale dei Monti di Termini Imerese, tesi di laurea inedita, Università degli Studi di Palermo, 1989-90, 110 pp., in particolare, pp. 63-64; Idem, Geologia Urbana dell’abitato e dell’area industriale di Termini Imerese (Sicilia settentrionale), tesi di dottorato di ricerca in Geologia, XVII ciclo, Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Geologia e Geodesia, 2005, 215 pp., si veda a p. 64). Verso l’alto, gradualmente le marne verdastre passano a grigio-biancastre e bianco-grigiastre, talvolta violacee, che si alternano monotonamente con i calcari marnosi, compatti e biancastri, non di rado con liste e noduli di selce cerulea, entrambi ben stratificati. Si osservano di frequente delle impronte di fondo e delle piste fossili di organismi limivori. Gli strati calcarei hanno uno spessore decimetrico, mentre quelli marnoso-siltosi sono centimetri. A più altezze stratigrafiche si rinvengono intercalati dei livelli grigiastri di calcari arenacei, quasi interamente costituiti da gusci di organismi fossili marini. Si tratta dei cosiddetti “calcari nummulitici”, appunto così denominati per la preponderante abbondanza di resti fossili di Nummuliti, grandi protozoi foraminiferi perforati, vissuti tra circa 56 e 23 milioni di anni fa, durante una parte dell’era Terziaria. Questi organismi unicellulari secernevano dei gusci calcarei generalmente a forma di lente biconvessa, discoidale o più o meno rigonfia, ad avvolgimento planospirale, forniti di logge interne (per ulteriori approfondimenti, cfr. A. R. Loeblich, H. Tappan, Foraminiferal genera and their classification, Springer 1988, 2045 pp., 847 tavv.). In questi calcari, i Nummuliti si rinvengono spesso assieme ai gusci fossili di altri grandi foraminiferi, quali le Alveoline (dall’aspetto fusiforme, con morfologie sferiche o cilindriche, a struttura interna complessa) e le Discocicline (appartenenti agli Orbitoidi s.l., di forma discoidale o lenticolare, a struttura interna complessa). Nel nostro caso, questi resti fossili non si reperiscono nelle condizioni ambientali di vita, tipici di mari tropicali a salinità normale, relativamente poco profondi, ma risultano rimaneggiati e risedimentati in un ambiente marino più profondo a causa delle correnti di torbida. Le litologie descritte appartengono alla Formazione di Polizzi (Eocene inferiore-Oligocene inferiore, 56-29 milioni di anni fa circa).
Qui di seguito, ci piace riportare la calzante descrizione, redatta nel 1875 dal naturalista, paletnologo ed archeologo termitano Saverio Ciofalo (Polizzi Generosa, 27-6-1842; Termini Imerese 9-4-1925), degli orizzonti calcarei e calcareo-marnosi, con particolare riguardo ai calcari nummulitici, che affiorano nei dintorni di Termini Imerese: «Nel calcare di Patara e Ginestra, per esempio, due chilometri circa dalla città, un taglio verticale presenta una serie regolare di strati di marne bianche e color rosso oscuro con abbondanza di fucoidi [piste di organismi limivori], alternati con strati di calcare nummulitico compatto […] Il calcare delle suddette contrade [Patara, Ginestra, Impalastro] è quasi interamente composto di nummuliti, orbitoidi ed alveoline, e sono queste specie [sic] a tal punto abbondanti che si può appena discernere il cemento che insieme le unisce, costituendo un calcare durissimo da servire come pietra da costruzione» (cfr. S. Ciofalo, Cenni sul terreno nummulitico dei dintorni di Termini Imerese. Lettera all’Ill.mo Prof. Gaetano Giorgio Gemmellaro. Termini-Imerese Gennaio 1874, in “Annuario della Società dei Naturalisti in Modena”, serie II, anno VIII, parte scientifica, memorie originali, Maggio 1875, pp. 151-154, in particolare, p. 153).
Occorre sottolineare che all’interno dell’abitato di Termini Imerese proprio in corrispondenza del fianco sud-occidentale della collina di S. Lucia, le stratigrafie dei sondaggi geognostici evidenziano l’esistenza di raddoppio tettonico che ha portato alla duplicazione della successione Sicilide, per cui si riscontrano delle Argille Varicolori che ricoprono i calcari della Formazione di Polizzi, come scoperto e segnalato per la prima volta da uno degli scriventi (cfr. A. Contino, Geologia Urbana dell’abitato…cit.).
Da notare che una situazione del tutto analoga si ravvisa nella sezione tipo della formazione Polizzi, che affiora in corrispondenza dell’abitato di Polizzi Generosa (cfr. R. Coltro, La facies di Polizzi dell’Eocene alloctono della Sicilia Centro-settentrionale, “Rivista italiana di paleontologia e stratigrafia”, vol. 69, 1963, estratto, 167 pp., 2 fig.).
Del resto, il medesimo assetto strutturale è stato accertato anche nel pozzo Avanella 1 (quota 775 m s.l.m., profondità 3051 m), ubicato a SE dell’abitato di Polizzi Generosa, realizzato da AGIP Mineraria S.p.A. nel 1956-57, nel quadro di una campagna di ricerche petrolifere (cfr. https://www.videpi.com/deposito/pozzi/profili/pdf/avanella_001.pdf; R. Catalano, G. Avellone, L. Basilone, A. Contino, M. Agate, Note illustrative della Carta Geologica d’Italia alla scala 1: 50000 del foglio 609- 596 “Termini Imerese”-“Capo Plaia”. Progetto CARG, ISPRA Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Servizio Geologico d’Italia, Dipartimento di Geologia e Geodesia, Università di Palermo, 2011, 224 pp., in particolare, p. 156).
Il sito estrattivo, posto a valle della chiesa di Santa Lucia, che dovette attirare l’attenzione dei cavatori che vi impiantarono delle cave o pirrère, ci racconta ancora un’altra storia, relativa alle modalità di coltivazione, trasporto ed impiego del materiale lapideo calcareo. La scelta di questo luogo, dovette essere dettata principalmente dalla buona esposizione naturale degli affioramenti che esibiscono una marcata stratificazione a reggipoggio che si interseca con la maglia delle superfici di discontinuità planari (joints, nel gergo dei cavatori chiamate «peli»), favorendo la suddivisione in conci lastriformi (in siciliano valàta o balàta, dall’arabo balāṭ ‘lastra di pietra’). Altri fattori che dovettero condizionare la scelta del sito delle cave furono: a) la relativa vicinanza ai corsi d’acqua, soprattutto il torrente Barratina, indispensabile per agevolare le operazioni di distacco tramite cunei di legno bagnato, per dissetare gli operai e per le operazioni di cottura della roccia al fine di produrre la calce; b) la relativa facilità di accesso grazie alla collocazione favorevole rispetto alla rete viaria; c) La relativa ridotta distanza dal lido in modo da poter rendere più agevole il trasporto del materiale estratto eventualmente anche via mare.
Possiamo ragionevolmente ipotizzare che le operazioni di estrazione furono precedute da prospezioni e da saggi, atti ad accertare la presenza di materiali lapidei rispondenti alla qualità richiesta. La prima operazione dovette consistere nell’esame particolareggiato dello stato generale dei luoghi e, nello specifico, degli affioramenti, alla ricerca delle condizioni più favorevoli per l’impianto dell’attività estrattiva, sia logistici che intrinseci della roccia, come l’intersezione tra i piani di strato e dei «peli», caratteristica che avrebbe consentito di estrarre elementi lapidei di forma il più possibile regolare. Era quindi essenziale una conoscenza preventiva della disposizione, della spaziatura e dell’andamento dei «peli», che solitamente erano distinti in principali, denominati «dritti» e secondari o «rovesci», caratteristiche ben ricercate dai cavatori, i «mastri di pirréra», o «mastri pirriatùra», che le utilizzavano ampiamente in fase d’escavazione, ben sapendo che finivano poi per condizionare moltissimo, sia gli sviluppi delle operazioni di estrazione secondo una direzione piuttosto che in un’altra, sia le dimensioni dei singoli blocchi lapidei estratti.
Inizialmente, è probabile che i cavatori abbiano effettuato anche alcuni saggi e/o sezioni di scavo sui materiali lapidei e sulla disposizione dei «peli», in modo da poter compiere una prima stima, anche approssimativa, sia della cubatura di materiale estraibile, sia della quantità di scarti di lavorazione.
E’ plausibile che lo sfruttamento del giacimento sia stato agevolmente effettuato applicando la tecnica detta «sfaldatura», grazie proprio alla presenza degli strati, cioè utilizzando la stessa stratificazione in uno con la maglia (set) di fratture naturali ad andamento planare (joints), circa ortogonali, con spaziatura generalmente decimetrica, per “smassare” il materiale in cava, cioè provocando il distacco di elementi rocciosi prismatici compatti, con l’ausilio di zappe, picconi (entrambi attestati dai documenti) e, probabilmente, anche leve e mazze di ferro, nonché pali di legno. Un ulteriore ausilio era dato dall’utilizzo di cunei di legno, infissi tra strato e strato e/o nelle fratture, che potevano anche essere bagnati, con conseguente aumento di volume, in modo da favorire, abbastanza agevolmente, l’allentamento o addirittura il distacco di elementi rocciosi, sia lastriformi, sia sotto forma di grossi blocchi lapidei.
I materiali lapidei cavati, ancora grezzi dopo le operazioni di estrazione, esibivano un’altezza pari allo spessore dei singoli strati o banchi rocciosi, mentre le altre due dimensioni, lunghezza e larghezza, variavano in funzione della spaziatura dei «peli». La successiva fase di divisione dei materiali lapidei, sino alle dimensioni richieste, probabilmente, avveniva in appositi cantieri di lavorazione, utilizzando operai addetti alla sgrossatura che, provvisti di scalpelli, squadravano i blocchi e, se necessario, ne regolarizzavano la superficie, ottenendo conci di pietra da taglio per murature. Gli elementi lapidei destinati per decorazioni architettoniche (colonne, basi, capitelli) forse venivano parzialmente lavorati in situ e ciò permetteva sia di ottenere un prodotto semilavorato, di valore commerciale superiore, sia di ridurne, in maniera sensibile, il peso riducendo le problematiche ed i costi di trasporto che venivano calcolati in funzione delle dimensioni. L’ultima rifinitura, cioè l’intaglio dei particolari decorativi, e la politura finale, usualmente avveniva nel cantiere dell’opera da realizzarsi.
Una certa aliquota degli scarti dei livelli calcareo-marnosi biancastri venivano in gran parte utilizzati per la importante produzione della calce, cuocendo la roccia in fornace ed ottenendo un’ottima “calcina forte”, fondamentale per avere una malta particolarmente durevole e con un certo grado di idraulicità. La sabbia impiegata nell’impasto delle malte, era prelevata doveva essere categoricamente di origine fluviale, scevra di argilla, dai numerosi renai presenti nei dintorni di Termini, specialmente nel fiume San Leonardo ad O dell’abitato, ma anche dalle arenarie quarzose (flysch Numidico arenaceo) della zona di Buonfornello, come quella del Cozzu ‘a rina, in contrada Molara.
A tal proposito, facevano testo i Documenti per i soprastanti delle fabriche della Deputatione del Regno, che troviamo raccolti in un opuscolo (che si conserva presso la Biblioteca Nazionale di Palermo, ai segni Rari Siciliani 267 n. 6) di nove pagine, stampato a Palermo da Giovanni Francesco Carrara nel 1583. Si tratta di una interessantissima rassegna di una sorta di linee guida essenziali, ad uso degli appaltatori, al fine di una corretta lavorazione e preparazione dei materiali edili (pietra, calce, sabbia, cineraccio) e dell’utilizzo appropriato delle tecniche di fondazione (fundamenti), di costruzione dell’acciottolato (ciacato), dei terrapieni (terrappieno), delle terrazze (astricato), del cocciopesto (tuffo) e la posa in opera delle palificazioni (palificate per ripari). Alla fine dell’opuscolo, vi erano delle prescrizioni generali vincolanti (avvertenze generali) che richiamavano gli appaltatori a seguire scrupolosamente quanto indicato dai capitolati, dai progetti e dalle ordinanze rilasciate dalla Deputazione del Regno (istituzione politico-amministrativa istituita nel 1474 e dotata di molteplici compiti, in special modo di vigilare sull’osservanza dei privilegi e di promuovere e coordinare l’attività dei funzionari preposti alla ripartizione e riscossione dei donativi, ma anche di gestire le opere pubbliche, cfr. G. Scichilone, Origine e ordinamento della deputazione del regno di Sicilia, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, s. IV, IV, 1951, pp. 83-114).
Tratteggeremo, qui di seguito, le principali tappe della storia delle cave di S. Lucia, attraverso l’analisi cronologica della documentazione archivistica, scoperta dagli scriventi e qui edita per la prima volta nella sua interezza, ricadente in un arco di tempo compreso tra il 1488 ed il 1581.
Il primo documento che sinora è stato possibile rintracciare risale al 17 Luglio XVa Indizione 1497, quando Domenica (nel ms. Minica forma ipocoristica del siciliano Duminica) vedova di un certo Onofrio Gallina, agli atti di notar Andrea Guardalabene di Termini, concedette per sé e per i suoi eredi ad un certo Giacomo de Biruisca suo concittadino, delle terre incolte con fondaco (locanda e stalla nel contempo, per accogliere assieme i viandanti e le relative cavalcature) e pirrèra siti nella collina (timpa) di S. Lucia vicino la chiusa (clausura, cioè un appezzamento di terreno recintato da siepi o da muri, riservato per il pascolo), di proprietà di Angelo de Marino, provvisto di un ambiente coperto da volta (cum dammuso), per la somma di onze 2 e tarì 12. Questi terreni incolti erano compresi tra la via che allora conduceva al torrente Barratina (viam euntem ad barratinam) e quella che andava alla fonte delle Terme (viam publicam qua itur ad fontem thermarum) e che evidentemente confluivano nel Piano di S. Lucia, l’attuale Piazza S. Carlo (cfr. Volume I di scritture diverse ms. sec. XV-XVII, Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini, d’ora in poi AME, ai segni A ξ 1, f. 409).
La strada, allora anch’essa fuori le mura, che dal Piano di S. Lucia andava alla Barratina doveva essere abbastanza impervia, avendo un andamento plano-altimetrico molto irregolare perché era costretta a rimontare e poi scavalcare un avvallamento torrentizio (vallone Serio-Cappuccini), ma anche a superare i relativi displuvi, per cui doveva essere percorribile soprattutto a piedi od a dorso di cavalcatura (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 197-199). Lo spartiacque principale, a quel tempo si estendeva dalla chiesa di S. Lucia sino al sito dove, negli anni 30’ del Seicento, sorse la nuova chiesa e convento di S. Girolamo dell’ordine mendicante dei frati minori Cappuccini (di cui oggi rimane solo il luogo di culto, essendo stato totalmente stravolto l’edificio conventuale, nel sito dell’attuale poliambulatorio dell’Azienda Sanitaria Locale), poiché solo alla fine del Settecento fu operato il taglio in trincea della collina, nelle more della realizzazione della Strada Carrozzabile denominata Nuova Stabile (l’odierna Via Stesicoro) allacciata al grande asse viario che doveva congiungere Palermo e Messina, andando per le marine (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 193-196).
Nel Piano di S. Lucia si innestava anche una strada-alveo (corrispondeva infatti all’antico letto torrentizio del vallone Cannitello, cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 62-63) che il documento designa della fonte delle Terme, perché iniziava proprio dal Piano dei Bagni (attuale Piazza delle Terme) e che, grossomodo, corrisponde con quella che sin dal Cinquecento fu detta Strada delle Botteghelle (attuali vie Errante e Porta Euracea).
Il fondaco citato nel rogito rimanda alla presenza di un edificio di sosta, sorto fuori la cinta muraria, che doveva essere accessibile attraverso stretti varchi chiudibili che lo mettevano in comunicazione con la viabilità principale, a breve distanza da uno dei passi più importanti per arrivare a Termini dalla Barratina. Queste strutture ricettive extraurbane, come ha messo in evidenza lo storico dell’architettura Ennio Concina (1944-2013), durante il medioevo, erano del tutto ubiquitarie nelle città mercantili mediterranee e non solo (cfr. E. Concina, Fondaci. Architettura, arte, e mercatura tra Levante, Venezia, e Alemagna, Marsilio, Venezia 1997, 280 pp., si vedano le pp. 50-65; O. R. Constable, Housing the Stranger in the Mediterranean World. Lodging, Trade, and Travel in Late Antiquity and the Middle Ages,Cambridge University Press, Cambridge 2003, 440 pp., in particolare per la Sicilia, si vedano le pp. 201-233). Non vi può essere alcun dubbio che Termini Imerese, a buon titolo rientrava tra le città mercantili del mediterraneo e quindi doveva certamente essere dotata di apposite strutture ricettizie per viandanti e commercianti. Olivia Remie Constable (1961–2014), studiosa esperta a livello internazionale di storia economica mediterranea, ha messo in evidenza che queste strutture di ospitalità, nel medioevo erano molto di più che semplici locande, stalle e punti di custodia delle mercanzie. I fondaci erano spesso protetti da una corte interna (baglio) dove razzolavano animali da cortile, con un pozzo per l’approvvigionamento idrico. Sul baglio prospettavano uno o più ambienti ricettizi di grandi dimensioni ubicati a piano terra. All’interno, su entrambi i lati vi era una fila di tramezzi (generalmente lignei) che separavano le singole mangiatoie, colme di foraggio, sormontate da grossi anelli pendenti dalle pareti, ai quali si potevano aggiogare le cavalcature. Vi erano anche delle capienti mensole per riporvi la sella, la bardatura ed il carico. I viandanti meno esigenti avevano la possibilità di riposarsi trovando pronto un giaciglio a tergo delle loro animali da sella, potendo pagare tali servizi sia in denaro, sia in natura. Entrando ed uscendo dai locali era d’obbligo salutare con l’espressione “Viva Maria!”, come ci raccontavano i nostri padri. I viaggiatori potevano usufruire di una osteria con cucina e sala da pranzo, e di una taverna (con annessa cantina), mentre le mercanzie più cospicue potevano essere depositate temporaneamente negli appositi ampi magazzini (cfr. H. Bresc, G. Bresc-Bautier, Fondaco et taverne en la Sicile médiévale, in “Hommage à Geneviève Chevrier et Alain Geslan”, Centre d’Archèologie Medièvale de Strasbourg, Paris-Strasbourg, 1975, pp. 95-106). Per chi poteva permetterselo, vi erano degli ambienti sovrastanti, frequentemente ad ammezzato, con camere per dormire con letti costituiti da cataletti o trespoli (trispita, plurale di trispitu) di ferro, tavole e materassi imbottiti (di crine o di paglia, raramente di lana).
Solitamente i fondaci avevano anche un luogo di culto, spesso di modeste dimensioni, per offrire ai viaggiatori non solo degli alloggi specializzati per soddisfare i bisogni del corpo, ma anche quelli dello spirito.
La precitata transazione, stipulata in notar Guardalabene (del quale non rimane purtroppo nessun rogito originale), rammenta il concessionario delle terre incolte, con fondaco e pirrèra, nella timpa di S. Lucia, tale Giacomo Biruisca. Questo cognome ci ha molto incuriositi e siamo andati alla ricerca della sua origine ed abbiamo avuto la sorpresa di scoprire che Biruisca (varianti Viruisca e Birbisca) è di origine spagnola, derivando da Verovesca o Virovesca o Veroviscentium civitatis, antica capitale della tribù iberica degli Autrigoni, oggi Briviesca, comune spagnolo sito nella comunità autonoma di Castiglia e León, facente parte della comarca di Bureba (cfr. F. Sagredo Fernández, Briviesca antigua y medieval. De Virovesca a Briviesca. Datos para la historia de la Bureba, Industrias Graficas España, Madrid 1979, 268 pp.; D. Martínez-Chico, X. Ballester, La Tésera Celtibérica de Virovesca (Briviesca, Burgos), in: “Hispania Antiqua. Revista de Historia Antigua”, XLIII, 2019, pp. 1-15). Nella cittadina di Briviesca sorge il santuario (con annessa struttura ospedaliera) dedicato alla patrona Santa Casilda Vergine da Toledo (nobile di origine islamica, divenuta poi eremita cristiana, vissuta nell’XI sec.), che si festeggia il 9 aprile e viene invocata contro le emorragie femminili (cfr. A. Devillegas, Flos Sanctorum. Vida, y echos de Jesus-Christo, Dios y Señor Nuestro, y de todos los Santos, de que reza la Iglesia Catholica. Conforme al Breviario Romano, reformado por Decreto del Santo Concilio Tridentino. Junto con las Vidas de los Santos Proprios de España, Sellent, Barcelona 1787, VI+870+VI pp., in particolare: La vida de Santa Casilda, Virgen, pp. 278-279).
La famiglia del concessionario Giacomo Biruisca, era ancora esistente a Termini negli anni 40’ del Cinquecento. Un Antonio Biruisca (ms. birbisca), il 15 Aprile Ia Indizione 1543, fece battezzare dal sac. Gerardo Lo Presti, il figlio Nicola Giacomo (ms. colajacopu), alla presenza di Mastro Giacomo di Gentile, di Pietro Badami (ms. badamo) e Antonia La Provenza (cfr. AME, Battesimi, vol. 1, 1542-48, f. 22v n. 1). Lo stesso Antonio, il 10 Maggio seguente, assieme ad Antonino Indulsi, fu padrino di battesimo di Antonino figlio di Salvatore Sineni, avendo officiato il rito il sac. Vincenzo di Ferro (cfr. AME, Battesimi, vol. 1, 1542-48, f. 24r n. 6). negli anni 80’ del Cinquecento, si ritrova menzionato Mastro Mariano Viruisca, il quale dichiarava di rendere annualmente l’importo di tarì 15 su di un magazzino posto nel quartiere dei macelli (quarterj delle bucerie) come appariva dal contratto agli atti di notar Giovanni Tommaso Bertòlo (cfr. AME, Libro Antico di Conto a parte dal 1588 al 1605 inc[irc]a, fondo Cappella del SS. Sacramento, d’ora in poi CSS, ms. sec. XVI-XVII, ai segni Aγ5a, f. VI). Il censo era poi passato ad un certo Filippo Sanfratello. Il rogito in questione, in notar Bertòlo, datato 21 Ottobre XVa Indizione 1586, rammenta l’Honorabilis Mariano Biruisca, cittadino di Termini (civjs th[ermar]um), presente alla stipula, il quale ad istanza del sac. Salvo Salerno suo concittadino, procuratore della cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa di Termini, dichiarò di possedere un magazzino, già stalla (edificata dall’honorabilis Vincenzo di Naro, come risulta dalla ricognizione fatta il 4 Maggio VIIa Indizione 1549 in notar Leonardo Gentile di Termini), posto nel quartiere chiamato del postribolo (in quarterio postribulj), prospiciente con il macello del Monte di Pietà di Termini (dirimpetto la chiesa di S. Caterina Vergine e Martire Alessandrina) ed altri confini, con l’intermezzo della strada che conduceva alla chiesa di S. Giovanni Battista (cfr. AME, Libro II di Contratti e Scritture della Cappella del SS. Sacramento, fondo CSS, ai segni Aε1b f. 107). Di quest’ultima chiesa rimane la torre campanarie e pochi altri resti basali delle strutture portanti, oggi visibili nel perimetro della villa comunale Palmeri. Non è un caso che in questa area della cittadina fossero collocate alcune attività che direttamente o indirettamente si legavano alla necessità dello smaltimento di rifiuti che venivano sversati direttamente nel vallone della Fossola che proprio da questi luoghi traeva origine (per ulteriori approfondimenti, cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 176-183). Limitrofo al detto vallone dovette essere ubicato anche il postribolo, dal quale derivava il nome del quartiere citato nel rogito degli anni 80’ del Cinquecento, in maniera del tutto similare a quanto accadeva, anche fuori dal Regno di Sicilia, con un inscindibile binomio tra luoghi malfamati e corsi d’acqua.
Il rogito successivo relativo alle cave di Santa Lucia, datato 10 Novembre IIa Indizione 1498, è particolarmente importante perché menziona un precedente atto, stipulato un decennio prima, permettendoci di retrodatare l’attività estrattiva. Infatti, vi si legge che era stato redatto un contratto di subjugatione agli atti di notar Pietro Ugo di Termini, in data 31 Ottobre VIIa Indizione 1488, tra il fu Onofrio Gallina ed il nobile Giuliano de Bonafide, per la concessione in favore di quest’ultimo, di un fondaco collaterale ad una chiusa ed ad un pirrèra, site nel territorio di Termini e nella contrada di Santa Lucia, confinanti con il podere degli eredi di Antonio de Marino, via intermedia, e con la via pubblica per la quale si va alla fonte delle Terme, per la somma di onza 1 e tarì 9 annuali da versarsi a metà agosto. Minica vedova del detto Onofrio Gallina, con l’autorizzazione di notar Nicolò de Villaurea suo procuratore e mundualdo (dal latino medievale mundoaldus, che è dal germanico mundwalt ‘tutore’) ratificò detto contratto stipulato tra il defunto marito ed il detto Bonafide (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit. f. 413).
Vogliamo rimarcare la presenza nel rogito del cognome Villaurea appartenente al notaio Nicolò, tutore della vedova Gallina, sinora del tutto sconosciuto (non è infatti compreso tra quelli attivi nella cittadina imerese, dei quali esistono atti o si ha notizia da altre fonti archivistiche sinora consultate). Relativamente a questo cognome, non possiamo fare a meno di sospettare che da esso tragga origine il toponimo Villaurea, che designa l’omonima frazione del comune di Termini Imerese, che quindi sarebbe un antroponimo e non avrebbe affatto un significato «chiaramente gratulatorio» come sostenuto, senza per altro fornire alcun dato probante, dallo storico Santi Correnti (1924-2009) nel 1998 (cfr. S. Correnti, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità della Sicilia, Newton Compton, 1998, parte seconda, misteri e meraviglie della Sicilia comune per comune, v. Termini Imerese).
La famiglia termitana dei Bonafede, citata nel rogito, appare ascritta al n. 15 della Mastra de’ Nobili (catalogo delle casate nobiliari termitane che detenevano la privativa delle cariche pubbliche cittadine, amministrative e giudiziarie), riportata dal sac. Vincenzo Solìto, storico termitano, nella sua opera Termini Himerese Città della Sicilia posta in teatro etc. (tomo II, Bisagni, Messina 1671, pp. 154-157).
Il 13 Aprile XIIIa Indizione 1510, Domenico de Marco, oriundo dalla località di Podere Rosso nella campagna di Cosenza, e Giovanni de Consolo civis thermarum, vendettero 30 canne (m 62) della pirrèra vicino la chiesa di Santa Lucia per l’importo di tarì 2 ogni singola canna di roccia, al nobile Nicolò La Tegera (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit. ff. 419-22).
La famiglia dei La Tegèra, infatti, era una nobile casata termitana di origine spagnola (cfr. La Tejera, frazione del comune di Hermisende, alla frontiera con il Portogallo, nella parte nord-orientale della provincia di Zamora, comunità autonoma di Castilla y Leon, con la fortezza detta «castelo de Moros», cfr. I. Martín Viso, Poblamiento y estructuras sociales en el norte de la Península Ibérica. Siglos VI-XIII, Acta Salamanticensia, Estudio Históricos & Geográphicos, III, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 2000, 397 pp., in particolare p. 42).
Negli anni 30’ del Cinquecento è attestato che nell’area delle cave di S. Lucia avveniva la discarica abusiva di deiezioni organiche: sozzura (bructicza) e stallatico (fumeri, dal francese fumier, latino femarium, cfr. toponimo ligure Fumeri, frazione di Mignanego, Genova, cfr. G. D. Serra, Aspetti della toponomastica ligure. 8. Fumeri e Magnerri, in “Rivista di Studi Liguri”, XI, 1945, n. 1-3, Bordighera, 1946, pp. 57-59). Il proprietario, notar Nicola La Tegèra, per impedire questo scempio, si era appellato alle autorità comunali (giurati) che, fatte le opportune verifiche attraverso i Maestri di Piazza (ufficiali annonari), nell’anno indizione 1534-35, vietarono con apposito bando l’immondezzaio non autorizzato (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 129). La gestione dei rifiuti era affidata alla figura del “mastru di mundicza” (il dirigente della squadra di operatori ecologici), che doveva vigilare affinché il conferimento avvenisse solo ed esclusivamente nei siti prestabiliti, secondo quanto disposto dalle deliberazioni giuratorie.
Particolarmente interessante è un atto giuratorio del 13 Ottobre XIa Indizione 1537, che codificava l’ammontare delle retribuzioni secondo i vari lavori: dalla jurnata di lo czappaturi (giornaliero agricolo che lavorava dall’alba al tramonto, di suli a suli, dal primo settembre al 15 di marzo era retribuito con tarì 1 al giorno), all’artigiano che cuoceva mattoni di terracotta (canali seu chiramidi et maduna) sino all’estrazione della pietra. Relativamente a questa attività si distingueva quella proveniente dalle cave del Valàto sul lido (di la marina) da quelle di Santa Lucia (santa luchia), cioè dall’area delle pirrère predette (cfr. Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele città di Termini, d’ora in poi AMG, anno XIa indizione 1537-38, in Frammenti degli atti dei Giurati dal 1516 al 1549, d’ora in poi AMG frammenti 2, misc. mss. sec. XVI, BLT, ai segni III 10 i 3, s. n. p.).
Il 2 Giugno VIIIa Indizione 1565, fu stipulato un atto di contumacia tra Francischella de Bongiorno e Salonìa, vedova del fu Magnifico Barnaba Bongiorno, una degli eredi del fu Magnifico Giacomo de Vizzini (assieme a Don Antonio ed alla Magnifica Laura de Bongiorno), da una parte, e l’honorabilis Matteo Panzica (ms. pancica), locatario delle pirrèra, dall’altra. I detti Bongiorno pretendevano la restituzione della pirrera data in pigione (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., ff. 393-395). La casata dei Salonìa e quella dei Vizzini erano strettamente legate sia da vincoli di parentela, sia nella amministrazione della chiesa di Santa Lucia e sue pertinenze. Il Magnifico Francesco Salonìa, infatti, aveva sposato la Magnifica Laura (Laurea) de Vizini figlia del Magnifico Giacomo. Mentre da un atto del 13 gennaio XIIa Indizione 1569, si apprende che il sac. Fabio de Salonìa era beneficiale della chiesa di S. Lucia di Termini, mentre suo procuratore era il sac. Paolo de Vizzini, vicario della città (cfr. Archivio di Stato di Palermo sezione di Termini Imerese, d’ora in poi ASPT, fondo notai defunti, notar Michele La Magione, vol. 12984 ff. 116v.-117r.).
Il 30 Maggio IXa Indizione 1566, il nobile Giovanni Vincenzo La Tegera, per sé e per conto di Vincenzo La Gua e di Matteo Panzica, depositò l’importo di tarì 10, a titolo di pagamento, nei confronti di Laura (ms. lauria) Bongiorno (ms. bonjorno) e Salonìa, per aver risanato «certi pirreri et terri in la timpa di sancta lucia di la cita [sic, città] di therminj ad effectu di e[ss]erilj restituita la po[ssessio]ne di detti pirrerj et t[errito]rij» (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., ff. 399 e segg.).
Il 14 Dicembre XIIa Indizione 1568, Mastro Matteo Panzica (ms. pancica) era conduttore di tre pirrère site nella Timpa di Santa Lucia, come attestano gli atti della curia civile di Termini (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., ff. 390).
Il 10 Maggio XVa Indizione 1571, agli atti di notar Luigi Ciaccio di Termini, il nobile Giovanni Vincenzo La Tegera, della città di Palermo, sublocò a Mastro Matteo Pansica una pirrèra di canne quattro (m 8,26) di lunghezza e canne sette (m 14,45) di larghezza, sita nella timpa di Santa Lucia (in timpe Sancte Lucie), per la somma di onza 1 e tarì 6 annuali (cfr. Volume I di scritture diverse, ms. cit., f. 401).
Il 25 Agosto XVa Indizione 1571, come attestavano agli atti della curia civile di Termini, Mastro Matteo Panzica (ms. panczica) continuava ad essere il conduttore di tre pirrère, comprensive di terreni, site nella Timpa di Santa Lucia, confinanti con il muro vetere di detta chiesa, in direzione del dammuso (ambiente coperto di volta) sito nella pubblica strada, dove presentemente era edificato il fondaco di Michele Bertuccio, nonché verso il tenimento di case (abitazione pluricellulare) del fu Alessandro Capannoli (ms. accapanolj) ed il fondaco e terre di Mastro Pietro Lo Longo: trium perrieriarum mattheo panczica ut conductorj perreriarum sitarum in th[errito]rio ditte civitatis in Timpa s[anc]te lucie cum certis suis terris in eius existentibus confinantibus cum muro vetere ditte ecclesie sancte lucie versus dammusum in via publica ubj ad presens est edificatum quoddam fundacum michaelis bartuchio ex ditto muro confinantium cum muro versus tenimentum domorum q[uon]dam m[agistr]j alexandri accapanolj et cum fundaco et terris hon[orabilis] m[agist]ri petri lo longo (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., f. 388r).
Da notare che il fu Alessandro Capannoli apparteneva ad una antica famiglia pisana che ebbe proprietà terriere e ville nell’omonimo centro abitato (oggi comune in provincia di Pisa) ed ebbe il seguente stemma gentilizio: «D’argento, alla banda d’azzurro, caricata di una stella di otto raggi d’oro» (Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, 3 voll., Pisa 1886-1890, I, 1886, p. 200; M. A. Giusti, Le ville della Valdera, Pacini, Pisa 1995, 144 pp., in particolare, pp. 122-123).
Il 27 Agosto XVa Indizione 1571, sempre agli atti di detto notar Ciaccio, il Magnifico Giovanni Vincenzo La Tegera locò all’honorabilis Pietro de Beatrice (de Beatricio) di Termini una pirrèra confinante con quella di Mastro Matteo Panzica (ms. pancica) per la durata di un anno, al prezzo di onze 4 (cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., f. 403). Della famiglia de Beatrice, gestori di cave, abbiamo rinvenuto tracce documentarie già negli anni 40’ del Cinquecento. Infatti, il 7 Giugno Va Indizione 1545, il detto Pietro di Beatrice (ms. dj viatrichi), assieme a Mastro Vincenzo Conocchia (ms. curnocha) ed a Domenica La Grigola, era stato presente al battesimo di Giovannella figlia di Francesco Mascellino (ms. maxilljno), officiato dal sac. Filippo Guagenti (cfr. AME, Battesimi, vol. 1, 1542-48, f. 62v n. 7). Congiunto del detto Pietro, doveva essere Ascanio di Beatrice (ms. scanjo dj vjatrichi) che, il 24 Ottobre VI indizione 1547, assieme a Sebastiano Corso e Domenica La Grigola, interveniva come padrino al battesimo di Laura (ms. lauria) figlia del Magnifico Simone Solìto, soprannominato il povero (ms. lo povjro), celebrato dal sac. Vincenzo Pirrello (cfr. AME, Battesimi, vol. 1, 1542-48, f. 108v n. 2). Visto che Ascanio di Beatrice, era chiamato in siciliano Scanio, non si può fare a meno di sospettare che possa aver dato origine al toponimo Cozzo di Scanio, in contrada Patara (oggi Santa Marina), proprio dove esistette l’omonima cava di pietra, della quale persistono evidenze ancora tangibili. Da notare che il padre di Laura Solìto, il Magnifico Simone, indicato con il nomignolo di povero, dovette appartenere ad un ramo dell’omonima casata nobiliare, ma caduto in bassa fortuna. E dire che nel 1573, un omonimo Simone Solìto ospitò un Asburgo, il Serenissimo Don Giovanni d’Austria (1547-1578), figlio naturale di Carlo V e di Barbara Blomberg (1527– 1597), nel suo palazzo nobiliare (successivamente appartenuto agli Inguaggiato), tuttora esistente, sito all’angolo tra le attuali vie Inguaggiato e Garibaldi (cfr. V. Solito, Termini Himerese…cit., II, p. 105; A. Inguaggiato, Considerazioni filosofiche, e politiche sullo stato civile cavate principalmente dall’istoria dell’antica, e nuova Imera, Barravecchia, Palermo 1814, 52 pp., in particolare, p. 105), dove proponiamo di fare apporre un’apposita iscrizione commemorativa dell’evento.
Il 21 febbraio IIIa Indizione 1575, il Magnifico Giovanni Vincenzo La Tegèra cittadino di Palermo, amministratore dei beni dei suoi figli, affittò per la durata di 16 mesi previo pagamento della somma di onze 3, al costruttore (fabricator) Domenico de Michele di Termini, una pirrèra ubicata sempre sotto la timpa della chiesa di S. Lucia, che un tempo detenevano Pietro e Francesco de Beatrice, con il divieto assoluto di subaffitto (cfr. ASPT, fondo notai defunti, notar Matteo de Michele, vol. 13022, 1575-76 ff. 485r-486r). Il de Michele, era libero di riversare gli scarti dell’attività estrattiva in una apposita area di risulta, che era stata già utilizzata dai precedenti concessionari, tanto da dare origine ad un vero e proprio monticello di terra (monzellum terre). Il de Michele, inoltre, ebbe l’autorizzazione di potere conservare in loco tutta l’attrezzatura necessaria, costituita principalmente da picconi (pichi) e zappe (zappi) di pirrèra, per fendere la roccia, e di utilizzare solamente quattro cavalcature (bestij). Infine, egli poteva impiegare dei maestri scalpellini nel caso in cui, durante l’attività estrattiva, si fosse riscontrata la presenza nella roccia di parti sporgenti, più resistenti all’erosione, essendo più tenaci (si in la petra ci fussi qualchi denti grossu), con tutta probabilità, alludendo all’esistenza di liste e noduli di selce.
Da notare che il Nobile Giovanni Vincenzo La Tegera, figlio del fu Nobile Andrea La Tegera e di Donna Aloisia della città di Termini, sposò la Nobile Lucrezia de Carasco figlia di Amico e di donna Antonella, della città di Palermo (cfr. contratto matrimoniale in data 18 luglio VIa Indizione 1548, nel quale la futura sposa aveva 10 anni, cfr. AME, cfr. Volume I di scritture diverse ms. cit., f. 481 e segg.). I Carasco erano una casata nobiliare di origine ligure (del resto, Carasco è il nome di un comune in provincia di Genova, sito in prossimità dell’affluenza del torrente Sturla nel Lavagna).
Sin dal 1553, sotto il viceré Juan (Giovanni) de Vega (1547-1557), si iniziarono ad appaltare le nuove opere di fortificazione ed infatti Mastro Domenico di Michele, il 2 Aprile di detto anno XIa Indizione, si aggiudicò i lavori di costruzione delle nuove mura di cinta da edificarsi nel tratto compreso tra la Barratina e la Porta di Messina (cfr. ASPT, fondo notai defunti, notar Sebastiano Bertòlo, vol. 12905, 1551-52 ff. 247v-249). La realizzazione delle mura lungo il litorale, nonostante il promettente avvio delle opere andò molto a rilento a causa delle pressioni esercitate dai facoltosi proprietari di alcuni magazzini da abbattere perché allineati lungo il tragitto di progetto, tanto che solo nel 1570-71 si procedette agli espropri ed alle demolizioni forzate e nel successivo quinquennio furono elevate le strutture bastionate sul lido completate soltanto negli anni 80’ del Cinquecento (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 56-58). Non si può fare a meno, quindi, di ravvisare un nesso tra la concessione della pirrèra al di Michele e la riapertura dei lavori già precedentemente presi in appalto dal fabricator e che vennero attuati proprio in quel torno di tempo.
Del resto, la pirrèra appaltata dal di Michele, sita nella zona di Santa Lucia, usufruiva di una collocazione estremamente favorevole per l’esecuzione dei lavori di costruzione della porta di Messina (nell’attuale Piazza della Vittoria), nonché delle relative cortine murarie e strutture bastionate, visto che per la relativa vicinanza venivano abbattuti notevolmente i costi di trasporto, rispetto ad altri siti estrattivi (ad es. la cava di Patara nell’attuale contrada S. Marina), risparmiando sugli importi di spesa dovuti ai conduttori di bestie da soma per il trasporto dei materiali lapidei sino ai cantieri.
Nel 1581, quella che negli anni 30’ del Cinquecento era stata una discarica abusiva, dopo quasi una cinquantina d’anni, visto che non era stato possibile estirparla, gli amministratori preferirono istituzionalizzarla (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 129).
Terminate le nuove mura, dovette iniziare il rapido declino dell’attività estrattiva. La traccia materiale dell’esistenza in situ delle cave è rimasta soltanto nel titulus della chiesetta ad aula detta del SS. Crocifisso del Fervore o delle Pirrère (in siciliano ‘u Crucifisseddu ri Pirréri), ubicata nell’attuale Via Giuseppe Coppola, di pertinenza dei cavatori, tanto da essere edificata utilizzando conci e spezzoni calcarei provenienti dall’area estrattiva. Le cave, dopo la loro dismissione furono parzialmente riempite con gli scarti di lavorazione, impiantandovi orti e giardini. Nel corso del Seicento, l’area fu progressivamente suddivisa in lotti edificabili dando origine ad un rione in via di espansione, soprattutto lungo la direttrice costituita dall’attuale Via Palazzo Cirillo. Tale quartiere, detto di S. Lucia alli pirrèri (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 67), è menzionato in un rogito del 10 Marzo Xa Indizione 1627 in notar Sebastiano Bertòlo di Termini Imerese, relativo ad un censo pagato da una certa Filippo Crescione sulla sua casa solerata (raddoppiata da un solaio). Nel corso del Settecento si andarono progressivamente saturando le aree rimaste libere, ubicate sotto la timpa di S. Lucia.
Queste sono le vicissitudini delle cave di S. Lucia a Termini Imerese che fiorirono tra Quattrocento e Cinquecento, emblematico esempio della conoscenza approfondita che, nel passato, le maestranze locali possedevano del territorio, dei materiali e relative tecniche di estrazione e lavorazione, nonché delle tecniche di messa in opera per realizzare il costruito (nello specifico litocostruito) comprendente edifici del medioevo, del rinascimento e dell’età moderna. Tutto ciò riveste una particolare rilevanza per la corretta gestione e conservazione dei beni architettonici in modo che il restauro di essi possa essere realizzato non con materiali lapidei esteticamente (cromaticamente) simili a quelli d’origine, bensì attraverso opportune indagini geologiche (litostratigrafiche, mineralogiche, isotopiche e geochimiche), ma anche archivistiche, che permettano l’identificazione del sito estrattivo originale, in modo da poter reperire esattamente la medesima pietra estratta nel passato ed utilizzata per realizzare quel costruito e non altrimenti. La proprietà e la gestione delle cave, già nel passato, detenevano entrambe una notevole importanza sociale ed economica, tanto da essere particolarmente ambite e comportavano spesso un intreccio di interessi e di problematiche che andrebbero studiate nelle loro varie sfaccettature. Le cave antiche, a nostro avviso, vanno studiate con un approccio ampiamente interdisciplinare e multidisciplinare, dove in sinergia possano confluire i diversi approcci di indagine, ed interagire mutuamente. Questo nostro studio, con il suo approccio basato sull’analisi incrociata di dati storici, linguistici, geologici e genealogici, ha permesso di approfondire opportunamente la ricerca, migliorando notevolmente la qualità dei risultati, in modo da ottenere un quadro più articolato ed ampio. I siti storici di cava, come quelli di Termini Imerese costituiscono un grande patrimonio geologico, geomorfologico, storico e culturale che merita di essere riscoperto e valorizzato opportunamente attraverso la creazione di ecomusei e/o promuovendo la realizzazione di appositi percorsi ed attività didattiche e divulgative da sviluppare anche attraverso l’utilizzo di opportuni strumenti mediatici di comunicazione e di fruizione in rete ed attraverso la realizzazione di specifici supporti multimediali.
Sin dal 2015-16, abbiamo portato avanti una linea di ricerca rivolta allo studio di materiali lapidei presenti a Termini Imerese, sia di origine locale, sia di provenienza extra-insulare (nello specifico dalla Liguria). Non a caso, la Sicilia e la Liguria, costituiscono delle regioni particolarmente emblematiche della notevole e singolare geodiversità del territorio italiano.
La prima ricerca (2015-2016) ha riguardato l’importazione seicentesca, nella Sicilia settentrionale, del calcare nero con vene dorate detto “Portoro”, proveniente da Portovenere–Palmaria, La Spezia, in Liguria, utilizzato come pregiato materiale lapideo ornamentale grazie alla sua notevole valenza estetica [cfr. P. Bova, A. Contino, L’importazione e l’uso del Nero e giallo di Portovenere o Portoro nella Sicilia settentrionale (XVII sec.). In: Marino G., Termotto R., a cura di, “Arte e Storia delle Madonie. Studi per Nico Marino”, d’ora in poi ASM, voll. IV-V, Va edizione, atti della quarta e quinta edizione Cefalù, Palermo, e Castelbuono, Palermo, 18-19 ottobre 2014; Gibilmanna, Cefalù, 17 ottobre 2015, Associazione Culturale “Nico Marino” Cefalù, Ottobre 2016, pp. 391-418]. La seconda ricerca, ha avuto come argomento l’importazione, nel Termitano e nelle Madonie, dell’ardesia ligure o “Pietra di Lavagna”, proveniente dalla Val Fontanabuona (GE) – Valle Argentina (IM), tra Quattrocento e Settecento [cfr. P. Bova, A. Contino, L’importazione e l’uso dell’ardesia ligure (Pietra di Lavagna) nella Sicilia centro-settentrionale (XV-XVIII secolo). In: Marino G., Termotto R., a cura di, ASM, VIa edizione, Castelbuono, Palermo, 22 ottobre 2016, Associazione Culturale “Nico Marino”, Cefalù, Novembre 2018, pp. 101-124].
Il terzo e più recente contributo di ricerca (in collaborazione con Giuseppe Esposito, 2016-2018) ha avuto come tema d’indagine l’estrazione del materiale lapideo, prettamente termitano, dei calcari cretacei noti commercialmente con il nome “Pietra bianca di Termini”, provenienti dalle cave del Balàto, poste sul lido ai piedi della rocca del Castello, con cui fu realizzato il suggestivo portale monumentale seicentesco del palazzo senatorio di Termini Imerese [cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle “brecce calcaree a rudiste” (Cretaceo sommitale) in Termini Imerese (Palermo) nei sec. XVII-XX. In: Marino G., Termotto R., a cura di, ASM, voll. VII-VIII, VIIa e VIIa edizione, Cefalù, Palermo, 4 novembre 2017 e 3 dicembre 2018, Associazione Culturale “Nico Marino”, Dicembre 2019, pp. 119-141].
Il filo conduttore di tutte queste ricerche, è l’idea di poter creare dei veri e propri percorsi urbani ed extraurbani che possano alimentare un nuovo approccio turistico che non si limiti soltanto alla conoscenza degli aspetti storici, artistici ed architettonici dei manufatti, ma anche della loro componente litologica. Molte chiese di Termini Imerese per la loro ricchezza decorativa, legata all’utilizzo di varie litologie, costituiscono dei veri e propri “musei a cielo aperto”, emblematici della geodiversità del territorio imerese, spesso arricchiti ulteriormente dalla presenza di materiali lapidei provenienti da altre aree siciliane e, addirittura, dalla Liguria.
Patrizia Bova e Antonio Contino
Chiesetta ad aula detta del SS. Crocifisso delle Pirrère
Ringraziamenti: vogliamo esprimere la nostra più sincera riconoscenza, per il supporto logistico nelle nostre ricerche, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, nonché della Biblioteca Nazionale di Palermo. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci consentito di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.