La calzante definizione di “oro blu”, di Maude Barlow (direttrice dell’International Forum on Globalization e co-fondatrice del Blue Planet Project) e di Tony Clarke (direttore del Polaris Institute on corporations for International Forum of Globalization), allusiva all’acqua, evidenzia come questo composto rappresenti senza dubbio alcuno la risorsa basilare e prioritaria, il preziosissimo bene comune dell’Umanità che però, nel criterio del profitto, finisce per rivestire un interesse meramente economico tale da essere ragguagliato a un bene di “consumo” e di “mercato” (cfr. M. Barlow, T. Clarke, Blue gold. The battle against corporate theft of the world’s water, Earthscan Publication Ldt., London 2002, 278 pp.; V. Shiva, Water wars. Privatization, pollution and profit, South End Press, New Delhi-London 2002, 158 pp.).
Gli anni 20’, 30’ e 40’ del Cinquecento, caratterizzati da diverse siccità, alcune delle quali di grande entità ed estensione areale a scala regionale, pluriregionale ed addirittura continentale, con durate talvolta annuali o pluriennali, videro spesso in Europa la nascita di tensioni relative all’accesso, all’uso ed al controllo delle risorse idriche.
Nel regno di Sicilia, posto al centro dell’area mediterranea, in relazione al bene acqua, a livello locale nacquero spesso situazioni di protesta, di scontro, di latrocinio legate ad eventi siccitosi, alcuni dei quali vicini l’uno all’altro o addirittura in successione, che diedero origine ad una vera e propria sequela di provvedimenti da parte delle autorità, soprattutto civiche, per contrastare il loro diffondersi. Di tali eventi si possono rintracciare diversi riscontri nelle fonti documentali. Queste ultime, sono costituite da una ampia gamma di documenti storici sincroni ben affidabili, contenenti informazioni di prima mano sugli eventi meteo-climatici e sui fenomeni ad essi correlati nonché sul loro impatto socio-economico ed ambientale [cfr., ad es., S. White, C. Pfister, F. Mauelshagen, (Eds.), The Palgrave Handbook of Climate History, Palgrave Macmillan, London 2018, 656 pp.].
Occorre sottolineare che le fonti sincrone, relative al periodo investigato, appaiono datate secondo il calendario giuliano (promulgato da Giulio Cesare nel 46 a. C.) allora in vigore. Il calendario giuliano aveva un margine di errore di 11 minuti e 14 secondi ogni anno, che in 128 anni si sommavano fino a raggiungere un giorno, per cui nel corso dei secoli era sorta un notevole sfasamento nelle date delle festività (cfr. M. Kunzler, La liturgia della Chiesa, volume X, Jaca Book, 2003, 622 pp., in particolare, pp. 518-521). Papa Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni (1501/1502–1585), riformò il calendario introducendo quello gregoriano che da lui prese il nome. Il papa, con la bolla Inter gravissimas, promulgata a Villa Mondragone, presso Monte Porzio Catone, Roma (Datum Tusculi) il 24 Febbraio 1582 (seguendo lo stile dell’Incarnazione, secondo il modo fiorentino: anno Incarnationis dominicæ MDLXXXI, sexto Kalendas Martii, pontificatus nostri anno X), stabilì che il giorno successivo al 4 Ottobre (dies, qui festum S. Francisci IV Nonas celebrari solitum sequitur) di quell’anno, con un salto di dieci giorni doveva divenire il 15 Ottobre (dicatur Idus Octobris). Pertanto, alle date riportate nei documenti da noi reperiti, antecedenti al 4 Ottobre 1582, vanno aggiunti dieci giorni per esprimerli nel vigente calendario gregoriano. Noi riporteremo, di seguito, le date dei documenti da noi scoperti nella loro originaria datazione documentaria, cioè secondo il calendario giuliano ed in parentesi quella del gregoriano.
La nostra indagine archivistica è stata effettuata privilegiando ed utilizzando lo studio di fonti eminentemente primarie che esistono solamente come manoscritti originali, in gran parte inediti, molti dei quali vengono resi noti qui per la prima volta, mentre alcuni sono stati pubblicati in nostri studi precedenti. Occorre puntualizzare che, allo stato attuale, il materiale d’archivio è disponibile esclusivamente in forma cartacea, mentre la sua digitalizzazione permetterebbe una migliore preservazione delle fonti ed un livello di consultazione pari, se non superiore, rispetto all’originale manoscritto. Si tratta di fonti che costituiscono una memoria storica di incommensurabile valore per le comunità locali che dovrebbero non solo preservarne la conservazione materiale, ma renderle accessibili e fruibili in maniera ottimale.
Nella biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese (d’ora in poi BLT), è conservata la serie, purtroppo lacunosa, degli “Atti dei Magnifici Giurati della Splendidissima e Fedele Città di Termini” (mss. sec. XVI–XIX), registri amministrativi della cittadina imerese, prevalentemente inedita, rimanendo in forma manoscritta come fondo archivistico.
Oltre a ciò, vi sono dei grossi faldoni che raccolgono un gruppo di spezzoni di registri pervenutici mutili, dal 1516 al 1589. Non si comprende quale sia stato il criterio razionale nella raccolta dei frammenti, visto che spezzoni appartenenti a medesimi anni appaiono conservati in faldoni differenti, complicando inutilmente la ricerca per chi desidera prenderne visione, armandosi di pazienza e di perseveranza, mosso dalla passione per una indagine basata su fonti contenenti dati coevi ed ufficiali.
La documentazione cartacea manoscritta consultata appare spesso di difficile lettura, sia per le pessime calligrafie degli estensori, sia perché spesso si mostra in condizioni non ottimali, che sono il risultato di una complessa sovrapposizione di diversi processi: esposizione pregressa a condizioni di umidità, invecchiamento naturale della carta, composizione degli inchiostri e la mutua interazione tra supporto ed inchiostro, capace di innescare reazioni chimiche, sia di natura corrosiva, sia di degrado ossidativo della cellulosa con imbrunimento più o meno accentuato attorno agli scritti (cfr. B. Reissland, Ink Corrosion. Aqueous and Non-Aqueous Treatment of Paper Objects – State of the Art, in “Restaurator – International Journal for the Preservation of Library and Archival Material”, 1999, January 1, vol. 20 (3–4), pp. 168–169; A. Stijnman, Historical Iron-gall Ink Recipes. Art Technological Source Research for InkCor, in “Papier Restaurierung”, 2004, 5, 14–16; A. Potthast, U. Henniges, G. Banik, Iron gall ink-induced corrosion of cellulose: aging, degradation and stabilization. Part 1: model paper studies. “Cellulose”, 2008, vol. 15, pp. 849–859).
Nelle miscellanee manoscritte “Frammenti degli Atti dei Giurati della Splendidissima e Fedele Città di Termini”, ai segni III 10 1 2 (d’ora in poi Frammenti A) e III 10 I 3 (d’ora in poi Frammenti B), scorrendo gli atti superstiti lacunosi, abbiamo rintracciato delle disposizioni, da parte degli amministratori comunali (giurati), volte a contrastare diverse problematiche inerenti l’approvvigionamento idropotabile domestico, irriguo e protondustriale.
Lo storico siciliano Carmelo Trasselli (Palermo, 15 Settembre 1910 – ivi, 9 Marzo 1982) ha messo in evidenza le ripetute siccità che afflissero la Sicilia tra la fine del Quattrocento ed il primo ventennio del Cinquecento.
Nel decennio 1510-1520 sono documentati in Sicilia diversi anni caratterizzati da anomalie nella distribuzione delle piogge con periodi di aridità che diedero vita a cattivi raccolti (1510, 1511, 1512, 1515, 1519).
Nel 1520-21 la Sicilia fu pesantemente colpita da una eccessiva siccità, con una marcata mancanza di piogge, che aveva determinato dei cattivi raccolti, morie di bestiame e conseguente carestia. A Palermo si fecero processioni solenni per chiedere la pioggia, invocando l’intercessione della patrona Santa Cristina. La crisi diede vita al tracollo economico di molte compagnie mercantili ed a una serie di moratorie, prolungamenti di pagamenti e di trasferimento di beni per la «sterilità del tempo».
Nel successivo anno indizionale 1521-22, la situazione peggiorò ulteriormente, anche perché nell’inverno mancarono le piogge, non si poté seminare e si assistette ad un notevole calo di portata ed addirittura il prosciugamento di molti fiumi, sorgenti e pozzi, che determinarono diffuse morie di bestiame. A Termini, centro cerealicolo d’elezione, si giunse al paradosso di dover acquistare il grano per sostentare gli abitanti della città, come documenta una petizione dell’Ottobre di quell’anno [cfr. C. Trasselli, Da Ferdinando il cattolico a Carlo V. L’esperienza siciliana (1475-1525), volume IV della collana “Quaderni di scienze umane”, 2 voll., Rubettino, Soveria Mannelli 1982, 820 pp., I, nello specifico, pp. 59-61]. Evento questo che fu veramente straordinario vista la presenza nella cittadina imerese dei grandi magazzini del Caricatore per lo stoccaggio e dazio d’esportazione. Un Caricatore che, nelle buone annate era ampiamente capace di sostentare la cittadina, di rifornire Palermo e Messina nonché di esportare grandi quantitativi fuori Regno. Tra l’altro, visto che il Caricatore aveva un notevole bacino di utenza, che comprendeva i fiumi San Leonardo (lunghezza 43 km; bacino 523 km²), Torto (64 km; 419 km²) ed Imera Settentrionale (35 km; di 342 km²), significa che la mancanza di grano colpì l’intero settore centro-settentrionale dell’Isola.
Non ci fa quindi meraviglia alcuna il fatto che le nostre ricerche archivistiche abbiano portato alla scoperta di un bando dei giurati di Termini Imerese, datato X Settembre XIIa Indizione 1523 (15 Settembre 1523), che dispose la proibizione, sia di notte e sia di giorno, di abbeverare bovini da una fontana pubblica posta nel territorio della città. Si trattava del divieto di dissetare gli armenti dalla fonte sita nella vigna di tal Marco Di Dio, ubicata nella contrada Caracoli, sotto pena di tre onze da destinarsi all’opera del baglio: «nessuno, ne [sic, né] di jorno, ne [sic, né] di notti vada ad abivirarj boj ne [sic, né] bistioli ala fontana di la vigna di marco deo alj caraculj supta pena di tre unzi a lo baglio» (Frammenti B).
Durante l’estate e l’autunno del 1526, la Sicilia fu interessata da un lungo periodo molto siccitoso. Nel territorio di Palermo non si raccolse l’uva e, pertanto, il clero preparò delle solenni processioni (rogazioni) per impetrare a Dio la grazia della pioggia, chiedendo l’intercessione di S. Cristina, protettrice della città. Il 16 Ottobre 1526 furono istituite tre solenni rogazioni per invocare la pioggia e allontanare la siccità (cfr. V. Vigiano, L’esercizio della politica. La città di Palermo nel Cinquecento, I libri di Viella, 45, Viella Libreria Editrice, Roma 2004, IX+277 pp., in particolare p. 30).
All’inizio degli anni 30’ del Cinquecento a Termini Imerese, si ebbe un susseguirsi di provvedimenti relativi alla reiterata pratica delittuosa dei furti d’acqua dalle condotte idriche dell’acquedotto comunale, di pubblica utilità. Il comune, a quel tempo, captava il gruppo sorgentizio Favara-Scamaccio, sito a SE dell’abitato, attraverso una rete acquedottistica cinquecentesca realizzata riproponendo le raffinate tecniche ingegneristiche romane adattandole alla tradizione di ascendenza arabo-normanna. Per ulteriori approfondimenti su tali scaturigini e sulla storia della loro captazione rimandiamo al recentissimo contributo: P. Bova, A. Contino, G. Esposito, Analyse historique des variations du débit provoqué par les séismes pendant les siècles XVe–XXe:: le cas de Termini Imerese (Sicile centro-septentrionale), in G. Polizzi, V. Ollivier, S. Bouffier, Eds., “From Hydrology to Hydroarchaeology in the Ancient Mediterranean: An Interdisciplinary Approach”, Archaeopress Publishing Ltd, Oxford 2022, pp. 61-75, in particolare pp. 65-72).
Non solo venivano presi di mira i già esistenti pozzi di servizio (sfiatatoi o sfiati, in siciliano spintaturi o sbentaturi), ma in maniera ancor più fraudolenta, addirittura si praticavano illecitamente nuove aperture, attraverso dei fori che scoperchiavano la condotta dell’acquedotto civico, incrementando, tra l’altro, il rischio di inquinamento, con conseguente pesanti sulla salute pubblica essendo un vero e proprio eco-crimine.
Nella miscellanea Frammenti B, ed in particolare nello spezzone del registro dell’anno indizionale 1529-30, si legge che il VI Agosto IIIa indizione 1530 (16 Agosto 1530) un bando emesso dai giurati ordinò che nessuno doveva «ne [sic, né] di nocte ne [sic, né] di jorno andari ali conducti di conducti di l’acqua et spintaturi q[ui] veni a la dicta citati [variante arcaica di città] ne [sic, né] q[ui]lli rumpiri ne fari rumpirj subta pena di onzi XXV».
Dopo quattro giorni, il X Agosto (20 Agosto 1530), fu disposto il divieto non solo di attingere acqua dalla condotta dell’acquedotto, ma anche «a li fonti et biviraturi di d[i]tta acqua». Diciassette giorni dopo, il XXVII (6 Settembre 1530), un ulteriore bando regolamentò l’uso delle due sénie dei dintorni di Termini. Ricordiamo che il lemma siciliano sénia deriva dal lemma arabo sāniya(h), pl. sawānin, ‘secchio’ (di macchina idraulica); si tratta, infatti di una ingegnoso macchinario idraulico elevatore ad ingranaggi (mosso a forza animale, ordinariamente un asino bendato), che è provvisto di una ruota sulla quale è avvolta una fune attaccata ad una serie di secchi che pescano in falda attraverso la captazione a pozzo. I secchi, salendo e scendendo secondo il movimento della ruota idraulica, attingono l’acqua del pozzo sino a trasportarla in superficie (cfr. G. B. Pellegrini, Terminologia geografica araba in Sicilia, Estratto da: Istituto universitario orientale di Napoli. Annali, Sezione linguistica, 1961, vol. 3, Università degli studi di Trieste, Facoltà di lettere e filosofia, Istituto di filologia romanza, Trieste 1969, 94 pp., in particolare, p. 40).
In primis, il bando vietò assolutamente la possibilità di andare ad abbeverare alla sénia che era detta di Gatto, la quale evidentemente prendeva il nome dalla famiglia termitana nelle cui proprietà terriere ricadeva il pozzo. Il motivo della proibizione era dovuto al fatto che la sénia di Gatto forniva l’acqua destinata ad essere utilizzata per la città; era quindi divenuta in quel periodo una vera e propria riserva strategica.
Purtroppo la frammentarietà del registro dell’anno indizionale 1529-30, non ci permette di avere un quadro esaustivo di quanto avvenne in quel tempo. Si può presumere che la principale fonte di approvvigionamento idrico dell’abitato, cioè il precitato gruppo sorgentizio Favara-Scamaccio, fosse affetto da un decremento di portata, per cui si era resa improcrastinabile la necessità, attesa la situazione di crisi idropotabile, di porre in atto un intervento straordinario finalizzato ad una congrua integrazione degli afflussi disponibili, attingendo dal pozzo Gatto che doveva aver mantenuto una buona resa in termini di produttività idrica.
Il documento non specifica affatto l’ubicazione dei pozzi in questione, evidentemente perché a quel tempo era ben nota a tutti e non richiedeva ulteriori specificazioni, ma altrettanto non può dirsi per noi posteri, essendo ormai trascorsi parecchi secoli. Fortunatamente, tenendo conto della continuità d’uso, possiamo ritenere plausibile che il pozzo fosse ubicato presso la casa Gatto, sita sulla sponda destra del Fiume San Leonardo, la cui denominazione si era mantenuta ancora nel Settecento, come ci attesta la carta topografica di Termini e dei suoi dintorni del primo decennio di detto secolo, la cosiddetta “pianta di Berlino” [cfr. L. Dufour, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia manoscritta (1500-1823), Lombardi Editori, Siracusa 1995, 504 pp.; fatta riprodurre da Andrea Gaeta ad alta risoluzione in http://www.bitnick.it/Atomo%2028/5%20-%20Berlino.htm]. Ci preme rimarcare che, come appare nella detta cartografia settecentesca, la foce deltizia del San Leonardo possedeva allora due canali distributori, separati da un’area interdistributrice centrale.
Proprio nel tratto terminale del San Leonardo, i depositi della sua piana fluviale costituiscono dei sistemi deposizionali alluvionali a meandri che possiedono una discreta permeabilità primaria per porosità, ospitando corpi idrici multifalda, separati o interconnessi, alimentati dai deflussi superficiali e sotterranei. In tali sistemi deposizionali alluvionali a meandri si possono distinguere apparati di distribuzione (canali fluviali propriamente detti, strutture erosivo/deposizionale molto complesse) e zone (o ambienti) circostanti (piane di inondazione). Nello specifico, si tratta di depositi prevalentemente costituiti da ciottoli e ghiaie molto grossolane, in matrice generalmente sabbiosa, subordinatamente limosa (siltosa), disposti in corpi a base erosiva e gradazione normale (decrescente verso l’alto dello strato), spesso amalgamati. Alla sommità delle sequenze ghiaiose sono generalmente presenti lenti sabbioso-limose o limoso-sabbiose. Nel loro insieme, formano dei corpi litologici compositi a geometria nastriforme, tabulare allungata, tabulare, lenticolare stratiforme sino a lenticolare. Gli acquiferi multifalda, ospitati in questi sistemi deposizionali alluvionali, si presentano superiormente a falda libera e inferiormente confinati, dando vita a corpi idrici sotterranei, spesso di una certa rilevanza, che possono essere localmente anche molto produttivi in termini di portata. Purtroppo, la creazione dell’invaso Rosamarina, realizzato nel corso degli anni 80’ dall’Ente Sviluppo Agricolo, ha pesantemente interferito con il regime non solo superficiale, ma anche sotterraneo del S. Leonardo.
Tornando al bando giuratorio del 1530, in secundis per la sénia del pozzo di Calogero e Francesco Barliraro, Antonino Scalinci (il cui cognome meridionale è di origine greca, cfr. P. Stomeo, Cognomi greci nel Salento, 2 voll., I, Editrice Salentina, Galatina 1984, p. 61) e di Mastro Stefano di Vizzini, fu disposto il pagamento di due denari per ogni volta che un singolo animale andava ad abbeverarsi. Ai trasgressori veniva comminata una multa di una onza per ogni capo che contravveniva alla disposizione, somma destinata alla fabbriceria della Maggior Chiesa.
Riportiamo qui di seguito la trascrizione della parte più saliente del documento che ordinava di «non andare ne [sic, né] mandare ad abbeverare a la senia di xatto [sic, Gatto] undi si prindi l’acqua per la citati [et] no[n] dijano andari a la senia di calog[er]o e francesco barliraro et ant[oni]no scalinchi [sic, Scalinci] e di m[ast]ro stefano di Vizinj alli quali hajanu di pagarj duj dinarj p[er] bestia p[er] ogni volta chi abivirano supta pena di onza una a la maragma di la majurj ecc[lesi]a».
Quello che colpisce è questo susseguirsi così serrato, di bandi emanati dai giurati di Termini Imerese, relativi a problematiche idriche. Ciò induce a ritenere che proprio ad Agosto-Settembre del 1530 si dovette raggiungere l’apice della penuria idrica. Del resto, sappiamo che la norma climatica di questo settore siciliano prevede che il minimo di precipitazione dell’anno si registri proprio in questa mensilità del trimestre estivo e, allo stato attuale delle ricerche, possiamo solo intuire quello che dovette succedere quell’anno.
Nell’anno indizionale 1532-33, abbiamo ancora altri bandi di proibizione di prendere acqua, notte e giorno, dai condotti dell’acquedotto comunale, con la pena di onze quattro, questa volta da applicarsi alla fabbriceria «di lo ponti» che evidentemente necessitava di essere sostenuta con entrate suppletive (cfr., ad es., XXVII Maggio VIa Indizione 1533, 6 Giugno 1533, Frammenti B).
Il X Settembre XIa Indizione 1537 (20 Settembre 1537), i giurati vietavano di attingere «acqua di li sbentaturi et lochi aperti di lo curso di lacqua [sic] di la dicta citati ne fari aperturi (…) supta pena di Ʒ [onza] 1 a li maragmi [fabbriceria] di dicta acqua», mentre tarì 7 e grana 10 sarebbero andati all’eventuale denunziante (cfr. Frammenti B).
Nel fascicolo III, della miscellanea Frammenti A, che contiene vari spezzoni degli atti ufficiali degli anni dal 1532 al 1558, è presente un altro bando dell’anno indizionale seguente, datato XVII Settembre XIIa Indizione 1538 (27 Settembre 1538), che mette in luce il furto d’acqua dalle strutture idriche comunali ad opera (o su commissione) di acquaioli ambulanti disonesti, che lucravano con tal attività illecita: «nessuno deve prendere o far prendere acqua p[er] fare acqua venduli [sic, acquaioli]» dagli «sbentaturi et lochi ap[er]ti di lo curso di l’acqua di la ditta citati ne [sic, né] fari ap[er]turi supta pena di onza una da app[li]cari ali maragmi [alla fabbriceria] di la ditta aqua» mentre al denunciatore sarebbe andata la somma di «tarì septi».
La presenza reiterata di bandi che tentano di porre un freno al problema dei furti d’acqua dalle condutture comunali di Termini Imerese dimostra che, nonostante tutte le ordinanze, la frequenza dei reati non diminuiva, anzi si accentuava proprio negli anni di maggiore penuria idropotabile.
La susseguente terribile siccità che colpì l’Europa nel 1539-40 fu un evento climatico particolarmente grave per la mancanza di precipitazioni con conseguente forte impatto sui corpi idrici sia superficiali, dando vita a livelli estremamente bassi di fiumi, canali e laghi, sia sotterranei, che provocarono il prosciugamento di sorgenti e pozzi, sottraendo una ulteriore aliquota al ruscellamento. Si ebbe, inoltre l’estremo disseccamento del suolo, morie di bestiame, fame, colpi di calore, l’appassimento di piante erbacee e da frutto, epidemie di dissenteria, enormi incendi di aree forestali etc.
Questo quadro è stato ricostruito sulla base dello studio di oltre 300 fonti documentarie storiche condotto da un team di 32 studiosi europei, che ha evidenziato come per lo spazio di undici mesi le precipitazioni sull’Europa centrale ed occidentale furono assenti od estremamente ridotte, mentre si ebbero delle ondate di calore con temperature che in estate dovettero superare i 40° C [cfr. O. Wetter, C. Pfister, J.P. Werner, E. Zorita, S. Wagner, S. Seneviratne, J. Herget, U. Grünewald, J. Luterbacher, M.-J. Alcoforado, M, Barriendos, U. Bieber, R. Brázdil, K. H. Burmeister, C. Camenisch, A. Contino, P. Dobrovolný, R, Glaser, I. Himmelsbach, A. Kiss, O. Kotyza, T. Labbé, D. Limanówka, L. Litzenburger, Ø. Nordl, K. Pribyl, D. Retsö, D. Riemann, C. Rohr, W. Siegfried, J. Söderberg, J.-L. Spring, The year-long unprecedented European heat and drought of 1540 – a worst case, “Climatic change”, 2014, 125(3-4), pp. 349-363].
Emblematica della situazione siciliana del 1539, è una istanza documentata tra gli atti della corte giuratoria di Termini Imerese, legata all’accentuarsi della penuria d’acqua nell’autunno di detto anno, e conseguente incremento del rischio di furti proprio ai danni di opere pubbliche di raccolta di fonti idriche. Il XXV Settembre XIIIa Indizione 1539 (5 Ottobre 1539), in tale supplica, Federico Bonafede, esponente della omonima casata nobiliare locale, ricorse agli amministratori comunali mettendo in luce il fattivo pericolo di sottrazione illecita di acqua da una proprietà civica, cioè una cisterna. Quest’ultima doveva essere di una certa dimensione, tanto da essere definita nel documento come stagnone e, secondo la petizione, era provvista di due imboccature per permettere l’attingimento (colli). Ciò induce a ritenere che il corpo della cisterna, probabilmente scavato nella roccia calcarea, fosse posto al di sotto del piano di calpestio ed opportunamente rivestito di una copertura che doveva essere provvista delle due aperture citate nella supplica. La struttura idrica ricettizia posta nel quartiere della Terravecchia (cioè la città vecchia, il nucleo urbano più antico sorto attorno all’acropoli), contigua alla abitazione del Bonafede, esibiva già allora segni di vetustà ed era particolarmente esposta all’azione di eventuali malviventi a caccia di acqua da carpire [cfr. A. Contino, Aqua Himerae. Idrografia antica ed attuale dell’area urbana e del territorio di Termini Imerese (Sicilia centrosettentrionale), Giambra Editori, Termegrafica, Terme Vigliatore, Messina, 2019, p. 28].
Si può presumere che la detta cisterna fosse ubicata nel settore della Terravecchia che era posto sul versante settentrionale della rocca, dove nel medioevo è attestata l’esistenza del quartiere dello Stagnone (cfr. A. Contino, Aqua Himerae...cit., ibidem). Del resto, nel sito dell’attuale via Circonvallazione Castello, è nota ancor oggi la presenza di grandi cisterne, di probabile epoca romana, una delle quali era utilizzata dalla vecchia caserma dei Vigili del Fuoco.
Il Castello, sino a quel tempo, si ergeva isolato sulla vetta calcarea, poiché la fortezza medievale, era tutta ristretta al vertice dell’acropoli e soltanto nel corso della seconda metà del Cinquecento (1557-1580 c.), si procedette al suo ampliamento, attuato grazie alla realizzazione di un nuovo ed articolato circuito murario «alla moderna», cioè con un sistema di difesa poligonale provvisto di muratura a scarpa e bastioni con relativi terrapieni, su progetto probabilmente del bergamasco Ferramolino, secondo noi integrato dal suo successore, lo spagnolo Prado, L’ampliamento estese notevolmente il perimetro del castello, trasformando la fisionomia di una parte dell’abitato e distruggendo una porzione storicamente importante del tessuto urbano medievale (per ulteriori approfondimenti, cfr. P. Bova, A. Contino, Geomorfologia antropogenica legata ad attività militari: l’esempio della Rocca del Castello di Termini Imerese dall’Antichità al 1950, in questa testata on-line, Lunedì, 14 Settembre 2020; Idem, Termini Imerese, attività militare ed evoluzione del paesaggio: l’esempio della “Rocca dell’Orologio antiquo” tra medioevo e Settecento, in questa testata on-line, Domenica, 20 Dicembre 2020).
Tornando al documento in questione, in esso si legge che il comune di Termini (universitas), aveva da tempo posseduto e possedeva ancora «uno stagno seu loco» il quale è «una gran gisterna co[n] dui colli [imboccature] pos[i]to int[r]a la t[er]ra vecha di la ditta cita [sic, città] collaterali et muro me[dian]te di la casa de lo m[agnifi]co fiderico bonafidi lo q[ua]li stagnunj p[er] no[n] haviri p[ir]suna chi de q[ui]llo piglassi carrico di gub[er]narj» si trovava in uno stato di completo abbandono, abbisognando di lavori di manutenzione. Il detto Federico Bonafede, «havi apparso [a] li m[agnifi]ci jurati e facto istancia p[er] suo interesso [sic]», poiché temeva che, vista la situazione di grave siccità, alcuni «inimichi et mali homini» avrebbero potuto andare a rubare l’acqua, attentando alla sua incolumità, considerato che la porta di accesso al baglio rimaneva sempre aperta e, quindi, la corte interna era agibile a chiunque. I giurati in carica erano Giovanni Forte Romano barone di Resuttano, Roberto Mariscalco, Nicola Bandino e Francesco Bruno (cfr. Frammenti A).
Nell’Estate del 1541 è ancora attestato il pericolo di danneggiamenti alla condotta idrica comunale, anche perché si era nel periodo della raccolta del grano e le campagne fervevano di manodopera salariata…ed assetata.
In ambito rurale, la mietitura del grano era l’evento estivo più atteso e impegnativo dell’anno. Dopo la raccolta, nel mese di Giugno si era soliti nelle campagne di «fari aira», cioè fare l’aia [dal lat. area ‘spazio libero’]. Si trattava di compiere, nell’aia per l’appunto, le delicate operazioni di battitura e pulizia dei chicchi di grano, separandoli dalla paglia e dalla pula, sfruttando sapientemente l’azione del vento. La cernita finale per togliere la mondiglia veniva abilmente effettuata da artigiani specializzati, i mastri crivellatori.
Un bando dei giurati di Termini Imerese del 3 Giugno XIV indizione 1541 (13 Giugno 1541) dispose in maniera perentoria il divieto assoluto di «fari aira» nei terreni che erano limitrofi o erano attraversati dalla condotta idrica comunale, in particolare «intra li te[r]ri di lo no[bili] notar sebastiano bertholo ne [sic, né] ali lochi undi vegnono a dari fuori li conduttj di acqua ex[iste]nti in ditti terr[itor]i d[i] sp[ettabili] notar sebastiano». I giurati, infatti, sapevano bene che tale vicinanza con la condotta idrica comunale poteva facilmente indurre a prelievi abusivi di acqua. Ai contravventori sarebbe stata comminata la solita multa di onza una, da destinarsi sempre alla fabbriceria, come disposto nelle precedenti ordinanze.
La siccità siciliana dell’anno 1543 è documentata da una cronaca manoscritta di un anonimo diarista del XVI secolo, il quale documenta che in quell’anno si fecero molte processioni per chiedere la grazia della pioggia (cfr. R. La Duca, Clima e Carestie in Sicilia, “Il Mediterraneo”, N. 7-8, Palermo 1974, pp. 96-99).
Nel 1546, ancora in tempi di siccità e penuria, relativamente al gruppo sorgentizio Favara-Scamaccio, fu comandato il divieto di irrigazione dei giardini e poderi, ubicati a valle delle scaturigini, nonché di lavare i drappi utilizzando quelle acque potabili (atto dei giurati dato il XVII Giugno IV indizione 1546, 27 Giugno 1546, cfr. AMG, 1545-46, ms. BLT, ai segni III 10 a 1).
Negli atti della sessione straordinaria del Parlamento Generale di Sicilia, indetta a Messina il 9 Ottobre VIa Indizione 1547 (19 Ottobre 1547), essendo viceré Juan de la Vega, abbiamo contezza della situazione climatica di quell’anno e di quelli precedenti che, per la loro aridità, determinarono una situazione di grave sofferenza economica dell’Isola: «lo detto Regno sia molto povero, & exausto, sì per li sterili stagioni, che sonno [sic, sono] stati, como [sic, come] per li molti servitij ordinarij, & extraordinarij fatti alla Magestà Sua Cesarea» (cfr. A. Mongitore, Parlamenti generali del Regno di Sicilia dall’anno 1446. fino al 1748. Con le memorie istoriche dell’antico, e moderno uso del Parlamento appresso varie nazioni, ed in particolare della sua origine in Sicilia, e del modo di celebrarsi, 2 tomi, I, Bentivenga, Palermo M. DCC. LXIX, 542 pp., in particolare, pp. 246-249).
Dallo studio del nostro passato dovremmo trarre insegnamento nel gestire la risorsa idrica in maniera lungimirante ed efficiente, al fine di non depauperarla e tenendo sempre vivo il principio inalienabile che tutte le acque potabili, superficiali e sotterranee, debbono essere mantenute pubbliche, prevedendone un razionale utilizzo guidato da criteri di sostenibilità e salvaguardia, non solo ambientale, ma anche in prospettiva di una trasmissione alle generazioni future di questo preziosissimo ed insostituibile “oro blu”, sia in termini quantitativi, sia qualitativi, ma anche ecologici per quelli di superficie.
Concludiamo, ricordando che attualmente, a livello europeo esiste un osservatorio sulla siccità (European Drought Observatory, EDO) che, a sua volta, fa capo a quello mondiale (Global Drought Observatory, GDO). L’EDO è gestito dal centro comune di ricerca della Commissione europea. Il monitoraggio da esso effettuato, è basato sull’analisi di una serie di indicatori che rappresentano diverse componenti del ciclo idrologico (ad es. precipitazioni, umidità del suolo, livelli di portata dei corsi d’acqua, livelli delle acque sotterranee etc.) oppure impatti specifici (ad es. stress idrico vegetativo) associati ad una particolare tipologia di siccità.
Patrizia Bova e Antonio Contino
Ringraziamenti: vogliamo palesare la nostra più viva e sincera gratitudine nei confronti del direttore e del personale della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità.