Termini Imerese, Ignazio La Manna bambino prodigio nel primo Ottocento

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Secondo David Henry Feldman (Università di Stanford, USA), il bambino prodigio (gifted children nella letteratura scientifica anglosassone)

esibisce una configurazione distinta di talento che tende ad essere più focalizzata, specializzata e specifica. Gli studi sui bambini prodigio, secondo lo studioso, hanno contribuito a comprendere meglio ed a cambiare le teorie sulla natura del talento umano (ad es., da singolo a multiplo) sviscerando il ruolo dell’intelligenza, della creatività, dell’evoluzione fisica e culturale nonché della conoscenza delle abilità e delle competenze. Il bambino prodigio mostra un insieme di relazioni complesse tra intelligenza ed espressione del talento all’interno di domini specifici (linguistici, scientifici, spaziale-visivi, musicali etc.). Un ruolo notevole hanno spesso gli insegnanti che devono essere disponibili proprio al momento giusto dello sviluppo del bambino e devono essere capaci di coinvolgerlo in un dominio altamente strutturato e autonomo, attraverso un insegnamento sistematico e accessibile, adattando gli strumenti o le attrezzature necessarie alle capacità fisiche ed emotive del piccolo discente, guidandolo, senza imposizioni, in percorso  a lui congeniale ed assecondando le sue tempistiche. Sulla base dei risultati degli studi sui bambini prodigio, è probabile che ci siano ruoli importanti, sia per le abilità generali, sia specifiche, nella maggior parte delle forme di talento e che rappresentino due distinte tendenze evolutive per massimizzare la probabilità di sopravvivenza della nostra specie (cfr. D. H. Feldman, Child Prodigies: A Distinctive Form of Giftedness. “Gifted Child Quarterly”, vol. 37 n. 4,  1993, pp. 188-193; Idem, Why Child Prodigies Are Important, “Revista de Educación”, Madrid, España,  April 2015, DOI: 10.4438/1988-592X-RE-2015-368-295).

In questa nostra ricerca tratteremo l’emblematico caso di Ignazio La Manna, enfant prodige termitano del primo Ottocento, praticamente misconosciuto, particolarmente interessante soprattutto per uno di noi (Patrizia Bova), poiché affronta un argomento che si lega all’attività di insegnamento svolta nella scuola dell’infanzia e primaria.

Prima di focalizzare sulla figura di Ignazio La Manna, ci sembra doveroso tratteggiare le vicende del suo casato e dei suoi familiari, evidenziando il ruolo chiave svolto dal padre Antonino che eccelleva nella poesia estemporanea siciliana essendo ben capace di esibirsi di fronte a un pubblico sulla base di temi proposti al momento dagli stessi astanti. Egli aveva proprio questo “dono” di sapere immedesimarsi nell’argomento proposto e, con molta bravura, attraverso la sapiente arte dell’improvvisazione, secondo l’estro creativo del momento, mettere in rima e declamare oralmente una sequela di strofe, capace di comunicare all’uditorio concetti, valori e soprattutto emozioni, toccando le corde più intime dell’essere umano, cimentandosi anche in vere e proprie gare nelle quali venivano alla luce l’indole, la delicatezza, l’arguzia e lo slancio del poeta. Si tratta di un patrimonio immateriale che va riscoperto e tutelato, essendo un valido “marcatore d’identità” per le nostre comunità che hanno il dovere di tramandare alle generazioni future le tradizioni, la lingua e tutti gli elementi fondanti dell’immensa e poliedrica ricchezza culturale della nostra Sicilia.

Le nostre ricerche archivistiche, attestano che la famiglia La Manna è documentata a Termini Imerese sin dalla prima metà del Cinquecento, con il soprannome Salerno, verosimilmente derivato dalla città di provenienza (dove del resto il cognome è presente ancora oggi).

Il 19 Ottobre IIIa Indizione 1544, il sac. (presti) Bartolomeo (vartulu) La Manna (lamanna) alias Salerno, fu presente, assieme a Mastro Antonio  Santoro e Domenica La Grigola al battesimo, officiato dal sac. Filippo Guagenti, di Giannantonio figlio di Mastro Pietro Scarano (cfr. Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, d’ora in poi AME, vol. 1, Battesimi, 1542-1548, f. 42r n. 1). Il 2 Novembre successivo, il sac. (presti) Pietro di Ferro battezzò la figlia di Mastro Vincenzo La Manna (lamanna) e le impose il nome di Giovanna (Joanna), alla presenza di Mastro Bernardino di lu Palazzu, del Magnifico Giantommaso Venturella e di Caterina La Giuffrida (cfr. AME, vol. 1, Battesimi, 1542-1548, f. 44r n. 3). I La Manna svolsero per secoli delle attività artigianali, con bottega propria ed apprendisti, tanto da annoverare quasi di regola il titolo di Mastro (in latino Magister) come emergere dai documenti ufficiali, sia civili, sia ecclesiastici, nonché dai rogiti dei vari notai locali, annoverando pastai, merciai (mirceri) e calzolai.

Nel 1724-25 sono documentati, in qualità di contribuenti al donativo regio, straordinario una tantumAntonino, Giuseppe, Mariano e Rosario La Manna che versarono, i primi tre tarì 4 ciascuno, mentre il quarto, da solo ne sborsò ben 10 (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese. Una inedita lista di contribuenti del 1724: pagavano tutti esclusi “miserabili e “Giornadieri”, “Esperonews”, 11 Giugno 2019, su questa testata giornalistica on-line).

Il padre del piccolo Ignazio, Antonio o Antonino La Manna Cancilla, nacque a Termini Imerese il 29 Luglio 1771, da Mastro Ignazio La Manna senior e da Paola Cancilla, avendo come padrino un certo Don Valentino Gerzei fu Ignazio (cfr. AME, Battesimi, vol. 44, f. 155r n. 6). Dopo gli studi primari, per un quadriennio frequentò il seminario a Palermo, esperienza che per lui fu affatto positiva, essendo poco incline alla rigida disciplina ecclesiastica.

Antonino, frequentando la Reale Accademia degli studi di Palermo, approfondì soprattutto gli studi medici, ma ebbe modo anche di affinare la sua sensibilità di poeta e letterato  seguendo con profitto le lezioni di Michelangelo Monti (Genova, 1º Settembre 1749 – Palermo, 13 Febbraio 1823), docente di eloquenza e verseggiatore profondamente ancorato agli schemi formali e contenutistici della lirica arcadica. Completati poi gli studi medici, si trasferì dapprima a Napoli per specializzarsi in chirurgia, seguendo i corsi dei professori Angelo Boccanera detto della Lionessa (Leonessa, 1756 – Napoli, 26 Marzo 1836), docente di Anatomia e Chirurgia teoretica, e  di Bruno Amantea (Grimaldi, 30 Giugno 1750 – Napoli, 10 Aprile 1819). Successivamente, si recò a Firenze, dove fu allievo di Lorenzo Nannoni (Firenze, 1749 – ivi, 14 Agosto 1812), in Pisa dove fu seguace di altri celebri docenti e, infine, a Roma del celebre Giuseppe Flaiani (Ancarano, 4 Luglio 1739 –  Roma, 1° Agosto 1808), «che a preferenza di tutti lo incoraggiò» ed in quel periodo fu a servizio «dell’armata francese allorché questa penetrò la città de’ Quiriti» cioè nel 1798 (cfr. G. Algeri-Fogliani, Prospetto delle Scienze, e della Letteratura del Secolo Decimonono in Sicilia. Scienze Mediche. Articolo Sesto. Chirurgia, in “Effemeridi Scientifiche e Letterarie per la Sicilia”, tomo XXXVIII, anno IX, N° 76 – Gennaio 1840, Roberti, Palermo 1840, pp. 5-6). In tale occasione è probabile che ebbe i primi contatti con esponenti della setta della Carboneria.

Il 24 Giugno 1798, nella parrocchiale chiesa di Maria SS. della Consolazione in Termini Imerese, Antonino sposò, per procura fatta al padre Ignazio, donna Emmanuela Albero o D’Albero, figlia del fu Andrea e della vivente Teresa, nativa di Napoli ed abitatrice di Termini, alla presenza di notar don Antonino Geraci e di don Agostino Tantillo (Cfr. AME, Sponsali, Parrocchia di Maria SS. della Consolazione, 1783-1801, vol. 54, f. 160 n. 956). Dalla coppia, almeno per quanto risulta allo stato attuale delle ricerche, nacquero Maria Paola detta familiarmente Paolina (n. 1799) ed Ignazio (1802-1809).

Con il trasferimento in Sicilia della corte borbonica, in fuga da Napoli dinanzi all’esercito francese, si riaccesero negli animi siciliani le speranze di una maggiore autonomia dell’Isola. In tale anno, ritroviamo il La Manna proprio in Sicilia, dove fu uno dei frequentatori della corte palermitana di Maria Carolina d’Asburgo-Lorena (Vienna, 13 Agosto 1752 – ivi, 8 Settembre 1814), moglie di re Ferdinando IV di Borbone (Napoli, 12 Gennaio 1751 – ivi, 4 Gennaio 1825), partecipando a feste e banchetti dove egli si esibiva nella recita di poesie e sonetti anche estemporanei in italiano; uno di questi egli lo dedicò a Emily Lyon, meglio nota come Lady Emma Hamilton (cfr. R. Palumbo, a cura di, Carteggio di Maria Carolina Regina delle due Sicilie con Lady Emma Hamilton. Documenti inediti, con un sommario storico della reazione borbonica del 1799, Jovene, Napoli 1877, 234 pp., in particolare, p. 44; F. Trapani, ‎M. C. Coco Davani, Il principe giacobino. Una storia siciliana di illusione e libertà, Rusconi, Milano 1997, p. 27). Ricordiamo che Emily Lyon (Neston, 26 Aprile 1765 – Calais, 16 Gennaio 1815), aveva sposato sir William Hamilton (Henley-on-Thames, 13 Dicembre 1730 – Londra, 6 Aprile 1803), ambasciatore inglese a Napoli, appassionato di archeologia e di vulcanologia, ed era divenuta poi amante dell’ammiraglio Horatio Nelson (Burnham Thorpe, 29 Settembre 1758 – Capo Trafalgar, 21 Ottobre 1805).

La soppressione della costituzione nel Dicembre 1816, già concessa alla Sicilia nel 1812, fece ricadere Palermo nel novero di città provinciale e ciò fece crescere l’ostilità nei confronti del dominio borbonico, che culminò poi nelle istanze separatiste della sommossa del 1820.

Nella città natia, il La Manna si dedicò soprattutto alla professione di chirurgo (cerusico) distinguendosi soprattutto nel campo degli interventi legati ai calcoli tecnica che egli aveva affinato nei suoi studi precitati. Nel contempo coltivò il dono innato di una vena poetica fluente, dotta, arguta e spesso estemporanea, cimentandosi con successo sia nella lingua italiana, sia in quella siciliana. Inoltre, il nostro fu un appassionato cultore di numismatica ed archeologia siciliana. Il La Manna, pertanto, a pieno titolo entrò a far parte del locale consesso dell’Accademia Euracea, assumendo lo pseudonimo di Filecide Pernicio. Ricordiamo che questa accademia, inizialmente sorta per affrancarsi dalla dipendenza dell’Ereina palermitana, aveva preso la sua denominazione dal Monte S. Calogero od Euraco, ritenuto antica sede dei mitici pastori imeresi, era sorta il 12 Gennaio 1774, per volere dei dotti sacerdoti Giuseppe Maria Gargotta-La Càvera (Termini Imerese, 1746 – ivi, 4 Gennaio 1823), Antonio Comella-Fileti (Termini Imerese, 16 Ottobre 1741, ivi, 20 Marzo 1815) e Giuseppe Ciprì (Termini Imerese, 1743 – Palermo, 13 Dicembre 1809), perdurando almeno sino al primo decennio dell’Ottocento. Essendo poi «da più anni» non frequentata, l’Euracea fu riaperta il primo Maggio 1822 con un discorso di Niccolò Palmeri dei baroni della Gasèna (cfr. N. Palmeri, Discorso di Niccolò Palmeri letto nell’Accademia Euracea-imerese di Termini, per lo riaprimento [sic, la riapertura] della stessa il giorno 1.° Maggio 1822, in “Giornale di Scienze Lettere e Arti per la Sicilia”, anno II, tomo VIII., Solli, Palermo 1824, pp. 3-23). con l’auspicio che, escludere la poesia, fossero maggiormente coltivate le scienze storiche, quelle economiche e quelle naturali.

La produzione poetica migliore di Antonino La Manna fortunosamente ci è stata tramandata, almeno in parte. Presso la Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese (d’ora in poi BLT) si conservano due sillogi di poesie del La Manna. La prima, in siciliano, senza data, fu donata dal nipote, il farmacista termitano dottor Giuseppe Caracciolo La Manna (figlio del dottor Vincenzo Caracciolo e di Maria Paola La Manna) nel 1883, come attesta una lettera ai deputati di detta istituzione; mentre la seconda, in italiano, risale probabilmente agli inizi del XIX secolo. Nella biblioteca comunale di Palermo (d’ora in poi BCP), si conservano del La Manna alcuni componimenti poetici autografi, probabilmente inediti, inseriti nella silloge cartacea manoscritta curata da Agostino Gallo, Poesie varie di diversi autori, edite e inedite, latine, italiane e siciliane, ai segni 4Q 9 D 24: 1. Ritrattu a musaicu di una futura desiderata proli di S. E. lu signuri duca di Camastra [Giuseppe Lanza Branciforte]; elegia (c. 144-145); 2. Ottave siciliane autografe del dottor Antonino La Manna sopra i maccheroni (c. 146-149, particolarmente interessante per gli studi sulla pasta siciliana); 3. Per la morte di Coridone Melibo, 5 sonetti (c. 150-152) dedicati al notaio e letterato termitano Antonino Maria Benincasa che presso gli euracei era noto con il detto pseudonimo.

Nel 1818 giunse in Sicilia, preceduto da una grande fama di poeta improvvisatore, il toscano Bartolomeo (Bartolommeo) Sestini (San Mato o Santomato, Pistoia, 14 Ottobre 1792 – Parigi, 11 Novembre 1822), che in virtù della sua fertilissima vena poetica, era in grado di comporre estemporaneamente quartine, terzine ed ottave di ispirazione teocritea e bucolico-virgiliana, con reminiscenze tassiane. Il Sestini, grazie ai suoi numerosi viaggi, attraverso adunanze pubbliche fu acclamato in tutta l’Italia; ma sotto la copertura di poeta improvvisatore, egli propagò e rinvigorì ampiamente l’organizzazione della Carboneria. Nel 1818, Sestini approdò a Messina, percorrendo poi l’isola sostando in numerosi centri urbani che svolgevano un ruolo strategico per la diffusione della setta carbonara: Catania, Girgenti oggi Agrigento, Caltagirone, Piazza, oggi Piazza Armerina, Pietraperzia, Caltanissetta, Termini, Palermo e Trapani. In queste città il Sestini apri direttamente delle “vendite” o rinvigorì l’associazione segreta i cui adepti, negli anni seguenti, avrebbero dato vita a locali sedi dell’associazione segreta. Tutto sembrava procedere per il meglio, quando si ebbe un vero e proprio colpo di scena: a causa della delazione di un certo Oddo che sotto copertura svolgeva attività spionistica, nell’Aprile del 1819 il Sestini fu arrestato a Palermo,  incarcerato duramente e liberato solo il 20 Luglio a condizione di lasciare la Sicilia. Alla fine del detto mese, da Messina si imbarcò alla volta di Livorno e da lì giunse poi a Pistoia (cfr. A. Vannucchi, a cura di, Poesie edite ed inedite di Bartolommeo Sestini e notizie biografiche, Cino, Pistoia 1840, pp. 24-29; R. Falci, Scienziati e Patriotti negli albori del Risorgimento. I Leonardi Cattolica 1557 – 1924. La Carboneria e la Rivoluzione del 1820. I Barbaristi al Pretorio di Pilato nella Valle di Girgenti: 1823 – 1840, Priulla, Palermo 1926, 184 pp., in particolare, pp. 66-102; G. Zaccagnini, Della vita e delle opere di Bartolomeo Sestini, Pacinotti, Pistoia 1938, 100 pp., 1 fig., in particolare, cap. III, Il Sestini carbonaro e cospiratore in Sicilia e in Toscana, pp. 22-38).

L’opera del Sestini innescò il rinnovamento dell’attività della Carboneria che si diffuse ampiamente preparando le basi dell’insurrezione, attraverso un sotterraneo intenso proselitismo. Finalmente, nel Giugno del 1820, scoppiarono in Sicilia dei moti legati ad un anelito di rivalsa verso il centralismo borbonico (favorevole alla parte continentale del regno).

A Termini Imerese, nell’ottobre di tale anno, sorse dapprima una vendita della detta società segreta sotto la denominazione di Figli di Stenio con sede nella parte alta della cittadina e, in particolare, nelle stanze della sacrestia della chiesa di San Giovanni Battista (di cui rimane la torre campanaria ed altri ruderi nel perimetro della villa  comunale), della quale fu Gran Maestro, inizialmente un ufficiale delle truppe napoletane e, successivamente, il cav. Mariano Di Michele e Di Michele, dei baroni di San Giuseppe. Un’altra vendita, detta dei Figli di Ercole fu poi aperta nella parte bassa della cittadina, presso il convento di San Francesco di Paola ed ebbe come Gran Maestro proprio il nostro Antonino La Manna [cfr. B. Romano, Notizie di ciò che accadde nella città di Termini nel 1820 e 1821 durante la rivoluzione siciliana, ms. BCP, ai segni 4 Qq D 79; V. Labate, Un decennio di Carboneria in Sicilia: (1821-1831), Società editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati & C., Roma-Milano 1904,  394 pp., nello specifico, p. 217). Non è certamente casuale la scelta di Antonino La Manna, che con tutta probabilità doveva aver avuto il precedenza contatti con il Sestini, vista anche la comune passione per la poesia estemporanea.

Ancora il La Manna, in qualità di deputato agli studi, assieme al canonico don Giuseppe Balsamo (Termini Imerese, 3 Maggio 1768 – ivi, 14 Dicembre 1851), fu l’artefice della risolutiva sostanziale riforma nell’organizzazione scolastica del Collegio degli studi di Termini Imerese, attraverso una attenta opera non solo di incremento e perfezionamento delle cattedre, ma anche di aggiornamento dei programmi. Egli fu professore d’ostetricia nel detto collegio degli Studi tenendo corsi per istruire le levatrici (mammane) in questa professione così delicata. La migliore allieva fu una certa Benedetta Calcagno che «mostrasi ora al fatto del suo mestiere per modo che può  sostenere l’onor del maestro co’ più probi ostetrici siciljani» (cfr. G. Algeri-Fogliani, Prospetto delle Scienze, e della Letteratura del Secolo Decimonono in Sicilia…cit., p. 6).

Il La Manna ed il Balsamo, inoltre, verso la fine degli anni 30’ dell’Ottocento, fondarono, la locale scuola elementare di carità, per i figli dei poveri, assolutamente gratuita, dove si applicava il metodo lancasteriano. Questa scuola (per un certo periodo diretta dallo stesso La Manna) adottava il metodo pedagogico messo a punto dal pedagogista-pedagogo e filantropo inglese il quacchero Joseph Lancaster (Southwark, Londra, 25 Novembre 1778 – New York, 23 Ottobre 1838), basato sul concetto di mutuo insegnamento ed ampiamente utilizzato per fornire i rudimenti dell’istruzione. Il maestro, al fine di gestire un elevato numero di discenti, suddivideva la classe in tante “squadre” di circa una decina di scolari, raggruppati in base al loro grado di cognizione. Ogni squadra era ammaestrata ad un “monitore” (monitor o prefect), cioè uno scolare più brillante o più abile che, a sua volta, spiegava quanto aveva appreso in precedenza dal maestro, essendo adeguato per quel ruolo, in base al suo rendimento. 

Il 19 Ottobre 1840, la quarantunenne Donna Maria Paola La Manna sposò il concittadino ventiseienne cerusico Dottor Don Vincenzo Caracciolo, figlio dell’aromataio Don Giuseppe e di Donna Carmela Gatto (cfr. Archivio di Stato di Palermo, d’ora in poi ASP, Stato civile della restaurazione, 1840, Matrimoni, Segnatura attuale: vol. 87, 19 Ottobre 1840, n. 39). Nell’Atto della solenne promessa di celebrare il matrimonio, redatto il 16 Ottobre 1840, viene specificato che lo sposalizio avvenne per procura, stipulata agli atti di notar Francesco Saverio Sperandeo di Termini Imerese, addì 13 del detto mese ed anno, in favore del concittadino Don Michele Salvo, di anni quaranta, di professione cerajolo, figlio del fu Don Bartolomeo. Da notare che nel detto atto, relativamente alla madre della sposa, Donna Emmanuele Albero, non appare specificata né l’età né il luogo della sua residenza. Ciò si spiega con il fatto che i coniugi Antonino La Manna ed Emmanuela Albero si erano precedentemente separati e la donna aveva lasciato definitivamente  il marito a Termini Imerese. All’atto furono presenti: Rocco Cusimano di anni sessantadue, di professione contadino; Salvadore Inserra, di anni ventotto, di professione facchino; Michele Bisesi, di anni trenta, di professione contadino; Leonardo Corso, di anni quarantadue, di professione facchino.

Nell’Agosto del 1843, Antonino La Manna terminava la sua lunga opera di versione siciliana delle Odi Anacreontee. Queste ultime, si attribuivano un tempo ad Anacreonte (isola di Teo, c. 570 a. C. – Atene?, c. 485 a. C.),  mentre oggi la critica è propensa a riferirne la paternità ad alcuni imitatori vissuti soprattutto in epoca alessandrina con aggiunte successive, addirittura secondo alcuni sino al X sec. d. C. (cfr. J. Kecskeméti, B. Boudou, H. Cazes, Henri II Estienne, éditeur et écrivain,  Brepols, Turnhout 2003, LXVIII+764 pp., 4 ill. b. n.). La loro editio princeps fu pubblicata poco dopo la metà del Cinquecento dall’umanista, curatore ed editore francese Henri Estienne (Parigi, 1528? – Lione, 1598), noto soprattutto nella versione latinizzata del nome e cognome Henricus Stephanus, con il titolo Ἀνακρέοντος Τηΐου μέλη. Anacreontis Teij odæ ab Henrico Stephano luce & Latinitate nunc primum donatæ, apud Henricum Stephanum, Lutetiae MD. LIIII., VIII+110+II pp.

Finalmente, l’opera del La Manna, composta da 110 pagine, veniva pubblicata presso la stamperia Francesco Lao di Palermo, con il titolo Le Odi di Anacreonte tradotte in versi siciliani da Antonio La Manna con altre poesie, con testo siciliano e latino, dedicandola all’amico cavaliere barone Gioacchino La Lomia, Presidente della Gran Corte Civile e Cancelliere della Regia Università di Catania. In tale pubblicazione, alla traduzione siciliana delle odi anacreontiche si uniscono altre liriche vernacolari originali. Nella detta pubblicazione, sono contenuti anche i «Cenni sulla vita d’Ignazio La Manna» (pp. 139-144) che, allo stato attuale delle ricerche, rappresentano l’unica fonte per tratteggiare la breve esistenza di questo bambino prodigio.

Il Dottor Don Antonino La Manna, si spense poi nella sua città natia il 13 Settembre 1844 alle ore ventidue, vedovo di Donna Emmanuela D’Albero, di anni settantatré, di professione cerusico, figlio di fu Don Ignazio e di fu Donna Paola Cancila (cfr. ASP, Stato civile della restaurazione,  1844, Morti, Segnatura attuale: 178, 14 Settembre 1844, n. 272 f. 135v). Secondo Francesco Denaro Pandolfini, il ritratto in miniatura di Antonino La Manna sarebbe stato realizzato da un fantomatico «Walchoff pittore russo» che invece, a nostro avviso, sarebbe da identificare con il pittore tedesco Johann Julius Walckhoff (1786-1822), che soggiornò a Roma dal 1815 c. dove morì suicida nel 1822 (cfr. F. Noack, Das Deutschtum in Rom seit dem Ausgang des Mittelalters, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart-Berlin-Leipzig 1927, 2 voll., XII+767.668 pp., in particolare, vol. II, p. 624).

Il già citato Mariano Di Michele, l’anno seguente gli dedicò i Cenni su la vita del dottor Antonino La Manna  (Francesco Lao, Palermo 1845). Successivamente, oltre quaranta anni dopo, Francesco Denaro Pandolfini volle offrire alla memoria dell’illustre medico e poeta, un saggio biografico la cui stampa fu finanziata dagli avvocati commendatore Biagio e Rosario La Manna (cfr. F. Denaro Pandolfini, Sulla vita e gli scritti di Antonino La Manna. Studio di Francesco Denaro Pandolfini, Tip. del Giornale di Sicilia, Palermo 1887, 132 pp.).

Ignazio La Manna nacque a Termini Imerese il 26 Giugno 1802, dai detti Antonino La Manna ed Emmanuela Albero. In quel torno di tempo, imperversava gravemente l’epidemia di vaiolo che mieteva vittime. Il bambino, purtroppo, contrasse l’infezione quando aveva due mesi, superando poi, apparentemente senza conseguenze, la malattia. Ignazio ebbe uno sviluppo «precocissimo» ed in pochi mesi iniziò a camminare e ben prestò anche a parlare «con una voce dolce e sonora».

Per le «feste carnevalesche», «a fine di divertire l’animo», come «i tempi richiedevano» si usava di tenere un’apposita adunanza accademica in casa Palmeri. Questo episodio documenta che già agli inizi dell’Ottocento il carnevale era allietato da riunioni nelle case patrizie dove si allestivano sedute accademiche con la recita di componimenti scherzosi.

Antonino La Manna, in qualità di socio dell’Accademia Euracea, decise di comporre un sonetto per tale riunione e, per ingentilire l’occasione, pensò di farlo recitare a memoria alla figlia Paolina, ancora fanciulla.  Antonino, pertanto, in casa propria faceva ripassare le strofe del suo sonetto alla figliola, in modo da essere pronti per il giorno della recita, alla presenza della moglie che allattava il piccolo Ignazio. Un giorno, Paolina, nel ripetere il sonetto paterno si arrestò improvvisamente, non ricordando più il seguito dei versi. Inaspettatamente, Ignazio, non solo suggerì la continuazione, ma seppe dire esattamente l’intero sonetto. Il padre, dopo l’iniziale sbigottimento, pensò bene di affidare la recita proprio al piccolo Ignazio, invece che a Paolina. Venuto il giorno della recita carnevalesca nell’accademia, Antonino condusse con sé il piccolo Ignazio in casa Palmeri, e terminata l’esposizione dei vari componimenti, pose su di uno scranno il fanciullo che recitò il sonetto interamente e senza alcuna esitazione, con grandissimo stupore di quanti presiedevano, «i quali tutti ne fecero ben augurati pronostici».

Da quel giorno, il padre pose ogni pensiero ad istruire il bambino, attraverso la lettura delle opere dei migliori verseggiatori italiani, come quelle del poeta, scrittore, drammaturgo e filosofo Torquato Tasso (Sorrento, 11 Marzo 1544 – Roma, 25 Aprile 1595) «di cui i due versi a coppia portavano una viva impressione all’orecchio del nascente poeta, che pregava il padre a ripeterli di nuovo»; del poeta, librettista e drammaturgo, Pietro Metastasio (pseudonimo di Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi, Roma, 3 Gennaio 1698 – Vienna, 12 Aprile 1782), «le cui ariette vivamente lo colpivano», tanto da volere «mandarle a memoria». Il bambino rimase molto impressionato dalle poesie vernacolari di Giovanni Meli (Palermo, 6 Marzo 1740 – ivi, 20 Dicembre 1815), «principe della siciliana poesia» che frequentemente voleva che il padre gli leggesse. Era allora Antonino occupato a tradurre in siciliano le odi di Anacreonte ed Ignazio volle impararne alcune «che molto si addicevano alla sua tenera età, come la seconda, la decima, l’undecima, e più la quarantesima»; di alcune delle quali sapeva ancora la versione toscana del giurista, librettista e traduttore Francesco Saverio De Rogati (Bagnoli Irpino, 9 Gennaio 1745 – Napoli, 9 Agosto 1827), e della XL la traduzione latina di Enrico Stefano che spiegava meccanicamente in italiano.

Antonino, tramite l’utilizzo di giochi fanciulleschi riuscì a far imparare ad Ignazio le favole di Esopo (Menebria, c. 620 a. C. – Delfi, 564 a. C.) e di Jean de La Fontaine (Château-Thierry, 8 Luglio 1621 – Parigi, 13 Aprile 1695), ed il bambino gareggiava giornalmente con altri fanciulli al   fine di accaparrarsi dei piccoli premi. In occasione di festeggiamenti, Ignazio imitando il padre, nei brindisi componeva e declamava dei versi, in maniera estemporanea, seguendo la metrica e la rima. Nelle adunanze dell’accademia Euracea, il bambino recitava i componimenti composti dal padre, «e ricolmo di applausi se ne ritornava giulivo e festante a casa».

Un giorno giunse nella cittadina imerese un improvvisatore toscano, ed «Ignazio nell’udirlo sentissi accendere ad imitarlo; onde anch’egli quindi si diede ad improvvisare qualche graziosa stanzina. In casa del sig. D. Giuseppe Dr. Salemi invitato a fare una canzoncina per il sig. D. Paolo Sanzone [sic, Sansone], oggi cappellano militare, la fece bernesca [secondo la maniera del poeta satirico toscano Francesco Berni (1497 o 1498-1535)], accoppiando la rima di Paolo, a quella di Sparapaolo, suo sopranome. In questa occasione usci anche ad improvvisare un certo calzolajo Antonio Zavatteri, amante di cantilena, e quando improvvisava innanzi ad Ignazio, se mancava del dovuto accento, o della regolare misura, Ignazio alzando la mano gridava “versu fausu!” e metteva in brio tutti gli ascoltatori».

Nel 1807, quando Ignazio aveva già compiuto cinque anni, durante una riunione in casa Palmeri,  la baronessa volle regalare alcuni dolcetti al bambino che, su invito di uno dei figli della nobildonna, «cantò due stanzine in lode di quella Signora», in presenza di molti notabili termitani tra i quali «il cavaliere D[on]. Mariano Demichele [e Demichele, accademico euraceo con lo pseudonimo di Laurillo Signoresio], persona di lettere». Similmente, «nella casa Faso ebbe a tema, oltre le sue forze, una descrizione di primavera, ed avute dal padre alcune idee, vi cantò sopra con molta lode».

Verso la fine del sesto anno il piccolo Ignazio assieme al padre fu ospite presso i signori Gargotta, nella loro bella casa signorile sita nella Strada del Cavaliere (attuale Via Gregorio Ugdulena). Ivi, le sorelle Gargotta spronarono il bambino a recitare alcune poesie, ed egli scelse la quarantesima ode anacreontica, tradotta in latino da Enrico Stefano, in italiano dal Derogati, in siciliano dal padre. Tutti rimasero colpiti dalla «grazia e naturalezza» del bimbo, e «dopo averlo tutti ricolmato di baci […], la più svelta [delle sorelle Gargotta], meravigliando, disse «Talè chi mi fa vidiri stu schravagghiu! [sic]». A queste parole «Ignazio si accese di un fuoco insolito, ed improvvisò una canzoncina di cinque stanzine». Quella canzoncina improvvisata dal piccolo Ignazio fu fortunatamente trascritta da una delle sorelle Gargotta: Mi dissi scravagghiu; / Ni sugnu currivu: / Su curtu, ed arrivu / Di ccà finu ddà. / Si su picciriddu, / La menti aju granni; / Ca un su varvajanni, / Ognunu lu sa. / Su Manna [fibra di lino sottoposta a pettinatura per prepararlo al processo di filatura] viraci, / Nun sugnu linazza [scarto legnoso distaccatosi dal fusto del lino durante la gramolatura procedimento per liberare la fibra tessile] / Poeta di razza / Nascivi e ci su. / Cui eni miu patri, / Vui già lu sapiti: / Appressu viditi  / Lu figghiu cui è. / Mi fidu di fari / A vui qualchi tagghiu [allusione alla professione paterna di chirurgo] / Stu nicu scravagghiu / Viditi cui è.

Purtroppo, gli effetti del morbo che alla nascita aveva infettato il piccolo Ignazio, divennero in breve tempo talmente palesi da confinarlo in un letto, fino a togliergli immaturamente la vita, il dì 21 Aprile 1809, «contando di età anni sei, mesi nove, giorni venticinque», con grande rammarico e commozione, non solo della famiglia e degli accademici euracei, ma di tutta la cittadina imerese. Pochi giorni prima, Ignazio, dal suo lettino, aveva sentito parlare il padre con il canonico Don Francesco Ciofalo (arcadico euraceo con lo pseudonimo di Nealbo Eraclito), relativamente alla seduta accademica che si era tenuta per la scomparsa del già citato notaio Don Antonino Maria Benincasa. Il bimbo, a quel punto espresse al padre il desiderio di aver dedicati anche lui dei versi il giorno della sua morte. Udite queste parole, Antonino, trattenendo a stento la propria commozione, aveva baciato il figlio promettendogli di esaudire le sue volontà con un apposito componimento al quale egli diede come titolo L’ombra del figlio mio.

Donna Marina Gargotta, che si era molto affezionata al piccolo Ignazio, ne volle disegnare il ritratto (nella foto), da cui fu poi tratta la delicata opera dell’incisore, illustratore di libri, pittore e ritrattista, Giuseppe Di Giovanni (Palermo, 1817 – ivi, 1894). La bella incisione, allegata al precitato volume, pubblicato nel 1843 da Antonino La Manna, reca in basso l’iscrizione voluta e composta dal letterato corleonese Don Francesco Paolo Nascè (1763-1830), accademico euraceo con lo pseudonimo di Citisso Lucino: IGNATIO · LA MANNA ·  THERMITANO · PVERVLO · DVLCISSIMO / MVSIS · NATO / ANTONINVS · PATER · DELICIO · SVO / IMMATVRA · MORTE · RAPTO / AD · DOLORIS · SOLATIVM / VIX[IT] ·  ANN[IS] · VI · M[ENSES] · IX · D[IES] · XXV · OB[IIT] · D[IE] · XXI · APR[ILIS] · MDCCCIX ·
Si chiudeva così la breve parentesi terrena del piccolo enfant prodige Ignazio La Manna, degno rappresentante dell’estro poetico del popolo siciliano e, nello specifico, termitano.
Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo palesare la nostra più sincera gratitudine, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità, rispettivamente, al direttore ed al personale delle biblioteche comunali, “Leonardo Sciascia” di Palermo e Liciniana di Termini Imerese, nonché dell’Archivio di Stato di Palermo (sezione Gancia). Un ringraziamento particolare va a: don Francesco Anfuso ed a don Antonio Todaro per averci permesso di effettuare basilari ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.