La sala della libreria Feltrinelli si riempie nel volgere di pochi minuti.
Tutto si svolge nella rigorosa osservanza della normativa anti-covid ma anche nel rassegnato rispetto della tendenza del momento, ossia la volontaria e volenterosa autoesclusione dei giovani da eventi particolarmente impegnativi. I meno anziani dei partecipanti hanno da poco raggiunto o superato i cinquant’anni d’età e tutti, chi da alunno delle Elementari e chi da studente degli Istituti superiori, hanno fatto in tempo a vivere gli anni della lotta sociale nelle sue molteplici versioni: extraparlamentare, armata e sindacale; dalle conquiste dell’autunno caldo alla soppressione dell’indicizzazione dei salari al costo della vita.
Al conflitto e all’esclusione sociale nel nostro tempo è dedicato l’incontro, che trae spunto dal libro di Victor Matteucci: “Gli estranei. Underclass e identità borderline” (Prefazioni di Mauro Laeng e Rita El-Khayat, con un contributo di Alberto Franceschini, Nuova Ipsa editore).
A dialogare con l’autore, in un dibattito che presto diventerà collettivo coinvolgendo gran parte delle persone presenti, vi è Alberto Franceschini, che ha attraversato il suo Novecento nella lotta armata e nelle carceri essendo stato uno dei fondatori delle Brigate Rosse.
La giornalista Gilda Sciortino, che coordina il dialogo, sapientemente tesse la trama del dibattito ponendo a confronto i conflitti del passato con i conflitti del presente. Inizia da qui un insieme di fili che intreccia Ventesimo e Ventunesimo secolo in un ordito di questioni trattate da Franceschini e Matteucci e che qui tenteremo di riassumere sulla scorta degli appunti presi a penna.
Osservo intanto Alberto Franceschini e non posso fare a meno di pensare che anch’io abbia vissuto gli anni della lotta sociale, da ragazzo; ascolto la sua voce e non voglio fare a meno di considerare la necessità di storicizzare il versante più violento di quegli anni, quello che proprio Franceschini ha insieme con altri scalato e per il quale ha pagato. Il tema del libro e la trama del dibattito offrono una straordinaria occasione.
Il punto cruciale, questo punto cruciale che ha a che fare con la storia e dunque è fondamentale per la vita e per l’azione oggi, è raggiunto dopo una fila d’intrecci in cui il vecchio sottoproletariato del Novecento, che viveva di espedienti ai margini delle città, si è trasformato nell’odierna sottoclasse borderline che oggi sopravvive fuori della città e che è estranea alla città, esclusa dalla città.
Victor Matteucci imputa questa mutazione alle moderne sovrastrutture del sistema: il consumismo prima di tutto, che ha sostituito la produzione; il socialtotalitarismo, ossia il totalitarismo dei social, che controlla e sfrutta le informazioni del popolo geneticamente modificato in pubblico; la mercificazione di tutti gli ambiti della vita umana, a cominciare dal lavoro, che ha ridotto cittadini e lavoratori in utenti. Chi nasce o diventa escluso dal consumo, dal pubblico, dalla qualifica di utente, diviene un estraneo e cade nell’instabilità, nella precarietà, nella criminalità, nella brutalità, nella rabbia non più sociale ma individuale, egoista, malvagia. Una mutazione contro di cui poco possono la scuola, il volontariato, l’associazionismo sui quali il sistema esercita sempre più prevaricazioni poiché rappresentano l’unico, debole, canale di comunicazione tra mondo dentro e mondo fuori le mura del «medioevo atomico», per citare un’espressione utilizzata nel libro.
Alberto Franceschini individua nella mutazione del mercato del lavoro il punto d’origine delle conseguenti mutazioni antropologiche e dell’odierna realtà. Rispetto al Novecento, il moderno mercato del lavoro è organizzato non più in funzione dell’industria ma del commercio. Il nuovo sistema di produzione vede nelle macchine e nella delocalizzazione i soggetti produttivi. E mentre nel passato il vecchio sottoproletariato era periodicamente assorbito dalla produzione industriale, oggi non più, non è più necessario al mercato del lavoro, i grandi centri commerciali e la grande distribuzione non ne hanno più bisogno. Il consumo ha superato la produzione. Da qui anche una mutazione delle vecchie classi sociali, oggi sostituite da un insieme di soggetti individualizzati che si muovono e si dividono nel commerciale: la classe dei produttori di consumo, l’altra dei venditori di consumo, i compratori di consumo e infine la sottoclasse degli “estranei”.
Stiamo arrivando a quello che considero il punto cruciale di questo intenso pomeriggio intellettuale.
Gilda Sciortino è stata abilissima a tratteggiare la questione con una domanda posta all’inizio della conversazione collettiva, in cui peraltro stimolanti sono stati gli interventi delle persone in sala, che hanno richiamato all’attenzione il capitalismo della sorveglianza, l’angoscia giovanile, la solitudine della Scuola, l’estraneità delle periferie, le difficoltà del Terzo Settore, l’assenza della politica. Tornando alla domanda di Gilda Sciortino e alla risposta di Franceschini, provo a riepilogare così: il conflitto e l’esclusione sociale del presente erano prevedibili negli anni di lotta del secolo scorso? Sì, il sistema delle multinazionali contro di cui s’indirizzava la lotta esisteva per davvero e andava radicalmente modificato; quella generazione rischiò tutto nella battaglia commettendo molti errori e bruciando la parola “rivoluzione”.
Osservo Alberto Franceschini, ascolto la sua voce e penso che sia giunto il momento di revisionare la storia della lotta armata combattuta in Italia e non solo in Italia. Furono gli anni in cui il liberismo riprese prepotentemente la marcia, iniziando dal Cile e dal primo esperimento di economia liberista del periodo. Furono gli anni in cui, scrive Nicholas Wapshott, si consuma l’ultimo atto dello scontro tra Keynes e Hayek; scontro «che ha definito l’economia moderna». Gli anni, spiega Wapshott, di Friedman, Goldwater, Thatcher, Reagan e della «controrivoluzione di Hayek». E furono anni in cui la violenza politica aveva una cittadinanza nella quotidianità, veicolata dalla Guerra Fredda e dalle tante micro guerre che si combattevano al suo interno in varie parti del mondo; veicolata dagli scioperi sanguinosi, in cui le forze dell’ordine potevano ancora usare le armi e gli operai morivano.
Non si può ridurre la storia di quella lotta in una storia di buoni, tutti da una parte, e di cattivi, tutti dall’altra. Non si può eludere il ruolo di una lunga zona grigia – nei luoghi di lavoro e nei sindacati, nei luoghi di discussione pubblica e nei partiti, nelle terrazze e nelle scuole e università – che non volle interpretare il significato di una lotta, le forme che stava assumendo la realtà in seguito alla mutazione antropologica attuata dalle multinazionali del consumo; che non volle disarmare chi andava disarmato e non volle proseguire con altri mezzi la lotta già iniziata. Se oggi la nostra realtà è suddivisa in investitori, risparmiatori, consumatori e underclass, penso si debba innanzitutto a questa eterna e ancora circolante zona grigia, le cui responsabilità morali pesano nella storia molto più delle responsabilità materiali di chi impugnò le armi.
La presentazione del libro termina con un accostamento di parole pronunciate dall’educatore Nino Rocca: utopia e speranza. Alberto Franceschini ascolta con attenzione. Il pomeriggio finisce qui.
Michelangelo Ingrassia