Via Monachelle ed il contiguo quartiere hanno una affascinante storia che abbiamo potuto riscoprire e ricostruire,
attraverso un approccio interdisciplinare e multidisciplinare che lega la geomorfologia urbana con lo studio dell’origine delle denominazioni stradali (odonomastica) e, nel caso specifico, alla geomitologia.
In certi contesti, negli studi di geomorfologia urbana, risulta molto discriminante il contributo fornito dalla toponomìa, o meglio, dall’odonimìa cittadina, cioè dall’odonomastica [dal greco hodós (ὁδός) ‘via’, ‘strada’, e onomastikòs, ‘atto a denominare’, cfr. C. A. Mastrelli, a cura di, Odonomastica. Criteri e normative sulle denominazioni stradali. Atti del convegno, Trento, 25 settembre 2002, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Soprintendenza beni librari e archivistici, Trento 2005, 220 pp.]. Recentissimamente è invece sorto il termine anglosassone streetonomics, un modo alternativo di quantificare gli indicatori culturali utilizzando proprio i nomi delle strade [cfr. M. Bancilhon, M. Constantinides, E. P. Bogucka, L. M. Aiello, D. Quercia, Streetonomics: Quantifying culture using street names. “PLoS ONE” 16(6), 2021, https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0252869].
Applicando a Termini Imerese la classificazione proposta da Sergio Raffaelli (Volano, 7 Gennaio 1934 – Roma, 6 Luglio 2010), storico della lingua italiana e del cinema (cfr. S. Raffaelli, I nomi delle vie, in M. Isnenghi, a cura di, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 216-272, in particolare p. 218), la nostra Via Monachelle è da annoverare tra uno degli odonimi endogeni, essendo uno dei nomi tradizionali legati al passato della nostra città.
I nomi delle strade, come sottolineato dal grande filologo tedesco Gerard Rohlfs (Berlino, 14 Luglio 1892 – Tubinga, 12 Settembre 1986), sono uno strumento importante per leggere e comprendere la realtà urbana non solo attuale, ma anche quella del passato, dandoci una vivace testimonianza degli aspetti ambientali (geologici, geomorfologici, idrologici, botanici, faunistici etc.), culturali e storici delle comunità italiane e, se opportunamente decrittati, possono rivelarci i loro affascinanti e talvolta impensabili segreti (cfr. G. Rohlfs, Nomi di strade in Italia e i loro segreti, in Idem, Studi e ricerche su lingua e dialetti in Italia, Sansoni, Firenze, 1972, pp, 90-121).
Relativamente alla odonomastica di Termini Imerese, recentissimo è il contributo di Enzo Giunta che ha studiato la storia e l’origine delle denominazioni di strade, piazze, viali e vicoli (cfr. E. Giunta, Le strade di Termini Imerese tra storia e curiosità, prefazione di G. Catanzaro, Lo Bono, Termini Imerese 2021, 176 pp.).
Focalizzando sulla denominazione Monachella/Monachelle, la nostra indagine ha messo in evidenza che l’odonimo non è affatto una prerogativa esclusiva di Termini Imerese, ma appare presente, sia pure a macchia di leopardo, in alcuni comuni centro-meridionali dal Lazio alla Sicilia.
Nel Lazio, precisamente a Pomezia (Roma) c’è la Via delle Monachelle Vecchia, ed il corso d’acqua tiberino, a regime torrentizio, detto Fosso o Rio delle Monachelle (cfr. A. Betocchi, Del fiume Tevere, in Monografia della città di Roma e della Campagna Romana presentata all’Esposizione universale di Parigi del 1878, Elzeviriana, parte prima, Roma 1878, pp. 197-264, in particolare, p. 207). In Puglia, a Trani c’è la Strada Vicinale Monachelle con la contrada che porta il medesimo nome. In Calabria, abbiamo la Via Monachelle di Bisignano (Cosenza), abitato quest’ultimo posto in posizione elevata (376 m s.l.m.) al centro della Valle del Crati.
In Sicilia, nel Palermitano, oltre a Termini Imerese, abbiamo un’altra Via Monachelle a Cinisi; Via Monachella ad Altofonte (fino al 1930 Parco, cfr. A. Contino, G. Cusimano, P. Bova, A. Gatto, La valle dell’Oreto. Aspetti geologico-geomorfologici, idrogeologici e vegetazionali di un bacino della Sicilia nord-occidentale, Regione Siciliana, Azienda Regionale Foreste Demaniali, Collana Sicilia Foreste n. 46, Dipartimento di Geologia e Geodesia dell’Università degli Studi di Palermo, Accademia Mediterranea Euracea di Scienze, Lettere e Arti di Termini Imerese, Sarcuto, Agrigento 2010, 216 pp., in particolare, p. 27 e fig. 4). Nel Messinese, Via Monachelle è a Capri Leone nei Nebrodi; Via Monachella a Saponara, sulle pendici del versante settentrionale dei Peloritani, nella frazione di San Pietro (quest’ultima soggetta all’esondazione della fiumara già dal 13 Novembre 1855, sino all’evento più recente del 22 Novembre 2011). Ancora nell’Ennese, è presente Via Monachella a Leonforte; mentre nel Ragusano, abbiamo la contrada Monachella. Infine, due corsi d’acqua torrentizi: Vallone Mostringiano-Monachella a Priolo Gargallo (Siracusa) e la Valle della Monachella tra Niscemi e Gela nel Nisseno.
Molte di queste denominazioni, quindi, appaiono chiaramente accomunate dal fatto di essere legate all’acqua e, in particolare, a dei corsi idrici che esibiscono un regime torrentizio, quindi, con una origine francamente idronimica.
Del resto, ciò non deve meravigliare perché anche la Via Monachelle di Termini Imerese, si lega alla presenza di un antico corso d’acqua, poiché questa strada scavalca trasversalmente quella che, sino alla prima metà del Cinquecento, era periferia extraurbana e che costituiva la zona di testata di un torrente (affluente in destra idrografica del S. Leonardo) che, grossomodo defluiva tra le attuali vie Giacinto Lo Faso e Lo Monaco, immettendosi poi nel Vallone di Conca di Lauro. Quest’ultimo, scorreva all’incirca lungo le attuali vie Mazziere e Palatucci ed è ancor oggi visibile più a valle, a tergo della Via dei Mulinelli, incassato nei depositi alluvionali terrazzati (questi ultimi, attribuibili al Pleistocene medio-superiore, sono posti a varie altezze sul fondovalle attuale, con dislivelli anche di molte decine di metri, formatisi a causa dell’interazione fra il sollevamento tettonico dell’area e le fluttuazioni climatiche tardo-quaternarie) sino allo sbocco nella piana del S. Leonardo. Nel punto di sbocco, l’elevato carico di sedimenti mobilitati, lungo i versanti od in alveo, per fenomeni gravitativi e/o di trasporto torrentizio, unito al brusco cambiamento del gradiente topografico ed all’espansione della corrente, ha originato la deposizione di un conoide misto di una certa ampiezza (cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centro-settentrionale), Giambra, Terme Vigliatore, Messina, p. 233, fig. 40). Si tratta di un corpo sedimentario con il caratteristico andamento morfologico a planimetria convessa (a ventaglio), in cui si distingue un apice (il punto più alto da cui trae origine e si irradia) ed un fronte (la parte anteriore e più avanzata). L’attività deposizionale del conoide, nel corso dei secoli, deve essere stata prevalentemente intermittente, in relazione sia all’andamento annuo delle portate torrentizie, sia al notevole trasporto solido, in occasione di eventi piovosi eccezionali, essendo strettamente connessa all’intensità e alla frequenza dei processi che sono avvenuti all’interno del bacino torrentizio. Siamo in presenza di un’area particolarmente delicata per l’esposizione al rischio delle strutture ed infrastrutture che insistono su di essa, visto che possono ripetersi nel futuro quei processi che in passato hanno originato il conoide misto (in particolare, processi fluviali rapidi e le colate di detrito o di fango) e che possono essere affetti da recrudescenza (cfr. W.B. Bull, Alluvial fans, “Journal of Geology”, 16, 1968, pp. 101-106; Idem, The alluvial fan environment, “Progress in Physical Geography”, 1, 1977, pp. 222–270; T.H. Nilsen, Alluvial fan deposits, in: P. A. Scholle. D. Spearing, eds., Sandstone depositional environments, Tulsa, Oklahoma, “American Association of Petroleum Geologists”, Memoir 31, 1982, pp. 49-86; B. Zarn, T.R.H. Davies, The significance of processes on alluvial fans to hazard assessment. “Zeitschrift für Geomorphologie”, N. F., 38, 1994, pp. 487-500).
Ancora negli anni Settanta del Quattrocento, il torrente prendeva il nome dalla contrada detta di Conca di Lauro (Conchara di Lauru, o Caldara di Lauro o Concha di Lauru o, più semplicemente, La Concha). E’ plausibile postulare una derivazione della denominazione della contrada e dell’avvallamento torrentizio, proprio dalla presenza di alloro (Laurus nobilis Linné), pianta sempreverde, tipicamente mediterranea, dal fogliame folto, durevole e molto coprente, in grado di resistere anche a prolungati periodi di siccità.
Sul crinale che fungeva da spartiacque torrentizio, decorreva l’asse stradale (attuale Via Vittorio Amedeo) che, proseguendo in direzione di Caccamo, continuava alla volta di Agrigento. Questa preistorica/protostorica via di crinale, originatasi in modo del tutto spontaneo, iniziava dalla Rocca del Castello di Termini, elemento cardine ubicato lungo il displuvio, snodandosi dalla piazza principale lungo le attuali vie Mazzini (nel medioevo la Ruga delli Curviseri, per le botteghe dei calzolai e la chiesa dei SS. Crispino e Crispiniano, di padronato di questi artigiani) e Vittorio Amedeo (Ruga Girgenti), sino alla contrata canalium (per la presenza della condotta dell’antico acquedotto civico, odierne Piazza S. Antonio e Via Falcone-Borsellino), proseguendo poi in direzione di Caccamo. A breve distanza da questo asse viario, nel medioevo esistette la chiesa di S. Andrea Apostolo (con annesso hospitale), di patronato della comunità degli Amalfitani ancora nel Trecento, poi ceduta ai pescatori di Termini Alta dal Quattrocento (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, la città medievale e gli amalfitani tra il XIII ed il XVI secolo, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Sabato, 19 Ottobre 2019, su questa testata giornalistica on-line).
La contigua area torrentizia di Conca di Lauro, sul versante del S. Leonardo, dava poi il nome anche ad una vasta proprietà terriera, di pertinenza della casata nobiliare termitana dei Bruno, i quali ne donarono una certa estensione ai francescani minori osservanti per erigere, sulla spianata più elevata, la loro chiesa e convento di S. Maria di Gesù-La Gancia (cfr. F. Gonzaga, De origine Seraphicæ Religionis Fra[n]ciscanæ ejusq[u]e progressibus, de Regularis Observa[n]ciæ institutione, forma administrationis ac legibus, admirabiliq[u]e eius propagatione, Basæ, Romæ, 1587, VI+1365+XXI pp., in particolare p. 391). Il grande podere diede origine alla denominazione Gancia (dal siciliano gràngia o grància, a sua volta dal francese antico granche o grangne/grangnhe o graigne, donde il francese moderno grange, ‘granaio’, ed il castigliano granja ‘fattoria’, dei quali si postula l’origine da un ipotetico lemma popolare latino *granĭca, derivato dal classico granum ‘grano’, cfr. F. Godefroy, Dictionnaire de l’ancienne langue française et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle, voll. IX, Vieweg, Paris 1881-1902, IV, p. 335; M. David Roy, Les granges monastiques en France aux XIIe et XIIIe siècles, “Archéologia”, 1973, 58, pp. 52-62; J. Dubois, Grangia, in G. Pelliccia, G. Rocca, a cura di, Dizionario degli Istituti di Perfezione, 10 voll., 1974-2003, IV, Paoline, Roma 1977, coll. 1391-1402; A. Rey, Dictionnaire historique de la langue française, 2 voll., I, Le Robert, Paris 1992, p. 910; D. Panfili. Domus, grangia, honor et les autres. Désigner les pôles cisterciens en Languedoc et Gascogne orientale (1130–1220), “Le Moyen Âge” 2017/2, tome CXXIII, pp. 311-338).
I frati minori osservanti, con francescana semplicità realizzarono un vasto giardino (i cui terrazzamenti sono ancora in parte riconoscibili all’interno del tessuto urbano), nonché un herbarium di piante medicinali. In ambito francescano, il giardino diveniva spunto di lode del del Creatore, autore dell’Universo e, nello specifico, di «sora nostra matre Terra», la quale «produce diversi frutti con coloriti fiori et herba». Perciò S. Francesco d’Assisi, alla fine del Cantico delle Creature (c. 1224) ci esorta: «Laudate e benedicete mi’ Signore et rengraziate e serviateli cum grande humilitate», perché ci ha donato la grande biodiversità del Creato di cui facciamo parte.
Il giardino in questione, si estendeva sino alla parte più torrentizia del Vallonaccio, il maggiore dei corsi d’acqua che limitava nettamente la città romana e medievale, che decorreva grossomodo dove oggi si snodano sia gran parte della Via Roma, sia la Via Vallonaccio (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 160-182). L’area a verde includeva grande parte del versante ubicato in destra idrografica, cioè quasi tutta l’area oggi occupata dalle vie Ugdulena e Castro, mentre attualmente rimangono solo isolati frammenti, essendo stata l’area progressivamente saturata dalle abitazioni (quartiere della Selva di S. Maria di Gesù).
I Bruno, in beneficio della loro consistente donazione per l’erigendo convento, ottennero il patronato del primitivo altare maggiore della piccola chiesa di S. Maria di Gesù, avente l’ingresso a NE, con il diritto di adornarlo convenientemente. Nel 1484, i Bruno, ed i Ferro loro congiunti, per detta chiesetta commissionarono un arco trionfale, in “pietra di Termini”, allo scultore Giorgio de Milano [cfr. P. Bova, A. Contino, G. Esposito, L’estrazione e l’uso delle “brecce calcaree a rudiste” (Cretaceo sommitale) in Termini Imerese (Palermo) nei sec. XVII-XX, in G. Marino, R. Termotto, a cura di, Arte e Storia delle Madonie Studi per Nico Marino, VIIa-VIIIa edizione, Cefalù (Palermo) — Sala delle Capriate, Palazzo del Comune, Piazza Duomo, Sabato 4 novembre 2017 e Lunedì 3 dicembre 2018, Associazione Culturale “Nico Marino”, Cefalù, Dicembre 2019, pp. 119-141, in particolare, p. 123).
Successivamente, la chiesa di S. Maria di Gesù fu ampliata e riorientata con l’attuale entrata a NO, ed ornata di altre cappelle (sia nobiliari, sia della Natione Genuense, cioè della comunità ligure della cittadina imerese). L’antica chiesetta fu trasformata in una cappella che incorporò l’originario altare, sulla quale mantennero il patronato i nobili Bruno, che si estinsero poi nella casata dei Solìto (cfr. V. Solito, Termini Himerese, 2 tt., 1669-71, II, Bisagni, Messina 1671, pp. 93-94; I. De Michele, Di due statue del secolo XV in S. Maria di Gesù. Lettera ad Agostino Gallo, in “Nuove Effemeridi Siciliane di Scienze, Lettere e Arti”, II, dispensa III, Giugno, Giornale di Sicilia, Palermo 1870, pp. 135-137).
Il toponimo Conca di Lauro, nel Seicento fu soppiantato da quello attuale di Mazziere, per esservi stata la proprietà terriera di uno dei mazzieri che, togati di damasco e reggenti una mazza d’argento, scortavano gli amministratori pubblici (giurati) nelle cerimonie ufficiali (cfr. A. Contino, Aqua Himerae...cit., p. 204).
La costruzione della nuova cinta muraria, decisa durante il regno di Carlo V d’Asburgo (1516-1556), nel quadro del rafforzamento delle fortificazioni delle città costiere siciliane, determinò l’incorporazione nel novello perimetro urbano anche della zona di testata del torrente Conca di Lauro (che nasceva dall’attuale Via Garibaldi, l’antica Ruga Barlachiorum detta anche la Ruga, cioè la strada per antonomasia), con conseguente alterazione del deflusso idrico superficiale (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 57). Lì, a tergo della nuova cinta muraria, che decorreva parallelamente all’attuale Via Monachelle, si stendeva una ampia ed amena area recintata che ospitava diversi giardini. Uno di questi, di proprietà della nobile famiglia termitana dei Romano, detentori della Regia Secrezia, era impiantato sul declivio, comprendendo una vasca d’irrigazione (siciliano gebbia dall’arabo ğabiyah ‘ricettacolo idrico’ che, a sua volta, si riconnette con la forma letteraria ğubb ‘serbatoio’, donde la denominazione dell’attuale Via Gebbia Vecchia), alimentata da una cubba (torre piezometrica) dell’acquedotto comunale. Partendo dall’attuale Via Caracciolo, una tortuosa stradella si snodava lungo l’odierna Piazza Girolamo Comella (la cui basolatura curiosamente ricalca l’andamento dell’antico percorso), sino alla gebbia. Tutto ciò è chiaramente visibile in una pianta molto schematica, sinora inedita, che si conserva presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese (d’ora in poi AME) nella Miscellanea del fondo Cappella di San Filippo Neri della Maggior Chiesa di patronato della famiglia Romano baroni della Regia Secrezia.
Di quest’ultima cappella, il sacerdote termitano don Bernardino Romano (1566-1644), figlio del Magnifico Antonino Romano (di Bernardino senior), Regio Segreto e cittadino di Termini, e della Magnifica Antoninella Faso della Terra di Caccamo, ebbe concesso il patronato il giorno 8 Gennaio XVa Indizione 1632 (cfr. Archivio di Stato di Palermo Sezione di Termini Imerese, d’ora in poi ASPT, notai defunti, Girolamo di Martino di Termini, minute, vol. 13154, 1640-44, atto del 30 Aprile Xa Indizione 1642). Il sac. Bernardino ebbe come fratelli e sorelle: Paolo, Livia (m. 7 Dicembre XIV Indizione 1631, sepolta nella Maggior Chiesa, cfr. AME, Defunti, vol. 91 f. 117r.), che sposò Michelangelo Marino, di famiglia patrizia termitana, ma di origine ligure; Gerolamo (n. 1570), poi entrato nell’ordine dei padri predicatori di S. Domenico; Petronilla (n. 1574) e Simone (ms. Simonte, n. 1580).
Il sac. Romano stipulò tre testamenti: il primo, in favore della sorella Livia, redatto il 24 Ottobre XIV Indizione 1631, agli atti di notar Pietro Strambella di Termini. In tale testamento, il primo bene immobile per importanza era la casa grande nella Terravecchia sotto il Castello, sul fianco settentrionale della rocca prospiciente sul mare, che era stata edificata, previa concessione dei giurati (amministratori civici) del 2 Marzo IIa Indizione 1619, sui resti di case andate distrutte (domorum dirutarum in rovinam reducte), dall’incendio innescato dall’esplosione della polveriera del mastio nel 1571 (cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, in “Esperonews: Giornale del Comprensorio Termini-Cefalù-Madonie”, Lunedì 14 Settembre 2020, su questa testata giornalistica on-line). Il sac. Romano, inoltre, possedeva ancora una casa nella strada che conduce alla chiesa di S. Antonino [attuale Via Vittorio Amedeo], vari censi su abitazioni e ben dodici suoli di case (lotti edificabili), tutti ubicati nel quartiere di S. Andrea, confinanti col giardino dei Marino, nonché una tenuta sita nel territorio di Termini, in contrada Giardinaccio (Giardinazzo), aggregata al trappeto di Brucato etc.; il secondo, rogato il giorno 11 gennaio VIIIa Indizione 1640, dove egli dispose di voler essere sepolto nella Maggior Chiesa di Termini «nella cappella ch’io in honor di Dio hò [sic] dedicata al glorioso Santo Filippo Neri, chiesa e luogo da me à [sic] questo effetto scelto solamente per mia sorella Livia per me e per alcuni altri pochi dichiarati et nominati nel fine di questo mio testamento». Vogliamo sottolineare che dalla lettura del rogito si evince chiaramente che il dipinto del santo eponimo, opera del fiorentino Alessandro Vajani (n. 1570 c.), firmato e datato 1629 (cfr. A. Cuccia, La Pittura del Seicento a Termini Imerese e nel suo territorio, “Bollettino d’Arte”, anno XCIII, 143, Libreria dello Stato, Roma 2008, pp. 49-92, in particolare, pp. 59-60), un biennio dopo appariva già collocato in loco; il terzo ed ultimo, rogato il 5 Ottobre XIIIa Indizione 1644 in notar Vincenzo Pesce di Termini, fu aperto e reso pubblico il 4 Dicembre di tale anno.
Per la nostra ricerca, appare emblematico il rogito, datato 9 aprile Xa Indizione 1642, in notar Giuseppe Schifano di Palermo, nel quale il sac. Romano aveva assegnato alle nipoti Faustina e Virginia de Marino, figlie della sorella Livia, un giardino recintato con terreno, gebbia, frutta e cuba d’acqua, posto davanti la casa degli eredi del fu Michelangelo de Marino e nella strada che conduce dalla Porta d’Agrigento alla piazza della città [attuale Via Vittorio Amedeo], confinante con le mura di cinta. Pertanto l’area a verde appariva già frazionata a diversi proprietari, mentre la Via Monachelle era ancora da venire.
Una porzione del grande spazio a verde, negli anni 60’ del Seicento risultava di proprietà del Regio Segreto Don Francesco Di Michele, che nella parte più elevata del giardino, prospettante sull’attuale Via Vittorio Amedeo, edificò la chiesa patronale dedicata a S. Francesco di Sales, oggi non più esistente (donde l’origine della denominazione dell’attuale Via Selva Sales).
Il giorno 11 Giugno Va Indizione 1667, agli atti di notar Filippo Bruno di Termini Imerese, fu concessa la licentia fabricandi, cioè la licenza edilizia, della chiesa di S. Francesco di Sales, nei confronti dello «Spettabile Don Francesco di Michele Barone di San Giuseppe e Secreto di questa città di Termini» (cfr. Atti e Scritture della Chiesa di San Francesco di Sales in Termini Imerese, ms. AME, sec. XVII, fondo S. Francesco di Sales, ai segni A ζ 8, f. 33). Agli atti di notar Francesco Salomone di Termini del 18 Gennaio VIa Indizione 1668, il detto dotò la chiesa predetta della somma di onze 2, tarì 15 annuali, di cui onza 1 in pro del beneficiale «D[otto]r D[on] Gius[epp]e di Michele suo nipote» (Idem, f. 34).
Agli inizi del Settecento, la grande area a verde era stata già smembrata in tre parti, a loro volta frazionate in appezzamenti recintati, avendo come direttrici stradali rettilinee le attuali vie Giacinto Lo Faso, Gebbia Vecchia e Monachelle, come appare nella cosiddetta pianta di Berlino [cfr. Anonimo, Carta Topografica della Citta [sic] e Castello di Termini nel Regno di Sicilia, Maggio 1720], scoperta dalla storica francese Liliane Dufour, e fatta riprodurre ad elevata risoluzione dallo studioso termitano Andrea Gaeta (cfr., rispettivamente, L. Dufour Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta 1500-1823, Lombardi, Palermo 1992, 504 pp., s.v. Termini Imerese, pp. 113-130; www.bitnick.it/filigrana.jpg).
Il 5 Marzo 1823, Termini Imerese fu funestata da un evento sismico che, pur avendo come iniziale area epicentrale la zona di Barcellona Pozzo di Gotto e di Naso, nel Messinese, fu avvertito sino a Palermo. I maggiori danni si ebbero nel quartiere all’entrata della Porta di Palermo, dove le case lesionate, per contrastare le rotazioni fuori piombo dei muri portanti, furono puntellate. Curiosamente, negli Atti del Decurionato di Termini Imerese del 1822-1825 (d’ora in poi ADT, 1822-25, ms. della Biblioteca Comunale Liciniana di Termini Imerese, d’ora in poi BLT ai segni III 10 i 6) non vi è alcun cenno a questo sisma, nonostante i notevoli danni ad un quartiere cittadino; evidentemente gli amministratori del tempo erano ben poco interessati alle sorti dei danneggiati [cfr. A. Contino, Geologia urbana dell’abitato e della zona industriale di Termini Imerese (Sicilia settentrionale), tesi di dottorato di ricerca in Geologia, Università di Palermo, Dipartimento di Geologia e Geodesia, 2005, 214 pp., in particolare, p. 155].
Nel 1836, l’architetto comunale Gabriele Castiglia (nato nel 1798), fu autore di una pianta planimetrica della città di Termini Imerese e dintorni, molto dettagliata ed elegante (Pianta Geometrica della Città di Termini, e delle vedute campestri, Museo civico di Termini Imerese, china e colori acquerellati). Nell’area in oggetto, la pianta predetta esibisce una fase di restringimento della zona a verde, rispetto alla cartografia settecentesca.
Cinque anni dopo, il 30 Settembre 1841, fu deliberata la definitiva suddivisione del giardino di S. Francesco di Sales in lotti da edificare, mentre il 28 novembre dello stesso anno si dovette pianificare la sistemazione e pulizia del «barbacane ossia gambitta», cioè del fossato che, attraverso una feritoia presente nello spessore del muro di cinta cinquecentesco, avrebbe dovuto permettere il deflusso delle acque fluenti in superficie, mentre intasandosi ne provocava non solo la stagnazione, ma facendo da barriera, ne faceva aumentare anche il livello, creando una vera e propria zona umida. Tutto ciò dava a origine al diffondersi di perniciose febbri intermittenti nella popolazione dei quartieri limitrofi (cfr. ADT, 1841-42, ms. BLT ai segni III 10 i 11, in A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 206-207).
Il 13 Ottobre dello stesso anno (cfr. ADT, 1841-42, 13 Ottobre 1841, n. 5), era stato ufficializzato lo smembramento dell’area a verde attraverso l’apertura di nuove strade, in sintonia con l’ordito viario già esistente, senza tenere in alcun conto le problematiche geomorfologiche accentuate dai dislivelli plano-altimetrici e creando, di fatto, delle nuove vie di drenaggio preferenziale delle acque superficiali. Era stato deciso, infatti, di realizzare il prolungamento della Strada del Drago (oggi Via Marsala), cioè dell’attuale Via Selva Sales, con stessa direzione e larghezza, di quella esistente, aprendo poi, simmetricamente ad essa, un altro asse viario «sino al giardino del S[igno]r Lo Faso» che, a sua volta doveva essere intersecato da un’altra strada parallela alla Strada di Porta Girgenti (attuale Via Vittorio Amedeo), retrostante ai «magazzini Lo Faso e Marsala» ed alla «chiesa di S. Francesco di Sales», che corrisponde all’odierna Via Spataro (non a caso Spataro era il cognome della famiglia materna del già citato Regio Segreto Don Francesco Di Michele).
Nel prosieguo di tempo, l’area a giardino fu lottizzata e gradualmente saturata dalla costruzione di abitazioni. Il quartiere, popolarmente denominato ancor oggi con il termine di origine araba Ciba [cfr. siciliano scilba (scirba) corruzione di chirba dall’arabo ḫirbah ‘giardino recintato’], oggi occupa completamente quelle che un tempo furono le sponde dell’area d’origine del torrente, sul cui alveo fu poi edificato l’isolato compreso tra le vie Lo Monaco e Giacinto Lo Faso (cfr. A. Contino, Aqua Himerae…cit., p. 205).
La scomparsa dell’area a verde, dovette accentuare i problemi di drenaggio superficiale, perché le siepi e la vegetazione arborea dovevano certamente svolgere l’insostituibile ruolo di rallentare e regimare il deflusso idrico, incanalandolo naturalmente verso il fondovalle ed evitando altresì l’erosione del suolo (cfr. F. Burel, J. Baudry, J.-C. Lefeuvre, Landscape structure and the control of water runoff, in R. G. H. Bunce, L. Ryszkowski, M. G. Paoletti, eds., Landscape Ecology and Agroecosystems, Lewis, Boca Raton 1993, pp. 41-47).
La costruzione delle varie unità abitative, nonostante la poca profondità delle strutture di fondazione, determinò la rimozione della copertura vegetale naturale ed il taglio e l’asportazione parziale o addirittura totale del sottostante orizzonte di suolo. Alcuni rivoli di minore entità dovettero essere artificialmente deviati, raddrizzati, oppure riempiti. Scomparvero altresì i terrazzamenti.
Nel registro del 1858-59 degli Atti del Decurionato di Termini Imerese (cfr. ADT, ms. BLT, ai segni III 10 i 14), il 7 Gennaio 1858 troviamo citata la «fogna da costruirsi fuori la Porta Palermo e precisamente nel punto denominato Monachella», secondo le indicazioni di una apposita «Commiss[io]ne Decurionale», costituita dai signori «D[o].n Luigi Ippolito, D[o].n Baldassare Palmisano, D[o].n Pietro Gallegra e D[o].n Filippo [Aglieri] Rinella» con la supervisione dell’architetto comunale Don Francesco Capuano (cfr. ADT, 1858-59: Opere Pubbliche. Corso della Monachella, f. 1 n. 1). Il 6 Marzo 1858 si trova ancora menzione del detto collettore fognario denominato «Corso Immondo della Monachella» (Idem, f. 6 n. 14), come anche il 17 Maggio (Idem, f. 27 n. 10). Allo stato attuale delle ricerche non è possibile stabilire se il «punto denominato Monachella» coincida con il «barbacane ossia gambitta» precedentemente menzionato negli atti decurionali, ma è molto probabile che lo sia, visto che la sua collocazione era condizionata dall’assetto topografico dell’area lottizzata.
Ma le vicissitudini del novello quartiere non erano terminate perché incombeva sempre il pericolo del ripetersi di eventi sismici, come era già avvenuto nel 1823, quando però l’area ancora presentava ampi spazi verdi e, quindi, esibiva minori fattori di pericolosità.
Il giorno 8 Settembre 1906, ore 22,35, si ebbe una scossa prevalentemente sussultoria intensità III durata 2”, che sancì l’inizio di un lungo periodo sismico che, con le scosse più forti fu avvertito in quasi tutti i paesi della provincia di Palermo e si esaurì soltanto il 29 Giugno 1908 (cfr. M. Ciofalo, Orografia, geologia e tectonica della zona scossa dai terremoti di Termini del settembre 1906, “Bollettino della Società sismologica italiana”, XIII, n. 4, Soliani, Modena 1908, pp. 153-183, in particolare, pp. 175-183). La scossa più intensa (intensità VII durata 5 secondi) avvenne il giorno 11 Settembre 1906 alle ore 20,00 e cagionò le maggiori lesioni ai fabbricati che si concentrarono proprio nel quartiere Macello (denominazione derivata dalla presenza del mattatoio comunale), non lontano dalla Porta Palermo, dove si erano già avuti dei danni a seguito del sisma del 1823 (cfr. M. Ciofalo, Orografia, geologia e tectonica…cit., p. 168). Diverse tendopoli e baraccopoli sorsero nella parte alta della città presso la Maggior Chiesa, S. Antonio di Padova, S. Girolamo ai Cappuccini, S. Giovanni Battista, mentre nella parte bassa di Termini furono dislocare nelle spianate dei Bagni (oggi Piazza delle Terme), della Croce (odierna Piazza Crispi) e Marina (cfr. G. Catanzaro, Dal particolare alla storia. Il Corso Umberto e Margherita di Termini Imerese e…dintorni, Lo Bono, Termini Imerese 2021, pp. 178-185). Successivamente, il rione risorse nuovamente.
Agli inizi degli anni 30’ del Novecento, la città fu ulteriormente funestata da un evento alluvionale che arrecò grandissimi danni, soprattutto al settore settentrionale ed occidentale dell’Isola, mettendo a dura prova la stessa Palermo che subì grandi allagamenti, dimostrando per l’ennesima volta la fragilità intrinseca della Conca d’Oro.
In Termini Imerese, a seguito all’ingente alluvione del 21 febbraio 1931, andò quasi interamente distrutto il quartiere Fuori Porta Euracea, extra moenia e prospiciente sulla Barratina, mentre fu gravemente danneggiato quello intra moenia di Fonte Serio-Porta Euracea. Pertanto, venne assurdamente disposta la demolizione del tratto di mura di cinta cinquecentesche, contiguo con la Via Monachelle, al fine di edificarvi le case per le famiglie rimaste senza tetto a causa dell’evento meteorologico estremo (cfr., su questo evento, A. Contino, Aqua Himerae…cit., pp. 233-236). Un’altra importante testimonianza storica scompariva, definitivamente ed inesorabilmente, a colpi di piccone.
Tornando all’origine della denominazione Via Monachelle, occorre comprendere il nesso tra il termine Monachella e l’acqua. In area centro-meridionale ed insulare, la Monachella è una leggendaria figura femminile del folklore, che appare inscindibilmente legata alle sorgenti ed alla loro valenza vitale. Si tratta, quindi, di un mito o di una leggenda di origine geologica o geomito e, nello specifico, visto il legame con l’acqua, di un idrogeomito. La geomitologia si occupa di studiare le connessioni tra le Scienze della Terra e la mitologia e l’etnoantropologia. Il termine è stato coniato dalla geologa statunitense, in servizio presso l’U.S. Geological Survey, Dorothy Brauneck Vitaliano (New York, 10 Febbraio 1916 – Bloomington, Monroe County, Indiana, 26 Giugno 2008) che definì il nuovo campo di indagine come “lo studio delle reali origini geologiche dei fenomeni naturali che sono stati a lungo spiegati in termini di mito e folklore” (cfr. D. Vitaliano, Legends of the Earth: Their Geologic Origins, Indiana University Press, Bloomington 1973, 306 pp.).
Una ulteriore connessione si ravvisa tra la Monachella e le Donne di fuori, queste ultime equivalente siciliano delle Fate. Infatti, nelle leggende siciliane, questa sorta di figure femminili incantate, che amano visitare i neonati mentre dormono, intrecciando i loro capelli, spesso si presentano sotto l’aspetto di monache (cfr. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 4 voll., Palermo 1887-1888, IV, p. 161). A Polizzi Generosa abbiamo la sorgente detta Fatuzza, la cui denominazione si ricollega alle Fatae latine (corrispondenti alle greche Μοῖραι, ‘coloro che stabiliscono la sorte’), aventi sembianze di fanciulla (essendo alter ego femminile del Fatus).
Probabilmente, si tratta del retaggio di figure mitiche connesse con i culti tributati alle acque sorgentizie nella koinè ellenico-mediterranea e, in particolare, verso le ninfe delle acque (per ulteriori approfondimenti cfr. J. Larson, Greek Nymphs. Myth, Cult, Lore, Oxford University Press, New York 2001, 392 pp.). Nel mondo pagano, le ninfe erano divinità delle acque scorrenti e sorgentizie, ed il collegamento con la Monachella appare confermato dal fatto che a Modica, la mitica risorgiva siracusana, ad ovest del Porto grande, personificata nella ninfa Ciane (in greco Κυανῆ da κυανός ‘azzurro’, cfr. Pseudo-Plutarco, Parallela minora, 19; Publio Ovidio Nasone, Metamorphosĕon libri XV, V, versi 409-435; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Battiato, Catania 1911, X+324 pp., in particolare, p. 109 segg.), è chiamata la Monachella della fontana (cfr. G. Cocchiara, Immagine del folklore siciliano, in “Laographia”, vol. 17, parte 1, Hellēnikē Laographikē Hetaireia, Journal of the International Greek Folklore Society, Athens 1958, pp. 3-11, in particolare, p. 7). Il folclorista ed etnologo Giuseppe Cocchiara (Mistretta, 5 marzo 1904 – Palermo, 24 gennaio 1965), ha sottolineato come la figura della monachella, tipica del folklore siciliano, affondi le sue origini nei miti delle popolazioni indigene, successivamente fatti propri dai colonizzatori greci (cfr. G. Cocchiara, Preistoria e folklore, Sellerio, Palermo 1978, 120 pp., nello specifico, pp. 42-49).
La tradizione di questa figura femminile, legata alle acque, è ben presente anche nel folklore del comprensorio Termini Imerese-Cefalù-Madonie. A proposito della Monachella della fontana, Giuseppe Pitré riporta il racconto popolare, raccolto proprio nelle Madonie, a Polizzi Generosa, dal suo collaboratore locale il signor Vincenzo Giallongo, dove viene così descritta: Ha fisonomia [sic, fisionomia] giovanile, ma di estrema pallidezza. Porta il soggolo come le monache, e indossa tre vesti, l’una delle quali è nera, ed è più corta, e sovrapposta alle altre due; la seconda è turchina, e la terza, che è la più lunga, dà nel giallognolo. È sempre accompagnata da un cane, e porta in mano un canestro con fiori e monete di oro. Esce tre volte l’anno, in tre martedì successivi di giugno e per dileguarsi si tuffa nella fontana e si discioglie in acqua. Sta a guardia dei tesori che giacciono lungo il corso dei fiumi e delle sorgenti (…). La Monacella offre danaro alle persone dalle quali si fa vedere, ma pretende che penetrino in sua compagnia entro la testa dell’acqua, come si suole chiamare la sorgente (cfr. G. Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel di Clausen, Palermo 1889, vol. IV, in “Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane”, vol. XVII, pp. 187-191).
Questa folkloristica figura femminile ha ispirato il drammaturgo, librettista, giornalista, scrittore, biografo e critico musicale Giuseppe Adami (Verona, 4 febbraio 1878 – Milano, 12 ottobre 1946) ed il musicista Francesco Paolo Mulé (Termini Imerese, 28 giugno 1885 – Roma il 10 settembre 1951) per La monacella della fontana (cfr. La monacella della fontana. Leggenda in un atto di Giuseppe Adami. Musica di Giuseppe Mulè, Ricordi, Milano 1920, 20 pp.). L’opera, che ebbe lusinghiero riscontro di critica e di pubblico, è ambientata nelle campagne di Monreale, in un contesto di siccità e carestia. La giovane Marù si imbatte nella monacella della fontana, ma per diffidenza rifiuta sia le monete d’oro offerte in un canestro ricoperto di fiori, sia la prospettiva di seguire la misteriosa figura femminile nelle cavità del monte per ricevere le enormi ricchezze con le quali potersi sposare con il fidanzato Pedru. Marù, ancora sconvolta per l’apparizione della Monacella, racconta l’accaduto a Pedru, alla madre ed agli altri contadini. La ragazza viene abbigliata decorosamente e condotta nuovamente alla fontana, dove appare ancora la monacella. Lo scapolare della Madonna del Carmelo che indossa la fanciulla la trattiene immobilizzandola ed invano Pedru cerca di non farlo togliere alla fidanzata, temendo che l’amata possa perdere la sua incolumità seguendo la Monacella. Ma la folla ha il sopravvento, toglie a forza lo scapolare a Marù e permette alla ragazza di seguire la Monacella nella fontana. Appena ciò avviene il grano ed i papaveri riempiono i campi e la folla grida al miracolo.
Il legame con l’acqua, nel quartiere prospiciente sulla Via Monachelle era dato non solo dall’esistenza dell’alveo torrentizio, ma anche dalla probabile presenza, nell’area d’origine del vallone, di manifestazioni sorgentizie. Infatti, in corrispondenza dell’attuale Via Vittorio Amedeo, sul crinale sito alla sommità del vallone, durante lavori di scavo sono più volte venuti alla luce dei depositi marini di spiaggia, ciottoloso-sabbiosi, che ricoprono, in discordanza, una piattaforma d’abrasione ormai “fossilizzata”, allungata in senso NNE-SSO, ritagliata nel substrato argilloso-arenaceo (Flysch Numidico, Oligocene superiore-Miocene inferiore). La quota di tali depositi (c. 70-75 m s.l.m.) è compatibile con le fasi trasgressive del Pleistocene medio, legate all’instaurarsi di condizioni climatiche calde che, attivando la fusione ed il conseguente arretramento delle coltri glaciali, cagionavano l’innalzamento del livello generale del mare. Gli effetti del sollevamento regionale, sovrapponendosi a quelli prodotti dalle oscillazioni climatiche quaternarie, finirono poi per far emergere definitivamente la superficie di abrasione, prodotta dal mare. I depositi sabbioso-ciottolosi ospitano una falda idrica, sostenuta dalla presenza del substrato argilloso, praticamente impermeabile. Le argille, localmente, contengono però delle intercalazioni lenticolari di arenarie quarzose, più resistenti all’erosione, che affiorano in diversi punti nelle strade adiacenti a Via Vittorio Amedeo (odierne vie Aglieri Rinella, del Genio e Quattrocchi), sia all’interno delle abitazioni, sia esternamente alla base degli edifici, rendendo molto caratteristico questo settore del quartiere. Questi orizzonti arenacei, sui quali poggiano localmente, in discordanza, i depositi marini predetti, a loro volta possono ospitare ulteriori acquiferi, essendo rocce permeabili soprattutto per fratturazione. Tutte queste condizioni idrogeologiche, erano favorevoli alla creazione di emergenze sorgentizie, che si versavano nel corso d’acqua contribuendo alla sua alimentazione, fornendo inoltre una certa aliquota di portata in subalveo, soprattutto nei periodi di magra e ciò spiegherebbe la presenza nel quartiere di pozzi che non si prosciugano neanche nelle stagioni secche. La presenza dei punti d’acqua e del torrente può facilmente essere stata collegata, a livello popolare, con la folkloristica figura femminile della Monachella, dando il nome sia a questo affluente del vallone Conca di Lauro, sia al luogo. Ne consegue che il collettore idrico e fognario, ubicato «nel punto denominato Monachella», prese da quest’ultimo l’appellativo che, sino a nostri giorni, si è conservato nella Via Monachelle (che, non a caso, è indicata come Via Monachella nella Pianta della Città di Termini Imerese. Scala di 1:3000, c. 1914-15).
Patrizia Bova e Antonio Contino
Ringraziamenti: vogliamo esternare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, ai direttori ed al personale della sezione di Termini Imerese dell’Archivio di Stato di Palermo e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese. Un ringraziamento particolare va a don Francesco Anfuso e a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.