Senso di appartenenza, trasmigrazione dell’anima, ritorno agognato in una Sicilia mitica dove verde intenso e zagara bianchissima fluiscono e confluiscono in un unicum di linguaggi e prose dell’anima.
In “Iceberg”, il romanzo di Liana D’Angelo, si avverte subito, sin dalle prime parole, un rincorrersi e un accavallarsi di grappoli di note, di diagrammi musicali, di suoni, di frantumazioni e ricomposizioni di linguaggi. Quasi un aggrovigliamento.
La musica, certo, Liana D’Angelo ce l’ha nella sua formazione, nel suo io.
Mi chiedo: l’autrice scrive su un foglio di carta o su un diagramma musicale?
I due linguaggi si rincorrono e si intersecano di continuo, a vicenda.
Ho conosciuto Liana D’Angelo, la musicista, per caso, alcuni anni fa, nel corso di uno dei miei tanti rientri a Cefalù dall’estero dove soggiornavo per motivi di lavoro. Era una sera d’estate. La cornice: il suggestivo atrio del cinquecentesco palazzo vescovile, lì, a ridosso di quella Rocca che mi ha sempre affascinata. L’ho ascoltata, mi ha subito convinta. Lo scrissi in una mia recensione del tutto estemporanea. Lo confermo.
Adesso incontro Liana nella storica sala delle Capriate del Comune di Cefalù dove, come dice il Sindaco Daniele Tumminello, non si fa soltanto politica ma anche cultura. Ed è vero. Lei è lì, poliedrica, accogliente, elegante. È lì, musicista, attrice, cantante, scrittrice. Grande la verve di femminista, forte il suo senso di pensatrice-filosofa, di donna d’azione impegnata nel sociale, accattivante il suo estro conversevole e spiritoso, il suo brio, la sua spigliatezza.
Sulle ali de “La Barcarola” di Offenbach, sulle note di “Cuntu e cantu” della mitica Rosa Balistreri, si apre e si chiude la presentazione del libro che rimane, lì, trattenuta in un pugno di note che vengono liberate ad arte insieme alla lettura di alcuni passi del libro. Tutto opera della stessa D’Angelo.
In una dialettica che si muove tra il Bene e il Male, che prende le mosse da una citazione di Voltaire, “E’ meglio rischiare di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente”, il libro si snoda apparentemente su uno sfondo di giallo ma in realtà si articola e si sgroviglia in un percorso di analisi, di scoperta, di presa di coscienza, di catarsi, di ritrovamento del proprio io.
La cultura della D’Angelo è completa e composita, erede della grande letteratura che ha dato voce a un Pirandello, a uno Sciascia ma anche epigona della letteratura d’oltralpe, Kafka in primis, e, subito dopo, Ionescu con tutta la sua intricata logica dell’assurdo.
“Iceberg” diventa così nomen omen, espressione silente di quella sicilitudine di cui ci ha parlato Sciascia e che il nostro Assessore alla Cultura, Tony Franco, ha subito sapientemente tirato fuori da quel suo cassetto di cultura e sapere da dove riaffiora anche Nausica che, rivolgendosi al padre Alcinoo, a proposito di Ulisse, dice: “io non so chi è costui, so che è un naufrago, dobbiamo accoglierlo.”
E subito dopo, parafrasando Voltaire, il nostro assessore Tony Franco, dice: “E’ meglio rischiare di far scendere a terra dei colpevoli, piuttosto che far morire un solo innocente”. E questo messaggio Tony lo indirizza metaforicamente al nostro Ministro degli Interni dimostrandoci che il libro ha anche un forte contenuto sociale che diventa subito spunto di riflessione per consegnare la cultura alla politica come è giusto che sia ma, soprattutto, ci fa ritornare a Kafka che diceva che “la norma è l’imprevisto e l’imprevisto è la norma”.
Ed è a questo punto che ci viene in mente “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, con il suo cambiamento di identità.
Questo è, appunto, il dramma del protagonista di “Iceberg” che, dopo un arresto, un processo, una serie di fatti inquietanti, finalmente ritrova la libertà ma non recupera e non recupererà più la sua identità e, soprattutto, quel senso di appartenenza ad una Terra amata, improvvisamente divenuta Iceberg , che si alza dal pelo dell’acqua come la montagna del Purgatorio di Dante. Quel senso di appartenenza che fa tutt’uno con un territorio lussureggiante e inondato dal profumo della zagara, con quel suo bel nome di derivazione araba che significa, appunto, “candore”; quel senso di appartenenza che lui, il protagonista, avvertiva, adolescente, durante le sue corse in bicicletta su quelle distese verdissime, tra alberi che erano cascate di fiori di cristallo, verso un orizzonte lontano ma vicino, verso sé stesso, un rapporto quasi dantesco di uomo-albero. La libertà!
Quella libertà, quel senso di “appartenenza”, quei colori, quegli odori, quegli aromi che, per rimanere tali, devono restare lì, in un cassetto, chiusi, protetti: cosa che fa il protagonista della storia per potere mantenere “suo” quel mondo, con tutto quel senso di “appartenenza” degli anni felici e puri dell’adolescenza quando si scala la collina del divenire.
Quando ancora si crede!
Teresa Triscari
Liana D’Angelo
Iceberg
Casa ed. Dialoghi
Ottobre 2022
Euro 15,00