Volendo ampliare lo sguardo sul paesaggio archeologico della Sicilia interna, poniamo qualche domanda a Giovanni Ferrara su quella che, a suo parere, poteva essere la situazione degli spostamenti di uomini e merci, e quindi idee, nella protostoria siciliana.
Giovanni Ferrara, ingegnere specializzato in infrastrutture dei trasporti, studioso indipendente, da alcuni anni si sta dedicando agli ipogei della Gurfa di Alia con interessanti interventi e pubblicazioni, fra cui il libro del 2022 “La Gurfa dei misteri. Vita ultramillenaria di una thòlos mediterranea”.
Come si potrebbe descrivere, nel complesso, la situazione delle comunicazioni e dei trasporti in Sicilia nell’età del bronzo?
E’ noto che fin dal Neolitico i cammini dei Sapiens seguivano le vie d’acqua per molti ovvii motivi, il più importante dei quali è la costante disponibilità di acqua da bere, ma anche la possibilità di seguire un percorso preciso, tracciato dalla natura. Bisogna immaginare la Sicilia del II millennio a.C. completamente ricoperta da fitte foreste, spesso impenetrabili per la presenza di essenze arboree autoctone come la roverella e altre specie di Fagacee. Le foreste sui monti, e sulle colline che oggi spesso vediamo spoglie, oltre che poco penetrabili erano anche pericolose, perché abitate da animali di grossa taglia che potevano attaccare l’uomo. Il manto forestale comportava una maggiore capacità dei terreni di trattenere l’acqua e di rilasciarla gradualmente, per cui dobbiamo immaginare i torrenti e i fiumi siciliani sempre colmi di acqua che scorreva fino al mare. Nelle zone più pianeggianti le correnti dovevano essere abbastanza lente da permettere una navigazione molto tranquilla. Per farsi un’idea, basta osservare le fotografie attuali del fiume Platani.
Altro aspetto da tenere presente è il grande sviluppo dei commerci e degli scambi ad ampio raggio avvenuto nell’età del bronzo. Come è dimostrato in tutta l’Europa sulla base di molti ritrovamenti archeologici e da studi genetici, la scoperta delle leghe metalliche fu una vera rivoluzione culturale ed economica. Le miniere di rame e quelle di stagno, elementi indispensabili per fondere il bronzo, erano però a migliaia di chilometri di distanza le une dalle altre. Eppure abbiamo nei musei quantità non indifferenti di reperti in bronzo risalenti questa epoca: le popolazioni di tale epoca sicuramente erano in grado di organizzarsi per percorrere quelle distanze, via mare ma anche per via fluviale, per la penetrazione all’interno dei vari territori. Secondo opinioni ampiamente condivise, tutto ciò rende lecito supporre che le vie d’acqua fossero navigabili almeno in parte, perché quello era l’unico modo di trasportare in modo veloce materie prime ed oggetti sempre più indispensabili per lo svolgimento delle attività umane, fino a raggiungere i villaggi e le proto-città dell’interno.
Come immagina la rete di tali idrovie siciliane?
Studiando la Gurfa di Alia, monumento rupestre a cui per vari motivi sono legato da lunga “confidenza”, mi sono imbattuto proprio in questo genere di argomenti. Lo studio di vari testi ed articoli ha evidenziato la vicinanza del complesso rupestre della Gurfa all’asse antico molto importante che metteva in comunicazione il sud e il nord dell’isola, ossia il fiume Torto e l’antico Halykos, fiume che oggi chiamiamo Platani. I loro percorsi si sfiorano quasi dalle parti di Lercara (nelle cui vicinanze, per inciso, esistevano miniere di zolfo, utilizzato insieme al salgemma e al sale come moneta di scambio nei commerci di quelle epoche). A quel punto ho cercato di capire se e come i traffici commerciali e gli spostamenti umani che interessavano questa area centrale della Sicilia, potessero avere una via preferenziale anche per arrivare al mare Jonio, su cui com’è noto esistevano gli approdi per i commerci provenienti dall’est, in particolare Egeo ed Anatolia. Nella successiva figura tratta dal libro di Luigi Bernabò Brea “La Sicilia prima dei Greci” (il Saggiatore, 2016), ho evidenziato in giallo quelli che ritengo i tre assi principali di un sistema prevalentemente fluviale.
Formano una “T” il cui incrocio è molto vicino alla Gurfa di Alia. Per inciso, secondo me questo è un aspetto molto importante anche ai fini della comprensione delle originarie funzioni di quel sito. Lungo l’asse orientale il percorso interessava più di un corso d’acqua, perché oltre la sorgente del Torto seguiva per un tratto i vicini rami sorgenti del fiume Salso per poi passare al Dittaino che, come sappiamo, confluisce nel Simeto fino a sfociare nel mare Jonio, quindi a mio parere sarebbe più esatto parlare di percorsi fluviali e vallivi. Questo suggerisce l’ipotesi di punti di scambio fra barche e percorsi terrestri, presenti dove le caratteristiche dei corsi d’acqua impedivano di proseguire la navigazione. Forse esistevano dei piccoli approdi semplici, fatti con tronchi e assi di legno, di cui ovviamente è impossibile oggi trovare i resti.
Quali tipi di imbarcazioni fluviali potevano essere utilizzate all’epoca?
Penso a imbarcazioni non molto grandi e di basso pescaggio, forse a remi ma anche a lunghe pertiche da appoggiare al fondo, per spingere le imbarcazioni nei tratti poco profondi. Non si può neanche escludere l’uso di qualche vela, tecnica di navigazione già molto nota da tempo. Le imbarcazioni potevano avere al centro un palo costituito da un tronco d’albero ben ripulito, su cui veniva issato un pennone in legno con una tela avvolta, da aprire solo quando c’erano venti favorevoli, ossia provenienti dal lato della poppa della barca. Bastava ruotare la tela attorno all’albero comandandola con apposite funi, fino a trovare la posizione più opportuna e utile per avanzare rispetto al vento. Non dobbiamo dimenticare che nella stagione calda, indicativamente da maggio a ottobre, in un’isola grande come la Sicilia i venti hanno regime prevalente di brezza costiera che soffia dal mare verso l’interno per circa dieci ore al giorno. Questo fatto del tutto naturale favoriva molto le imbarcazioni che risalivano la corrente. Queste brezze comode, solo diurne, come è facile immaginare dovevano apparire ai nostri progenitori di quei tempi lontani un dono della Dea Madre (sette o otto secoli più tardi i Greci, come sappiamo, attribuivano a Eolo questi doni benevoli). In ogni caso la barca non era in balia del vento, ma avanzava nella direzione della chiglia imposta con un remo/timone da chi conduceva l’imbarcazione. In parole povere: non bisognava aspettare che si alzassero solo i venti perfettamente paralleli all’asse fluviale.
Giovanni Ferrara
Carmelo Montagna