Raffaele La Capria e la sua Napoli: Un filo d’Arianna lungo cent’anni

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Un filo sottilissimo corre silente tra me e Napoli. Quasi un amore segreto. Galeotto fu il Premio Elsa Morante, della cui giuria mi onoro di far parte da tempo.

Di quella giuria ha occupato un posto importante, fino alla fine degli anni Novanta, Raffaele La Capria. Un mito.

Lo incontrai proprio lì, a Napoli, nel 2005, un grande anno per il Premio; un Premio di Grandi.

Lui, La Capria, non era più in giuria ormai da un lustro, ma era ritornato con gioia sul Palco di quel gioiello che è il Teatrino di Corte del Palazzo Reale (dove allora si celebrava il Morante) per ritirare il Premio conferitogli per la sezione Narrativa. Il libro premiato era “L’Estro quotidiano”, una raccolta di scritti memorialistici che lo aveva visto insignito, quello stesso anno, del Premio Viareggio.

Nel 2005, il palco del Teatrino di Corte vide un altro grande, il polacco Ryszard Kapuściński, fregiato del Premio “Culture d’Europa”.

La Capria, che oltre ad essere scrittore, saggista, sceneggiatore, era anche un buon linguista e un apprezzato traduttore, poté intrattenersi a lungo con Kapuściński. Due Grandi a confronto, avvolti dall’immenso e struggente Golfo di Napoli. (Mai  sfondo fu più poetico). Io che facevo da testimone di un momento di cui adesso sono gelosa e fiera custode. Giornalisti che impazzavano.

Eppure era sempre lei, Napoli, la protagonista.

E Napoli, di fatto, è sempre presente nelle opere del Nostro, Signora e filo d’Arianna, di continuo occhieggiante in un misterioso e poeticissimo gioco segreto.

Di Napoli, La Capria parla, in particolare, ne L’armonia perduta (1986), seguendo un delicato filo di sutura fra memoria e immaginazione, storia e letteratura.  Napoli è una “città incompiuta” che ha smarrito la propria armonia dopo la strage dei patrioti della Rivoluzione giacobina del 1799. Tesi ricorrente in molta letteratura, del resto. Che però La Capria aggiorna con una nota antropologica. Dalla tragedia e dal martirio si giunge alla sublime consonanza di stili fra uomo e natura, arrivando a quel concetto noto e diffuso come napoletanità.

La canzone fine Ottocento, primi Novecento ne è un vessillo. Un surrogato, più falsamente popolaresco, è invece la napoletaneria, priva persino del garbo e del disincanto della napoletanità. È come se, agli occhi di La Capria, la storia di Napoli si fosse incagliata nella frattura fra intellettualità e plebe.  

Di sapienza raffinata eppure mai esibita, in un saggio uscito nel 2001, Lo stile dell’anatra, sosteneva che, al pari del palmipede che, senza sforzo apparente, fila dritto sul pelo dell’acqua mentre sotto agita velocemente le zampette, così la scrittura e il pensiero che corre sotto di essa, dovrebbero procedere insieme, senza strappi e singhiozzi, senza foga o forme di artificio.

La sua era un’aspirazione letteraria, ma anche una predilezione intellettuale e di vita: lo stile dell’anatra, scriveva La Capria, è quello che “non si lascia trasportare dalla corrente che scorre lungo tutto il secolo breve e lo caratterizza in modo particolare ed eccessivo privilegiando gli stili dell’estremismo, ma risale verso la sorgente, dove l’acqua è più chiara e meno turbata”.

Moltissimo del La Capria romanziere e uomo si potrebbe sintetizzare in poche, semplici parole: eleganza del parlare mai ricercata; mitezza dell’argomentare, legata e collegata a una contenuta ironia; rifiuto di apparire e di presenziare; disdegno per tutto ciò che è eccesso.  

“Sono uno scrittore che non ha mai superato la linea del successo vero. Come diceva Ennio Flaiano, mi considero un minore interessante”, diceva di sé.

In fondo i suoi libri, una ventina, sono una specie di lunga storia a puntate al centro della quale si colloca il “poetico litigio” fra sé stesso e la sua città. Senza che questo abbia nulla di angusto, essendosi fin dagli esordi liberato di qualunque contatto con il colore locale: “L’oro di Napoli, diceva, è un metallo falsificato da troppi e compiaciuti trattamenti”.

Ferito a morte (1961), un romanzo che vale un’intera carriera letteraria, è la prima parte di quella storia a puntate che quella storia un po’ la contiene tutta. Il paesaggio è dominato da Palazzo Donn’Anna, metà caseggiato incompiuto e metà surreale sporgenza marina, che nel 1640 il viceré Ramiro Guzman commissionò all’architetto Cosimo Fanzago per la sua consorte Anna Carafa. Intorno a quell’edificio si svolge la giornata (“la bella giornata”) di un gruppo di giovani della buona borghesia, un po’ sfaccendati, un po’ vitelloni, uno dei quali, lo scrittore stesso, è in partenza per Roma (il finale sposta la vicenda ad alcuni anni dopo). Il romanzo vince lo Strega ma i giudizi critici sono controversi, soprattutto per la struttura sintattica, mossa e a tratti sincopata.

Ferito a morte attraversa il tempo, supera squallide polemiche sollevate da certa stampa locale e taglia il traguardo vincendo il premio Strega. Era il 1961.

Da sceneggiatore, La Capria vince il Leone d’Oro a Venezia per il film “Le mani sulla città” di Rosi. Era il 1963.

Collabora anche alla sceneggiatura di tanti altri film come ‘Uomini contro’ e ‘Cristo si è fermato a Eboli‘ di Rosi; ‘Sabato, domenica e lunedì’ della Wertmuller e ‘Una questione privata’ di Alberto Negrin.

Proprio grazie al cinema conosce sua moglie, l’attrice Ilaria Occhini, nipote dello scrittore Giovanni Papini, scomparsa nel 2019.

Era il 1961, l’anno dello Strega. Un doppio Strega.

La Capria lavora anche a certa semantica del linguaggio. Tornano, nel corso di altre “belle giornate”, alcune parole-simbolo. Ami, esche, patelle, ricci, saraghi, gamberi, mazzoni, vavose, rancifelloni formano un glossario che da Ferito a morte percorre, insieme alla toponomastica più strettamente napoletana, gran parte della sua produzione. Glossario che negli anni si è intensificato, quasi lui volesse smentire la fama di un’inveterata pigrizia che l’aveva tenuto inchiodato a Ferito a morte. Negli ultimi vent’anni sono arrivati, fra gli altri, Letteratura e salti mortali (1990), Capri e non più Capri (1991), L’occhio di Napoli (1994), Napolitan Graffiti (1998).

Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali del quotidiano milanese “Corriere della Sera”. Eppure la sua opera è sempre rimasta imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista, uomo che credeva nell’amicizia e nei suoi valori. Per lui era la “Foresta Vergine” capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita “una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”.

Era il suo filo d’Arianna.

Da Napoli non se n’era mai andato.

E neppure io.

Teresa Triscari