Bullo è bello? Balle

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Se ne parla tanto, ma proprio tanto. Il problema del “bullismo” a scuola – è diventato uno dei temi centrali sui quali i media insistono pervicacemente da qualche anno.  Vi si imbastiscono sopra penosi talk show, e conduttori televisivi allarmati – come da copione –  invitano a parlarne psicoterapeuti di grido, sacerdoti in odore di santità, politici rampanti – ed estenuanti nella loro pochezza intellettuale, insegnanti impegnati e pedagogisti d’assalto, tuttologi e sociologi.

Ma cos’è il bullismo, in realtà?  Di certo è un fenomeno nuovo, sia dal punto di vista sostanziale sia da quello linguistico. Per esempio, nell’edizione del 1970 del Vocabolario Zingarelli  la parola non esiste; ma non esiste nemmeno nel Dizionario Garzanti del 1987. E non esiste nemmeno nel Devoto-Oli del 1990. Insomma, in tre dei più importanti dizionari della lingua italiana di uso comune, la parola proprio non esiste. E se non esiste una parola per descrivere un fenomeno, è intuitivo che quel fenomeno non esista o perlomeno sia di inconsueta rarità. La prima volta che si incontra il termine “bullismo” è nel Dizionario Moderno della Lingua Italiana sempre della Garzanti: ma siamo già nel 2000, laddove al dizionario medesimo è associato un CD-Rom! Pensate un po’… Per risolvere definitivamente la questione, il Grande Dizionario Italiano dell’uso, della UTET lo cita più o meno in quello stesso periodo, salvo poi a precisare che il termine sembra comunque sia stato coniato nel 1957. Ma sino al 2000 o giù di lì, l’espressione “bullismo” non faceva parte integrante della lingua parlata, a dimostrazione del fatto che questo fenomeno sociale non aveva alcuna rilevanza, o almeno una rilevanza tale da meritare di essere socialmente comunicata. Capita, e non c’è nulla di strano. Esiste una specialità medica che si chiama neuropsicoendocrinologia, e che esiste da almeno un ventennio. Neppure il Garzanti (nuova edizione) lo riporta. E semplicemente – e giustamente –  perché della cosa anzidetta non gliene importa nulla ad alcuno, tranne che a un ristretto gruppo di specialisti. E, in effetti, credo che per il bullismo le cose siano andate più o meno così. Ma questi sono dati sociologici,  più o meno alla stregua delle chiacchiere dei talk show televisivi. Il problema è, indipendentemente dalle raffinatezze linguistiche: cos’è il bullismo? Semplice, è il comportamento da bulli. Un bullo (e questa si che è una voce antica, sembra risalire al sedicesimo secolo) è il prepotente, l’arrogante, chi s’impone con la forza o la violenza e che prevarica gli altri; è lo spavaldo, il teppista, colui che non ha alcun rispetto delle regole e delle norme sociali. Intendiamoci: il “bullo” è sempre esistito, è quasi una figura retorica. Quello che prima non esisteva era appunto il bullismo, inteso come atteggiamento diffuso che caratterizza non solo il comportamento del singolo, ma anche quello di interi gruppi, che diventa da fenomeno individuale e coercibile, fenomeno sociale sostanzialmente incoercibile. Ed è questo “salto”, dal comportamento singolo a quello gruppale che fa la differenza (un po’ come dire “il tossicodipendente” – che è esistito da sempre – e “la tossicodipendenza” che ha purtroppo ben altre valenze sociali).  Comunque sia, il problema esiste soprattutto a scuola. Ragazzi arroganti, saccenti, violenti; interi “branchi” (come vengono opportunamente definiti) che molestano, prevaricano, sino a giungere a veri gesti di violenza, individuale o di gruppo; mancanza di rispetto per qualsiasi norma; teppismo, spavalderia, atmosfere sature di terrore che calano su altri studenti inermi E gli insegnanti impotenti, non raramente vittime di questi comportamenti inequivocabilmente delinquenziali, insomma un’inarrestabile valanga di devianza, che travolge tutto quanto trova innanzi a se.

Di fronte a un fenomeno talmente imponente è ovvio che ci si pongano delle domande, e la prima è, ovviamente: perché? Da dove nasce questo fenomeno negli adolescenti? Credo che possano essere individuate diverse motivazioni, senza correre il rischio di cadere nella retorica. La prima causa credo che sia storica e sociale. Viviamo in un momento di spaventosa regressione, in un mondo che è sempre meno sicuro, sempre più privo di certezze e punti di riferimento. Sembra un luogo comune, ma non lo è affatto. Rispetto già a venti anni fa, il mondo è totalmente diverso, inquieto e inquietante, ricco di stimoli effimeri, ma del tutto privo di sicurezze. E’ ovvio che le principali vittime di questo cambiamento siano gli adolescenti. In un mondo che fa paura si può reagire in due modi: con l’attacco o con la fuga. Ma fuggire dove? La fuga implica un alto grado di fiducia in se stessi, e la consapevolezza di sapere dove fuggire e cosa fare della propria vita. Implica coraggio. L’adolescente medio di oggi questo coraggio, il coraggio vero, quello di vivere non lo ha. Immaturo, iperprotetto, privo di regole e di norme, dove volete che vada? Ed allora subentra la risposta più comoda: l’aggressività. Ma per essere efficace l’aggressività va esercitata in gruppo. Il gruppo da forza e senso d’identità. Dà sicurezza. In gruppo gli adolescenti trovano comunque una norma, perversa, ma sempre norma alla quale tutti gli individui che compongono il branco si adeguano. E la vecchia regola che la miglior difesa è l’attacco assume una connotazione sinistramente realistica. La prevaricazione, allora, diventa una condotta sociale.

Il problema che spesso viene sottovalutato è che si tratta in fondo di un modello socialmente accettato. In una società decadente come quella occidentale moderna – il fenomeno è tutto “nostro” – priva di qualsiasi forza interiore, l’unica forza che è valorizzata è quella esteriore. Messo a tacere Socrate la parola è passata a Conan il Barbaro. E non sono solo i mass-media veicolano questo messaggio deleterio, ma tutto il contesto che ci circonda, persino quello che dovrebbe essere normativo. Come si fa a non elevare un peana al bullismo quando i politici si aggrediscono reciprocamente non solo di fronte alle telecamere della televisione di Stato, ma persino in Parlamento? Come si fa a stigmatizzare il bullismo quando assai spesso sono gli stessi genitori a suggerire ai figli comportamenti violenti e arroganti, non solo verso il prossimo, ma anche nei confronti delle istituzioni (prima fra tutte la scuola)?  Il problema, insomma è davvero complicato; ma esiste una soluzione?  Forse si, anche se nel suggerirla si rischia di essere impopolari.

Essa dovrebbe consistere in una serie di misure drastiche, anche di tipo legislativo, che abbiano una severa funzione preventiva ed educativa, ma che, allo stesso tempo, colpiscano duramente qualsiasi episodio di bullismo e che coinvolgano e responsabilizzino prima ancora dei ragazzi le loro famiglie. Penso che questo, in prima istanza, servirebbe  ad arginare questo fenomeno (esperimenti di questo tipo già fatti in altri Paesi hanno avuto discreti risultati). Ma naturalmente non basta. La soluzione definitiva non può che consistere in un serio rilancio di una vera educazione alla legalità che non si occupi semplicemente dei “grandi” fenomeni criminali, ma soprattutto delle piccole violenze quotidiane, della minuscole prevaricazioni giornaliere e che educhi autenticamente alla tolleranza e al rispetto per l’altro. Mi riferisco però a programmi obbligatori e non a encomiabili quanto inefficaci “progetti” episodici e ubiquitari. Fantasie da strizzacervelli? Forse, ma non del tutto. Ricordiamoci che viviamo in un Paese dove, se sei cattolico, devi, qualunque sia la tua età, seguire lunghi corsi di catechismo per sposarti secondo il rito della Chiesa. E per prendere la patente devi (almeno formalmente) compiere studi ed esami specifici. Così, voglio pensare anche ad un Paese dove, per godere dei diritti civili, lo Stato possa imporre corsi di educazione alla legalità, nei quali si possa davvero insegnare a ragazzi e adulti che  il bullismo è solo una malattia, l’espressione estrema di personalità assolutamente fragili, povere e insignificanti. Altro che bulli …

Giovanni Iannuzzo