Termini Imerese, una inedita opera di Giuseppe Spatafora: “Il San Giuseppe e Gesù Bambino” della Chiesa di S. Anna

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Il 26 Aprile I Indizione 1603, il sac. Bernardino Romano nella maggior chiesa di Termini Imerese battezzò Giuseppe, figlio dei coniugi Antonino Spatafora e Clara Antonia, avendo come padrino don Giovanni Battista Romano e Ventimiglia, barone di Resuttano e della Favarotta, esponente di spicco del locale patriziato urbano. Iniziava così la vita cristiana del futuro pittore termitano Giuseppe Spatafora II junior il cui corpus delle opere, come vedremo, è sinora alquanto scarno, annoverando dipinti recentemente a lui attribuiti a Caccamo, oltre a due opere già note a Palermo e la cui paternità è attestata su base documentaria.

Giuseppe Spatafora II junior fu l’ultimo rampollo noto della casata artistica siciliana degli Spatafora. Il padre, Antonino Spatafora (Palermo, c. 1552/53 – Termini Imerese, 22 Giugno 1613), architetto civile (capomastro delle fabbriche della cittadina imerese almeno dal 1593-94), militare ed idraulico, pittore, cartografo, scenografo, va sicuramente annoverato tra le personalità di spicco del manierismo siciliano del tardo Cinquecento e del primo Seicento (cfr. P. Bova, A. Contino, Termini Imerese, Antonino Spatafora e il modello ligneo seicentesco della maggior chiesa, “Esperonews”, 27 Novembre 2021, on-line in questa testata giornalistica). Antonino, era nato a Palermo da Giuseppe Spatafora senior, architetto (capomastro delle fabbriche della città di Palermo dal 1564–65), scultore e plasticatore e da Elisabetta (detta familiarmente Bettuccia), della quale sinora si ignora il cognome. Giuseppe Spatafora II junior, quindi, apparteneva ad una famiglia che da più generazioni era dedita all’arte. Egli ebbe imposto il medesimo nome del fratello maggiore premorto, Giuseppe Spatafora I junior (cfr. A. Contino, S. Mantia, Vincenzo La Barbera Architetto e Pittore Termitano. Presentazione di M. C. Di Natale. GASM, Termini Imerese 1998, 150 pp., in particolare, pp. 61–62 e nota n. 213 a p. 61) quasi a voler colmare il vuoto lasciato dalla precedente perdita, continuando così a perpetuare il nominativo del ben noto nonno paterno che fu l’artefice delle fortune del casato in campo artistico ed economico. Essendo rimasto orfano del padre all’età di dieci anni, è probabile che abbia fatto il suo apprendistato presso i due cognati architetti e pittori: Vincenzo La Barbera (Termini Imerese, 1576/77 c. – Palermo 30 Marzo 1642), marito di Elisabetta Spatafora ed il caccamese Nicasio Azzarello (doc. 1613–1623), sposo di Grazia Spatafora. Nel 1622, con le sorelle ed i cognati si trasferì verosimilmente a Palermo, dove la famiglia Spatafora possedeva immobili nel quartiere dell’Albergheria. Del resto, un rogito del 27 Settembre VIa Indizione 1623 lo vede testimone di un contratto che coinvolgeva il cognato La Barbera (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e Pittori… cit., pp. 53–54). Del resto, come ebbe a scoprire il pittore e studioso d’arte Giuseppe Meli (Palermo, 18 Novembre 1807, – ivi, 29 Marzo 1893), egli lavorò nel Palazzo reale di Palermo, negli anni tra il 1624 ed il 1638 (cfr. G. Meli, Documenti intorno a Giuseppe Spatafora pittore siciliano (16241638) in “Archivio Storico Siciliano”, n. s., II, 1877, pp. 87–89; si veda anche R. Calandra, Palazzo dei Normanni, Novecento, Palermo 1999, 320 pp., in particolare, p. 143). Il giovane pittore ebbe vari incarichi di esecuzione di lavori di decorazione a guazzo legati ad interventi di recupero di precedenti opere. Alcuni di tali lavori furono eseguiti assieme ad Antonino La Barbera, da identificare con il nipote, figlio di Vincenzo ed Elisabetta, nato a Termini Imerese nel 1609. Nel 1638, ad es., riprese il dipinto preesistente della Madonna del Rosario sopra la porta del corpo di guardia. Il 28 Agosto di tale anno, Giuseppe Spatafora di Termini et habitatore di Palermo, della parrocchia di S. Giovanni li Tartari, sposò nella chiesa parrocchiale palermitana di S. Antonio di Padova, Elisabetta Federico, mentre la benedizione ai novelli sposi fu impartita in S. Nicolò all’Albergheria (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e Pittori…cit., p. 187).

La coppia, allo stato attuale delle ricerche archivistiche effettuate da Antonio Contino e Salvatore Mantia, ebbe i seguenti figli: Pietro Angelo Antonino (b. 21 Maggio 1640, padrino il pittore monrealese Pietro Novelli, madrina soro Caterina Marchisi); Agata Anna Antonia (b. 5 Febbraio 1642, padrino il dottor Paolo Pizzuto, protomedico del Regno, madrina Agata Spatafora); Agata Anna (b. 23 Settembre 1643, padrino don Pietro Vanni, madrina soro Caterina Marchisi); Bartolomea Rosalia (b. 27 Agosto 1650, padrino don Marco Mancini Terzo marchese dell’Ogliastro, oggi Bolognetta, madrina Laura La Placa, mammana, cioè ostetrica); Agnese (b. 20 Aprile 1653, padrino Vincenzo Bonello, madrina soro Agnese Spatafora).

Nel 1654–55, Giuseppe Spatafora II junior dipinse due tele dall’impianto compositivo di tipo manieristico e dal marcato intento catechetico relativamente ai due episodi di martirio, che dovevano fare da pendent, per la cappella dei Santi Martiri, ubicata nella terza campata della navata destra, nella chiesa palermitana del Gesù detta di Casa Professa. Da notare che nel 1660 il sac. Francesco La Barbera, figlio di Vincenzo e nipote ex sorore del detto Spatafora, eseguì i disegni preparatori della decorazione lapidea della cappella, poi realizzata dallo scultore palermitano Francesco Scuto (cfr. M. C. Ruggieri Tricoli, Costruire Gerusalemme: il complesso gesuitico della Casa professa di Palermo dalla storia al museo, Lybra immagine, Milano 2001, 270 pp., in particolare,  p. 107).

La prima tela, raffigura la Strage dei Santi Innocenti, che fa riferimento all’evento ricordato nel Vangelo di S. Matteo, dell’uccisione per un insano ordine di Erode, di «tutti i bambini che erano in Betlemme e in tutti i suoi dintorni, dai due anni in giù» (Mt. 2, 16–18). Nel Martirologio Romano si festeggiano il 28 Dicembre. Il culto ai piccoli martiri betlemmiti fu tributato dapprima in Palestina, dove nella basilica di Betlemme, esisteva una cappella a loro dedicata, mentre in Occidente furono venerati come martiri fin dal tempo di S. Ireneo (Adversus haereses, III, XVI, 4) e di S. Cipriano (Epistulae, 58, 6) e la loro festa è documentata sin dal V sec. d. C. (cfr. F. Spadafora, P. Cannata, Innocenti, Santi Martiri, in “Bibliotheca Sanctorum”, d’ora in poi “BS”, Istituto Giovanni XXIII – Pontificia Università Lateranense, Roma 1961–1969, vol. VII, 1968, coll. 819–832; F. Scorza Barcellona, Magi, infanti e martiri nella letteratura cristiana antica, a cura di Tommaso Caliò e Elena Zocca, collana Sacro/santo, 29, Viella, Roma 2020).

L’orchestrazione scenica è dominata da strutture architettoniche che appaiono in parte crollate, ingenerando un senso di decadente desolazione. L’artista, utilizza l’espediente di dividere l’ambientazione scenica in due settori distinti contrassegnati dal contrasto nettissimo tra un ritmo concitato ed un lirismo inquieto, da una parte, ed una quiete assoluta che ingenera una sorta di sospensione temporale, dall’altra. Nel settore destro dell’opera, infatti, appare in tutta la sua crudezza, la concitata e serrata iconografia della strage, nella quale una nerboruta soldataglia trucida gli innocenti senza alcuna pietà per loro e per le povere madri. Le strutture architettoniche in gran parte crollate, che richiamano la caducità dello sfarzo dei potenti della Terra, si aprono mostrando un umbratile brano paesaggistico con le frondose quinte arboree che si allargano esibendo un fondale collinare, dominato dalla poliedrica mole di una rocca sormontata da una città turrita. Si tratta, di richiami fortemente mutuati da modelli del paesaggismo nordico e, in particolare, dai dipinti e dalle stampe dell’artista di origine fiamminga Paul Bril (1554 – 1626) o del suo entourage. Nel settore sinistro, invece, il loggiato archivoltato in fuga prospettica, si apre su uno scorcio di paesaggio urbano, anticipando quasi le ambientazioni metafisiche. La fatiscenza del  loggiato architettonico è esaltata dalla presenza di elementi lapidei decorativi caduti: un capitello, una cornice modanata, un rocchio di colonna.

La seconda tela, sempre in un contesto scenografico monumentale, ma ancora più fatiscente,  raffigura La Crocifissione dei tre Beati Gesuiti del Giappone, Paolo Miki, Giovanni Soan di Gotó, Giacomo Kisai (cfr. L. Frois, R. Galdos, Relacion dei martirio de los 26 cristianos crucificados en Nagasaki el 5 de febrero de 1597, Roma 1935; D. Pacheco S. J., Martires en Nagasaki, Héroes del apostolado católico, Editorial El Siglo de las Misiones, Tokyo 1961; G. D. Gordini, Giappone, Martiri, in “BS”, vol. VI, Istituto Giovanni XXIII – Pontificia Università Lateranense, Roma 1968, coll. 434–441). Ricordiamo che questi protomartiri giapponesi, uccisi agli inizi di Febbraio del 1597 sulla collina Tateyama di Nagasaki, per ordine del signore feudale (daimyō) Toyotomi Hideyoshi (Nakamura, 2 Febbraio 1537 – Kyoto, 18 Settembre 1598), qualificato dai cristiani Taicosama.

I tre Gesuiti baciarono il legno dello strumento del loro imminente martirio, si distesero ognuno sulla propria croce, venendo legati con funi dai loro aguzzini. Questi ultimi, issarono contemporaneamente le tre croci rivolgendole verso la città, in modo da poter essere osservate dalla popolazione, mentre i martiri intonavano canti di ringraziamento, e li trafissero brutalmente con delle lance.

Questi martiri furono beatificati da Urbano VIII nel 1627 (cfr. G. D. Gordini, Giappone, Martiri…cit.). Divennero compatroni della città di Palermo nel 1629 (cfr. A. Giannino S. J., La chiesa del Gesù a Casa Professa. Palermo, terza ristampa a cura di P. F. Salvo S. J., Palermo 2003, 64 pp., in particolare, p. 9;  M. C. Ruggieri Tricoli, Costruire Gerusalemme…cit.,  p. 225, nota n. 370).

La scena, anche qui appare divisa in due settori attraverso dei ruderi di un colonnato in fuga prospettica. Nel settore sinistro è raffigurato il martirio per crocifissione dei tre Beati Gesuiti del Giappone (la dicitura Santi Gesuiti del Giappone utilizzata sinora dagli storici dell’arte è errata essendo stati canonizzati da Pio IX nel 1862, cfr. G. D. Gordini, Giappone, Martiri…cit.), mentre tre angioletti recano loro la palma. L’ambiente appare avvolto in una sorta di “sospensione temporale” dell’atto disumano che esalta il senso di decadenza accentuato dai ruderi architettonici e dal cupo contesto meteorologico.

Ci preme qui sottolineare che la scoperta della paternità di Giuseppe Spatafora II junior delle due opere, si deve alle instancabili ricerche archivistiche portate avanti dal compianto padre Francesco Salvo S. J. (cfr. A. Giannino S. J., La chiesa del Gesù…cit., p. 11; M. C. Ruggieri Tricoli, Costruire Gerusalemme…cit., p. 231).

Lo storico dell’arte Antonio Cuccia ha dedicato alle due opere una puntuale trattazione critica (cfr. A. Cuccia, La pittura del Seicento a Termini Imerese e nel suo territorio in “Bollettino d‘Arte”, n. 143, Gennaio–Marzo 2008, pp. 49–92, in particolare, pp. 52–54). Il Cuccia, attraverso un prezioso e calzante anacronismo, ravvisa nelle due tele «un partito concettuale “moderno” che nell‘angosciosa interpretazione “muta” dei paesaggi urbani e naturalistici trova un parallelo, seppur con diversa valenza […] nella problematica contemporanea di un De Chirico o di un Sironi». Secondo lo studioso, il linguaggio espresso da questo artista, «seppur legato ancora al retaggio manierista, si aggiorna ai parametri seicenteschi nel rendere la scena reale attraverso una sapiente orchestrazione luministica che varia l‘intensità delle note cromatiche nella resa sintetica delle figure», con una peculiare «marcata espressività, funzionale ad un linguaggio diretto».

La storica dell’arte Teresa Pugliatti, ha ulteriormente puntualizzato l’inquietante palese contrasto che connota l’orchestrazione scenica nelle due tele, essendo l’azione del tutto concentrata su un lato della composizione [cfr. T. Pugliatti, Pittura della tarda Maniera nella Sicilia occidentale (15571647), Kalós, Palermo 2011, 492 pp., in particolare, pp. 185–188].  Si veda anche V. Vario, I santi martiri giapponesi della Compagnia di Gesù, tra Namban Art e pittura tardo-manierista, “In Folio”, Rivista del Dottorato di Ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione – Università degli Studi di Palermo, n. 32, pp. 21–22).

Recentemente, tenendo conto degli stilemi presenti nelle due opere precedenti, Antonio Cuccia ha attribuito a Giuseppe Spatafora II junior, due pale d’altare di Caccamo. La prima, raffigura la Madonna in gloria tra  S. Stefano Protomartire e S. Lorenzo Martire, della chiesa della Badia «caratterizzato da un‘espressività marcata e ostentata che tradisce il tono propagandistico proprio in direzione della cultura figurativa gesuitica». Condividiamo pienamente tale attribuzione, sottolineando, inoltre, come sia evidente la dipendenza del pittore dal cognato La Barbera, arrivando addirittura a riprendere, sia pure con una resa differente, lo stilema dei puttini paffuti e nasuti.

Secondo Cuccia, la pittura di Giuseppe Spatafora II junior si connota per «la corposità data alle ombre» che esaltano «il partito luministico», caratteristica che «prelude al più marcato contrasto dei tardi dipinti palermitani», dando «incisività ai personaggi, non più sognanti ma presenti e diretti», con una datazione «al primo quarto del secolo XVII, proprio per l‘adesione alla politica culturale di Casa Professa». La seconda opera è la Santissima Trinità e Santi in Santa Maria degli Angeli, sempre a Caccamo, secondo lo studioso appare «sommario ma incisivo non solo per i caratteri marcati ma per la complessità del messaggio sacrale».

Appare sicuramente curioso che sino ad ora non sia stata rintracciata alcuna opera di Giuseppe Spatafora II junior, proprio nella città che gli diede i natali. A tale lacuna riteniamo di aver posto qui rimedio, attribuendo a questo artista la tela raffigurante S. Giuseppe col Bambino Gesù che si conserva nella chiesa di S. Maria di Porto Salvo sotto il titolo di S. Anna, in Termini Imerese, sita in Via Felice Cavallotti, l’antica Strada della Piscarìa, fondata dai frati del terzo ordine francescano, con annesso convento. Il 27 Maggio II Indizione 1589, si ebbe la prima petizione per far insediare a Termini Imerese i detti frati in un magazzino diruto, ubicato presso la chiesa di S. Bartolomeo (cfr. Atti dei Magnifici Giurati, 1587–89, ms. della Biblioteca Comunale di Termini Imerese ai segni III 10 a 14).

Secondo lo storico locale seicentesco don Vincenzo Solìto (cfr. V. Solito, Termini Himerese citta [sic] della Sicilia posta in teatro, II, Bisagni, Messina 1671, pp. 107–108), la concessione fu definitivamente ratificata nel 1610, mentre nel 1623 sorse l’attuale chiesa e convento di S. Maria di Porto Salvo sotto il titolo di S. Anna: «Nel 1610. vennero nella Città di Termini ad habitare li Padri del terzo Ordine di S. Francesco, e vi fondorno [sic] il loro Convento, il che così successe: il Padre Maestro Fra Francesco Lobello delegato del P. Maestro Р. Cherubino Мontifredi Provinciale dell’Ordine, in virtù di lettere date nel Convento della Zisa di Palermo à 29 d’Aprile  1610. venne nella Città di Termini, e gli fù [sic] concessa dalli Giurati, e dalli Pescatori la Chiesa di S. Bartolomeo coll’assenso del Signor Arcivescovo di Palermo in virtù d’atto fatto à 18. di Decembre [sic] 9. indit[ione]. del medesimo anno, et in quello luogo vi habitorno [sic] questi Padri alcuni anni, insin’a tanto, che dорро [sic] nel 1623. si trasferirono da quello ad un’altro [sic] più convenevole, fondando ivi il Convento nuovo, e la Chiesa sotto il titolo di S. Maria di Porto Salvo, dove adesso si ritrovano. Si può legere [sic] della fondatione del detto Convento il P. Francesco Bordono [sic, Bordoni] in Cronologia Fratrum, et Sororum Tertij Ordinis Sancti Francisci cap. 25. de Provincia Sicula nu[mero]. 17.». Il P. Maestro Francesco Bordoni da Parma († 1671), nel suo Cronologium fratrum, et sororum tertij ordinis S. Francisci tam regularis quam secularis,  typis Marij Vignæ, Parmae 1658, pp. 432–433, precisa che i frati rinunziarono alla chiesa di S. Bartolomeo Apostolo, in favore del beneficiale Marco Antonio Tilesino (nel volume erroneamente si legge Silesino), avendo completato l’edificio della chiesa e convento di S. Maria di Porto Salvo, come attesta l’atto relativo, redatto il 12 Aprile VI Indizione 1623 presso notar Giovanni Matteo Comella di Termini, estratto poi da Tommaso Comella.

Ulteriori fonti d’archivio permettono di completare le informazioni riferite dal Solìto e dal Bordoni. Il 18 Dicembre XII Indizione 1613, i rettori della congregazione dei marinai e pescatori, con sede in S. Bartolomeo, Andrea La Rosa, Antonio Comella e Vincenzo Sansone, ottennero di poter continuare a svolgere le loro riunioni in detto luogo di culto, nonostante fosse stato concesso dai Giurati (amministratori civici) ai francescani del terzo ordine. Inoltre, nel caso che i detti frati, per edificare il loro convento, avessero preso la decisione di demolire il muro di tale edificio di culto dove era dipinta, probabilmente a fresco, l’immagine del SS. Crocifisso, fu concesso ai componenti della detta congregazione di salvare e far trasportare la detta immagine (cfr. Archivio di Stato di Palermo, sezione di Termini Imerese, fondo notai defunti, notar Giovanni Matteo Comella di Termini Imerese, vol, 1495, bastardello, 1608–13, s. n.). Il 5 Aprile V Indizione 1622, per rogito del detto notaio termitano, i francescani del terzo ordine,  per lascito testamentario di Mastro Domenico Di Amaturi, ricevettero dei magazzini in eredità sui quali gravava il censo di onze 5 dovuti alla cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa di Termini Imerese, ubicati nella Strada della Piscarìa, quasi di rimpetto il Piano degli Xilbi, l’attuale Piazza S. Anna (cfr. Libro d’Assento della Cappella del SS. Sacramento della Maggior Chiesa di Termini, ms. Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese, ai segni B α 2, f. 51). In seguito a tale lascito, i francescani decisero poi di demolire i detti magazzini per edificarvi il loro convento, con annessa chiesa di S. Maria di Porto Salvo sotto il titolo di S. Anna.

Nel 1776, Jean Hoüel (Rouen, Normandia, 28 Giugno 1735 – Parigi, 14 Novembre 1813), viaggiatore, pittore, architetto e naturalista francese, nel suo soggiorno a Termini Imerese fu ospite nel piccolo convento dei frati del terzo ordine francescano, questi ultimi ormai ridottisi a tre componenti compreso il priore (cfr. P. Bova, A. Contino, La Splendidissima nel Grand Tour. 1776: Jean Hoüel a Termini Imerese, “Esperonews”, 5 Maggio 2021, on-line in questa testata giornalistica).

In tale edificio di culto, negli anni 20’ del XX secolo il sac. Rocco Cusimano rammentava sommariamente l’opera: «un quadro sopra tela con S. Giuseppe ed il Bambino» (cfr. R. Cusimano, Brevi cenni di storia termitana, Tipografia pontificia, Palermo 1926, p. 85). A parte questa eccezione, la tela appare ignorata tanto dalla storiografia locale, quanto dalla letteratura artistica, sino al 2001, allorché Antonio Contino e Salvatore Mantia la riferirono “alla cerchia del La Barbera, forse ad un suo discepolo (Silvestre Di Blasi?)” (cfr. A. Contino, S. Mantia, Architetti e Pittori… cit., p. 180).

Tre anni dopo, la studiosa Anna Virzì ha riferito la tela ad un ignoto artista del secolo XVII, pur ammettendo che “l’ambito del La Barbera può anche essere accettato, ma come generico carattere di una pittura che ne conosceva gli esiti e vi si accostava per suggestione, più che per specifico ambito di scuola” (cfr. A. Virzì, Pittura del XVII secolo a Termini Imerese, GASM, Termini Imerese 2004, scheda n. 46,  pp. 193–194).

Il tema effigiato nella tela, S. Giuseppe col Bambino Gesù, e la sua collocazione in questa chiesa francescana fa trasparire l’origine del contesto iconografico in cui nacque l’opera commissionata all’autore che, con il suo estro, interpretò e riprodusse sulla tela il messaggio didattico–devozionale del Verbo, incarnato attraverso la Maternità divina di Maria, che crebbe grazie alla bonaria e laboriosa guida paterna di S. Giuseppe, mettendo in risalto la prefigurazione del sacrificio di Cristo volto alla redenzione dell’Umanità. Del resto, i teologi francescani, ebbero una particolare attenzione verso il culto giuseppino, come ad es. traspare dagli scritti di S. Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio, 1217/1221 – Lione, 15 Luglio 1274) che, tra l’altro, ebbe a dedicare al nostro anche un apposito sermone (cfr. J. de Calasanz Vives y Tutó, Summa Josephina ex patribus, doctoribus, asceticis et poetis qui de eximia dignitate S. Ioseph scripserunt, Ex Typographia Pontificia, Roma 1907, in particolare, XXIV, Sermo S. Bonaventurae Episcopi. Varia de S. Ioseph, pp. 430–432). Inoltre, il Beato Giovanni Duns Scoto (Duns, Edimburgo 1266 – Colonia, 8 Novembre 1308), fu autore del trattato teologico De matrimonio inter B.V. Mariam et sanctus Joseph. Bernardino da Siena, al secolo Bernardino degli Albizzeschi (Massa Marittima, 8 Settembre 1380 – L’Aquila, 20 Maggio 1444) compose un apposito sermone, il Sermo de Sancto Joseph Sponso B. Virginis (cfr. E. Reghenzi, San Giuseppe: La vita nello spirito dello sposo di Maria, Gilgamesh Edizioni, 2021, 448 pp.). Nel 1479, papa Sisto IV, il francescano Francesco della Rovere (Celle Ligure, 21 Luglio 1414 – Roma, 12 Agosto 1484), istituì la festa di S. Giuseppe, il 19 Marzo, da celebrarsi a Roma. Su richiesta dei Minori Conventuali, lo stesso pontefice approvò una messa dedicata al Santo con rito semplice, elevata poi da Innocenzo VIII (Cosimo de’ Migliorati, Sulmona, 1336 c. – Roma, 6 Novembre 1406) a rito doppio. Il giorno 8 Maggio 1621, Gregorio XV (Alessandro Ludovisi, Bologna, 9 Gennaio 1554 – Roma, 8 Luglio 1623) decretò l’estensione di tale festa a tutta la chiesa universale, ribadita da Urbano VIII (Maffeo Barberini, Firenze, 5 Aprile 1568 – Roma, 29 Luglio 1644) nel 1642 (cfr. T. Stramare, M. L. Casanova, Giuseppe sposo di Maria, in “BS”, VI, 1965, coll. 1251–1292).

L’iconografia della tela si ricollega chiaramente alla diffusione nell’orbe cattolico della grande devozione ed adorazione nei confronti di Gesù Bambino, che ebbe il suo apogeo proprio nel Seicento, con l’istituzionalizzazione del culto, soprattutto come “Piccolo Re di Gloria”, aspetto che è stato particolarmente sottolineato dalla studiosa di antropologia storica, Sandra La Rocca. Già alla fine del medioevo si ebbe una notevole diffusione della devozione privata di Gesù Bambino, come attestano le numerose opere in legno, stucco e cera, realizzate in questo periodo (cfr. S. La Rocca, L’enfant Jésus: Histoire et anthropologie d’une dévotion dans l’occident chrétien, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2007, 328 pp., in particolare, pp. 47–48).

Nella prima metà del Seicento, appare emblematica l’iconografia di S. Giuseppe e di Gesù Bambino, realizzata da Jacques Callot (Nancy, 1592 – ivi, 1635) tra il 1632 ed il 1635. S. Giuseppe è effigiato mentre regge con la destra il bastone fiorito e con la sinistra tiene per mano il Pargol Divino che, con la sinistra, regge il globo (cfr. J. Callot, S. Joseph, in Les images de tous les saints et saintes de l’année suivant le martyrologe Romain, Henriet, Paris 1636, 19 Mars). Per ulteriori approfondimenti sulla tradizione iconografica relativa a Gesù Bambino, rimandiamo al saggio dello storico dell’arte Carlo Bertelli [cfr. C. Bertelli, Il Piccolo Gesù. Vicende della tradizione iconografica del Bambin Gesù in R. Ramos Sosa (coord.), El Niño Jesús y la infancia en las artes plasticas, siglos XV al XVII, Actas del Coloquio Internacional, IV centenario del Niño Jesús del Sagrario, 1606-2006, Pontificia Archicofradía del Santísimo Sacramento del Sagrario de la Catedral de Sevilla, Sevilla, 22–24 de Noviembre de 2006, Hermandad Sacramental del Sagrario, Sevilla 2010, pp. 23–39].

L’autore del dipinto termitano, prendendo le mosse dall’iconografia tradizionale, mostra, in un contesto en plain air, l’ammirabile Padre Putativo che conduce per mano il piccolo Gesù, Figlio Unigenito di Dio. Il pater familias S. Giuseppe, casto sposo di Maria SS. (Mt. 1,16–19; Lc. 1,27), è effigiato con indosso un camice (intĕrŭla) con maniche lunghe fino ai polsi, una tunica lunga e mantello. Il Santo mostra una fluente barba e capelli canuti, il capo affetto da calvizie, ornato da una sottile aureola. Egli con la sinistra regge un bastone, tipico attributo iconografico, mentre con la destra tiene premurosamente la manina sinistra di Gesù Bambino, a sottolineare il suo ruolo di amorevole guida e protettore. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc. 2,52) avvenne in seno alla Sacra Famiglia sotto la tutela di S. Giuseppe che, per l’appunto, nel rito gallicano vede a lui dedicato l’inno «Salve, pater Salvatoris» (sec. XVII) a sottolineare il suo specifico ministero (Mt. 1,21), unico e grandioso, in seno al grande mistero della Redenzione.

Il Divin Figliolo, dal capo irradiante una vivida luminosità, indossa un camice (intĕrŭla) con maniche lunghe fino ai polsi, una tunica chiusa in vita da una cintura ed una mantellina scura con maniche, annodata sul davanti, mentre ai piedi calza sandali legati alle caviglie. Gesù con la destra levata tiene per le zampe un cardellino, prefigurazione della sua passione. L’ampio movimento in avanti della gamba sinistra del Bambino materializza l’incedere della coppia.

Alle spalle della scena principale è dipinto un paesaggio roccioso. L’alta rupe, alla base presenta una scalinata, ad andamento leggermente tortuoso, suddivisa in varie rampe, prefigurazione dell’incarnazione di Gesù Cristo, Mediatore tra Dio ed i credenti, come scala innalzata tra il Cielo e la Terra. La scalinata si inerpica sino a raggiungere il prospetto di un’imponente struttura monumentale, in parte rovinata, che si apre con un grande portale archivoltato, sormontato da un oculo circolare e duplice cornicione, coronato dai ruderi di una volta a pianta curvilinea. Il portale richiama le parole di Gesù su sé stesso nel Vangelo di S. Giovanni (10, 9): «Io sono la porta: chi entrerà attraverso me sarà salvo…». La struttura monumentale funge anche da basamento di un edificio cilindrico torreggiante. Quest’ultimo, a nostro avviso, appare ispirato dalle incisioni di Paul Bril, in particolare dai torrioni ritratti in quella raffigurante un Paesaggio fluviale con i viaggiatori (cfr. P. Bril, River Landscape with Travelers, acquaforte su carta vergata, 1590, National Gallery of Art di Washington DC https://www.nga.gov/collection/art-object-page.55840.html). Teologicamente, la struttura torreggiante richiama la Turris Davidica, che simboleggia la pienezza della regalità di Cristo, discendente di Davide. Quest’ultimo, re di Giuda e Israele, aveva ricevuto l’unzione, segno dell’elezione divina (cfr. I Reg. 16, 1–13), la promessa che la sua discendenza avrebbe regnato per sempre (cfr. II Reg. 7, 16) nonché che dalla sua stirpe sarebbe nato il Messia atteso dagli israeliti (Is. 11). Gli evangelisti S. Matteo e S. Luca, a parte le divergenze nel filo genealogico, concordano nell’evidenziare la discendenza di Gesù della stirpe di Davide (Mt. 1, 1–17; Lc. 1, 27; 2, 4; 3, 23–31). S. Luca, nell’episodio dell’Annunciazione, riferisce le parole dell’angelo Gabriele rivolto a Maria SS., con le quali le annuncia la nascita di Gesù che «sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc. 1, 32–33). La discendenza davidica di Gesù, che come Davide è l’unto del Signore, è il compimento delle profezie veterotestamentarie (cfr. L. Sabourin, Il Vangelo di Luca: introduzione e commento, Pontificio Istituto Biblico, Casale Monferrato, Piemme, Roma 1989, pp. 63–64; E. Schweizer, Il vangelo secondo Luca,  Paideia, Brescia 2000, p. 49). Nel Cantico dei cantici vi è altresì la prefigurazione della Vergine Maria: «Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di prodi» (4,4) e ciò ha dato origine all’attributo mariano di Turris Davidica.

In ultima quinta, appare un cielo crepuscolare, di chiara ascendenza nordica, sia pure mutuata dallo stile labarberiano, con il progressivo digradare del cielo scuro verso il chiarore dell’orizzonte.

Curiosamente, la studiosa Anna Virzì (cfr. A. Virzì, Pittura del XVII secolo a Termini Imerese, p. 194),  sostiene che «l’inserto paesaggistico raffigurante una rupe, sotto cui si erge una costruzione architettonica simile ad un castello, potrebbe essere una diretta citazione del paesaggio termitano, e per la precisione del monte un tempo denominato Euraco oggi S. Calogero, e del castello della stessa cittadina». Purtroppo per la studiosa, né la rupe, con le sue guglie rocciose, né le strutture monumentali, esibiscono alcuna allusione, nemmeno remota, al Monte S. Calogero od al Castello di Termini Imerese, essendo del tutto dissonanti dal punto di vista morfologico.

Un rigoroso confronto stilistico tra la tela termitana e quelle palermitane e caccamesi, mette in evidenza marcate coincidenze espressive nella costruzione pittorica, legate ad un comune linguaggio incisivo che si propone nella sua immediatezza. Altrettanto coincidente appare l’orchestrazione luministica che si connota per le ombre rese in maniera corposa, al fine di ottenere con accortezza dei contrasti cromatici e chiaroscurali che esaltano l’essenzialità delle figure.

Il paesaggio, del resto, presenta marcate corrispondenze con le opere palermitane e caccamesi, come la predilezione per il gusto antiquario per le rovine architettoniche, nonché naturalistico, come appare dalle raffigurazioni di rocche alpestri e dalla vegetazione minutamente rappresentata che richiama la pittura nordica di genere. Similare appare anche il dispiegarsi delle nubi nel cielo fosco.

L’autore di questo dipinto, a nostro avviso, esibisce non solo una generica conoscenza ed assimilazione della cultura figurativa del La Barbera, ma appare fortemente conforme ad essa, pertanto possiamo ragionevolmente ritenere che si tratti di un allievo, strettamente legato al pittore termitano, che ha ben assimilato la lezione del maestro, sia pure trasfigurandola secondo la propria sensibilità artistica.

Concludendo, riteniamo che il dipinto raffigurante S. Giuseppe col Bambino Gesù (del quale sarebbe certamente auspicabile un restauro conservativo), che abbiamo qui illustrato, debba aggiungersi all’esiguo catalogo di Giuseppe Spatafora II junior. La tela rappresenta un primo tassello volto alla riscoperta della fase iniziale “termitana”, del nostro artista, costituendo un contributo alla ricostruzione del percorso artistico del pittore dalla cifra stilistica, pur non eccelsa, ma con una sua indubbia dignità.

Patrizia Bova e Antonio Contino

Ringraziamenti: vogliamo palesare la nostra più viva e sincera gratitudine nei confronti dei direttori e del personale dell’Archivio di Stato di Palermo, Sezione di Termini Imerese e della Biblioteca comunale Liciniana di Termini Imerese, per l’essenziale supporto logistico nelle nostre ricerche e per la consueta disponibilità. Vogliamo esprimere la nostra riconoscenza alle suore cappuccine dell’Immacolata di Lourdes per averci permesso di osservare de visu l’opera studiata e di fotografarla. Un ringraziamento particolare va a don Antonio Todaro per averci permesso, con squisita gentilezza, di effettuare fondamentali ricerche presso l’Archivio Storico della Maggior Chiesa di Termini Imerese.