Il concetto di “altro” fra natura e cultura

0
547

L’idea della diversità si origina nella storia umana in epoche antichissime, presumibilmente protostoriche. Essa sembra nascere dall’esigenza dei gruppi umani primitivi di riconoscersi come unità economica e sociale e di proteggere le proprie risorse da nemici esterni. Sembra che questa sia stata la conseguenza di quella che Gordon Childe ha chiamato rivoluzione neolitica e che è consistita nel passaggio da forme di nomadismo centrate sulla caccia e sulla ricerca di cibo a forme stanziali strettamente connesse alla scoperta dell’agricoltura i cui frutti potevano così essere immagazzinati, usati per la comunità ed anche, se in eccesso, scambiati con altri gruppi. Nei gruppi caratterizzati da un alto grado di nomadismo questo significava, per esempio, difendere le strade percorse – o percorribili – da altri gruppi umani, anch’essi in continuo spostamento; con il procedere dell’evoluzione verso la stanzialità divenne necessario controllare i propri territori e proteggere i propri stanziamenti da chiunque non appartenesse al clan, alla comunità, alla tribù.

Con la stanzialità si rafforza pesantemente l’idea di alterità, vissuta come diversità, come pericolo, come estraneità. È su questa base puramente economica che nascono i primi miti dell’identità che forniscono una prima trama teorica alla legittimazione della difesa sociale contro l’alterità. I miti dell’identità sono in realtà i primi strumenti di formalizzazione delle differenze mediante speculazioni, affabulazioni, convenzioni scientifiche e norme sociali, che stabiliscono le motivazioni della supremazia dell’io rispetto all’altro. Storici della preistoria, paleoantropologi, etnologi e archeologi hanno trovato ampie conferme di questo costrutto, lungo un percorso che va addirittura dai primi gruppi di ominidi alla fondazione della prime città. Esempi ne sono i miti delle origini dei singoli popoli, il totemismo, l’endogamia, le religioni fortemente etnicizzate (per esempio il monoteismo ebraico) con i loro riti di appartenenza (circoncisione), le prime monarchie teocratiche, il passaggio da dispositivi bellici di tipo difensivo a dispositivi di tipo offensivo in grado di sostenere i primi esperimenti espansionistici.

Lo stigma dell’alterità

Se in una prima fase protostorica e storica la concezione della diversità era stata fondata su giustificabili tentativi difensivi, successivamente, il diverso divenne qualcosa da cui difendersi attivamente, da attaccare e distruggere perché aprioristicamente pericoloso e potenzialmente nemico. Questa aggressione necessitava di chiari modelli di identificazione e, vista la progressiva complessità sociale (in termini economici, demografici, culturali), anche di una serie di distinzioni.

L’altro può essere nemico, ma troppo pericoloso per poter essere attaccato oppure può essere ritenuto inferiore ma troppo utile per poter essere distrutto. È la nascita di quella che potremmo definire mediazione sociale sulla diversità, che può essere accettata perché utile o tollerata perché troppo pericolosa. Questo porta a distinguere tra differenti possibili diversità e ad un perverso processo di astrazione: non solo si cominciano a distinguere le diversità immediatamente aggredibili da quelle tollerabili, anche se obtorto collo, ma le diversità aggredibili divengono metafora di tutte le diversità, anche di quelle più innocue e su di esse si va a ridirezionare l’aggressività deviata da altri obiettivi, temuti ma non aggredibili. Il ridirezionamento è sostanzialmente frutto di una paura dell’invasione, al tempo stesso militare, psicologica, religiosa ed economica, paura di una contaminazione inarrestabile e pericolosa sia per il singolo che per il gruppo. In parole povere, si vanno ad identificare forme di alterità che siano la quintessenza di tutte le alterità possibili, che vadano ad incarnare, cioè, tutti gli aspetti negativi, putrescenti, pericolosi e indesiderabili di un contesto sociale e culturale. L’alterità comincia a diventare metafora stessa della diversità assoluta, intollerabile, dalla quale doversi difendere. È un processo che riguarda individui, gruppi, etnie, e via via religioni, forme di pensiero, visioni del mondo. Il concetto di alterità si circoscrive e si definisce, si precisa, diventa capro espiatorio di tutte le alterità possibili. Perché ciò possa avvenire, occorre però che la diversità sia così evidente, così marcata, così facilmente identificabile da essere immediatamente riconoscibile. Occorre quindi che presenti delle caratteristiche altamente specifiche, variamente individualizzabili e definite. E quali? Un diverso colore della pelle, una religione differente, le pratiche e gli orientamenti sessuali (è il caso biblico di Sodoma e Gomorra), gli usi e i costumi di un popolo o di un gruppo umano.

L’insieme di queste caratteristiche costituisce lo stigma, un segno indubitabile di differenza. A creare lo stigma dominante sono ovviamente i gruppi sociali, culturali ed etnici più forti, dalle economie più floride, dagli eserciti più potenti. La rinuncia all’endogamia e la scelta dell’esogamia (la ricerca di partner sessuali non appartenenti al proprio gruppo sociale o alla propria etnia) per esempio, favorisce i contatti tra diverse comunità fino a quel momento isolate e chiuse a qualsiasi tipo di contatto esterno. Tra di esse verranno stigmatizzate quelle più facilmente identificabili e più deboli: i forti ebrei stigmatizzeranno gli abitanti di Sodoma per le loro abitudini sessuali, ma saranno a loro volta stigmatizzati dalle altre culture più potenti perché circoncisi e monoteisti o perché, in epoche successive, traditori di Gesù. Quando i Romani, sempre più forti, diverranno monoteisti saranno stigmatizzati a loro volta per avere tradito i loro antichi dei. I Romani, a loro volta, stigmatizzeranno i barbari perché privi di civiltà; al crollo dell’Impero Romano d’Occidente saranno a loro volta stigmatizzati dai barbari (ora più forti) perché considerati molli ed effeminati, omosessuali. Quando le armate arabe si scateneranno contro l’Occidente cristiano, lo stigmatizzeranno perché incolto ed infedele; gli arabi saranno a loro volta duramente stigmatizzati, perché di altra fede e di altro colore di pelle, da un Occidente cristiano vincitore.

Figure paradigmatiche come l’ebreo, l’omosessuale, il barbaro (non tanto nel senso greco di straniero, bensì in quello latino comune di selvaggio), il negro, l’infedele cominciano allora a percorrere faticosamente la storia della cultura occidentale. Sono i “diversi”, le cause di ogni male, gli elementi pericolosi da espungere, sempre e comunque, dal tessuto sociale, oppure da convertire, modificare, integrare. A queste figure se ne aggiungeranno via via altre, sino alla strutturazione di una vera e propria tipologia della diversità.

Verso una scienza della diversità

È nel Medioevo che, probabilmente, si strutturò in maniera stabile e formalizzata una “scienza” della diversità, nel senso che, per la prima volta nella storia dell’umanità, le alterità possibili vennero (più o meno esplicitamente) catalogate e descritte, mentre si codificarono le modalità, la prassi della loro repressione. E si trattò di una tipologia talmente salda da resistere per secoli, al tempo, agli eventi storici, ai mutamenti sociali, semplicemente riadattandosi, con una specie di sinistro upgrading, ai cambiamenti storici. Nel Medioevo è già pienamente avvenuto l’incontro tra cultura cristiana, ebraismo, islam, culture del nord Europa, culture orientali (tartari, cinesi, indiani), con il loro carico di convinzioni, filosofie, visioni del mondo, spesso in conflitto tra loro. Alcune di queste culture acquisirono un carattere di dominanza, contemporaneamente confinando culture meno vaste e potenti in un’area di subalternità e questo avvenne in ampie aree del mondo, in particolar modo in Occidente e in  Oriente; culture diverse entrarono fra loro in contatto, ma anche in conflitto. Furono questi incontri ˗ scontri a determinare le prime tipologie della diversità, con la quale vennero definite e stigmatizzate le forme di alterità e, conseguentemente le prime forme di normalizzazione, seguendo una linea concettuale semplice, nella sua brutalità: chi è diverso deve diventare normale, o essere eliminato. La ferocia di questa normalizzazione variava in base alla tolleranza della cultura che la imponeva. Una delle culture che si mostrò più intolleranti fu quella cristiana. Dopo aver subito secoli di persecuzione, nel tardo Impero Romano, il Cristianesimo assunse un ruolo progressivamente dominante e con l’imperatore Costantino I, fu riconosciuto come vera religione primaria dell’Impero. Costantino convocò due Concili, il primo ad Arles nel 314 – nel quale venne riconosciuta e condannata la prima eresia (quella donatista) e il secondo a Nicea nel 324 che condannò invece l’eresia ariana. In realtà il Concilio di Nicea ebbe una funzione ‘normalizzatrice’ delle molteplici istanze dottrinarie che caratterizzavano il movimento cristiano, stabilendo delle regole comportamentali e dei principi teologici ai quali, da quel momento in poi, i cristiani si sarebbero dovuti adeguare. Stabilì, insomma, cosa era norma e cosa era devianza all’interno della Chiesa cristiana. La Chiesa, a sua volta, ormai religione dominante in Occidente, avrebbe usato da allora in poi i propri principi come strumento di misura di ogni forma di alterità religiosa, politica e sociale, da correggere o da reprimere. Costantino inoltre aveva sancito una alleanza inalienabile fra religione e potere politico: la prima forniva il crisma dell’autorevolezza e della legittimità al secondo. Il secondo riconosceva la caratteristica dell’infallibilità alla prima. Era così sancita l’esistenza di un inevitabile, invincibile connubio fra il potere della Chiesa e il potere politico. La frittata era fatta. Sarebbe stata mangiata per secoli da tutto l’Occidente cristiano.

Ma sarebbe stata una frittata dal sapore amaro. Stabiliti dei principi inalienabili, in quanto sostenuti sia dallo Stato, sia dalla religione, è inevitabile trovare chi non li accetta e li condivide. E il potere dominante deve cercare di normalizzare i recalcitranti, mediante la conversione, l’abiura, o, in caso di resistenza, reprimendo o annientando chi trasgredisce. Esempi simili sono ovviamente estensibili a tutti i grandi sistemi religiosi e politici, in particolare a quelli dell’asse ebraico-cristiano-islamico, ma anche, più genericamente, a tutti i gruppi – anche quelli rigorosamente laici –  in grado di esercitare il potere e di imporre delle norme etiche e sociali, finalizzate al mantenimento e alla difesa del potere stesso. Ogni forma di potere, ed ogni cultura, insomma ha un proprio sistema normativo, e impone un proprio sistema di regole, programmando contemporaneamente le modalità di repressione della trasgressione. Il problema della relazione con l’altro da sé, si inscrive perfettamente in questo modello. Il problema centrale delle società umane – dal gruppo, alle etnie, agli Stati, è la difesa di una norma interna e la repressione dell’alterità. Una società infatti è un ‘omeostato’, una macchina che deve stare in un dato equilibrio, per mantenere il quale o si ‘normalizza’ il diverso, per renderlo compatibile con il sistema, o lo si allontana, o lo si isola, o lo si reprime. L’intensità della repressione è direttamente proporzionale alla forza del potere che la impone e la pratica. Le modalità di repressione dipendono dal sistema di riferimento valoriale e dalla complessità della società che reprime. I tipi di alterità da reprime, di volta in volta, sono in genere sempre gli stessi.

Alterità di genere sessuale. Di questa categoria hanno parte, ubiquitariamente, omosessuali, trans-sessuali, bisessuali, le donne e gli uomini con comportamenti sessuali non consoni alla morale religiosa o comunque non accettati dalla cultura cui si appartiene. Dello stigma dell’alterità di genere sono storicamente vittime molto più le donne che subiscono da sempre discriminazioni sociali a qualsiasi livello (non solo sessuale, lavorativo, economico, comportamentale, persino religioso).

Alterità razziale. Questa categoria comprende tutti gli individui estranei al gruppo sociale dominante, in un dato momento storico e in una specifica cultura. La base concettuale di questa alterità è spesso compendiata dal concetto di “razza” e spesso è rafforzata da valutazioni economiche e culturali, oltre che estetiche (colore della pelle, caratteristiche somatiche o usi igienico-culturali, come la circoncisione per gli ebrei). Oggi comprende tutti gli extracomunitari afro-asiatici, facilmente riconoscibili già dal colore della loro pelle. E’ la forma di discriminazione più diffusa, forse per la sua semplicità nell’essere riconosciuta, una forma di razzismo semplice, brutale, elementare, primitivo che non tiene conto delle caratteristiche psicologiche, culturali, morali di un individuo, ma semplicemente del suo naturale aspetto fisico, classificato come segno inequivocabile dell’appartenenza ad una razza. C’è qualcosa di spaventoso in questa modalità di classificazione, perché essa non accetta deroghe o scusanti, nemmeno di fronte alle più grandi capacità etiche o intellettuali.

Alterità religiosa. Comprende tutti gli individui e gruppi che praticano religioni o aderiscono a confessioni religiose diverse da quelle del gruppo socio-culturale dominante. Implica la limitazione di espressione o di culto, sino alla repressione violenta.  Comprende anche tutte le forme di eresia come tali definite dalle diverse religioni dominanti. Molto diffusa in passati periodi storici (basti pensare alle guerre di religione, alla evangelizzazione di massa di interi popoli, alle conversioni forzate al ruolo dell’Inquisizione nei Paesi di religione cattolica, o dei tribunali religiosi islamici), oggi è meno diffusa, ma pur sempre presente.

Alterità patologica. Comprende coloro che sono affetti o ipotetici portatori da malattie ritenute socialmente pericolose perché contagiose ed epidemiche (storicamente la peste, la lebbra o il colera per citarne solo tre), ma anche i malati di mente (perché destabilizzanti e difficilmente controllabili). In epoca recente si sono aggiunte la tossicodipendenza, l’AIDS e le infezioni virali di origine ‘esotica’, come quelle nate nella foresta pluviale africana (l’Ebola, per esempio: non è forse convinzione che sia contagiato dai negri?) o da luoghi ancora più remoti – come la Cina nel caso clamoroso del Covid 19.

A queste categorie di alterità, le più evidenti, se ne potrebbero aggiungere tante altre, di natura politica, economica, persino alimentare. Il problema è che si può considerare alterità tutto e il contrario di tutto, se si accetta l’idea che esistano idee, gusti, sistemi di pensiero e di potere giusti o sbagliati e non semplicemente diversi. Ma accettare l’idea che le diversità possano coesistere e arricchirsi vicendevolmente è difficile, perché la diversità è da sempre considerata pericolosa per la società e quindi da combattere in qualsiasi modo possibile.

Alla base di una teoria dell’alterità c’è infatti sempre un forte mito identitario. Per essere parte di una società ideale devi avere, cioè, delle caratteristiche specifiche che non sono sindacabili, non ammettono deroghe, perché sono le sole in grado di definire una identità che sia ‘giusta’ rispetto ad una ‘alterità’ che, per definizione, è “sbagliata”. E’ un modello unico di ‘appartenenza’, non modificabile. E’ un modello semplice e sarebbe molto rassicurante, se non fosse, semplicemente, in contraddizione con non solo con la società reale, ma con lo stesso divenire storico.

Giovanni Iannuzzo