Un campo di ricerca elettivo dell’etnologia è da sempre stato lo studio delle strategie terapeutiche tradizionali. Tale studio implica l’esplorazione di un’area ovviamente molto estesa. In genere viene sottovalutato (o è poco noto) il fatto che fra i tanti obiettivi della ricerca etnologica (e più in generale di quella specializzazione che viene definita ‘etnomedicina’) c’è quello dei rimedi farmacologici. Sembrerebbe una stramberia un po’ esotica, più topi di biblioteca che da clinici. Sono infatti indiscutibili i progressi della medicina scientifica moderna. Perché allora andare ad occuparsi di metodi di diagnosi e di cura differenti, addirittura preesistenti alla nascita della scienza occidentale moderna, e che affondano le loro radici in sistemi culturali e sociali profondamente diversi dal nostro. Ma diverso non significa necessariamente peggiore o semplicistico. E chi, non più giovanissimo, non ha mai fatto esperienza nella propria infanzia di medicine popolari, di decotti strani, di miscugli poco appetibili o di unguenti preparati in casa? In realtà la ‘vera’, evolutissima farmacologia moderna ha spiccato il volo da circa un cinquantennio. Prima in qualche modo ci si arrangiava, integrando quei pochi farmaci ‘ufficiali’ che erano disponibili con rimedi del tutto domestici. Le multinazionali farmacologiche erano ancora di la da venire.
La dimostrazione di questo assunto sta proprio nei dati scientifici disponibili sugli aspetti farmacoterapici delle medicine tradizionali. In modo del tutto indipendente dalle concezioni della natura e dell’origine delle malattie, spesso intrise da concezioni magiche o religiose, in qualunque epoca e in qualsiasi latitudine, è possibile rintracciare farmacopee estremamente specifiche, utilizzate per le più diverse affezioni.
Naturalmente, è estremamente difficile fare un inventario preciso di tali farmacologie, o disegnare una mappa ideale che le comprenda tutte. Secondo Norman R. Farnsworth, direttore del dipartimento di farmacognosia e farmacologia dell’University of Illinois a Chicago, stime attendibili hanno evidenziato che, sul nostro pianeta, esistano da duecentocinquantamila a settecentomila specie di piante superiori, molte delle quali ancora sostanzialmente sconosciute, e il dieci per cento di esse potrebbe essere stato, o essere tuttora, usato come farmaco nelle medicine tradizionali.
Ciò significa che un numero di piante variabile da venticinquemila a settantamila dovrebbe essere considerato parte integrante delle farmacopee tradizionali; a ciò si deve inoltre aggiungere un numero non precisabile di sostanze di altra natura. Il che dà un’idea approssimativa della reale fattibilità di questo inventario.
Ancora più difficile risulta, poi, una corretta valutazione dell’efficacia terapeutica delle sostanze un tempo impiegate come agenti terapeutici. Una corretta valutazione, infatti, implica studi in vitro e in vivo, sperimentazioni cliniche, confronti crociati con placebo in doppio cieco. Il che trasforma l’intento di verificare la validità delle farmacopee non ortodosse più impossibile che difficile, almeno allo stato attuale. Esistono comunque numerosi elementi storici e culturali che consentono una prima valutazione della reale efficacia dei rimedi farmacologici tradizionali, che derivano da una serie di studi compiuti con metodi classici di farmacologia sperimentale. Per esempio due grandi sistemi medici tradizionali, quello Ayurveda e quello Unani-Tibb, diffusi rispettivamente nel subcontinente indiano e in Pakistan, utilizzano ampiamente la Rauvolfia Serpentina, nell’ipertesione e specialmente nei casi di encefalopatia ipertensiva. Anche se già dal 1563 Garcia de Orta rese nota in occidente l’utilizzazione di questa pianta, bisognò aspettare quasi quattrocento anni, prima che i medici ne prendessero sul serio l’uso.
Alcune verifiche scientifiche
Fu infatti nel 1952 soltanto che fu isolato dalla Rauvolfia Serpentina l’alcaloide reserpina, un farmaco che, negli stati ipertensivi, produce una normalizzazione dei parametri cardiovascolari. Nello stesso tempo la sostanza dimostrò una spiccata azione psicotropa, il che ne spiegava l’uso indo-pakistano in certe forme di “pazzia”.
Un altro esempio eclatante è quello del ginseng, la celebratissima pianta in grado di ridare vigore psicofisico in tutta una serie di situazioni ampiamente propagandate. In realtà il ginseng (Panax Ginseng) è una pianta asiatica (ma ne esiste anche una specie americana, Panax quinquefolius) perenne, con radici carnose utilizzata in Cina, e anche altrove, da tempi immemorabili per un suo generico effetto anti stress.
L’analisi chimica della pianta ha consentito di evidenziare in essa alcuni composti, come il B-sitosterolo, l’acido oleanolico e il panaquilone. Quest’ultimo sembra stimoli le secrezioni endocrine, mentre la panoxina, anch’essa rinvenuta nella pianta, sembra avere una attività stimolante e tonica sul sistema cardiovascolare. Un’altra significativa attività del panacene sembra essere quella analgesica e tranquillante.
Le pianta contiene anche la “ginsenina” dalle proprietà antidiabetiche. Anche questa pianta classica delle farmacopee tradizionali sembra quindi avere un effetto reale, dovuto alle combinazioni dei suoi principi attivi. Pur essendo un toccasana miracoloso il suo impiego appare razionale.
Quelli appena riportati sono solo due esempi, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri, in qualunque branca medica. Già negli anni 70 del secolo scorso, una commissione statunitense, l’American Herbal Pharmacology Delegation, analizzò le sostanze descritte in un libro di medicina tradizionale cinese, che erano impiegate come componenti di 796 ricette indicate per usi terapeutici.
Lo studio in questione appurò che molte di quelle sostanze erano farmacologicamente attive sui disturbi per la cura dei quali venivano usate. Risultò, così, che il 45% delle ricette esaminate avevano una solida base razionale. Per quanto riguarda invece il 49% di esse non si disponeva di informazioni sufficienti per una valutazione.
L’esempio non è valido solo per sistemi medici tradizionali altamente strutturati, come quello cinese che vanta una storia plurimillenaria. Una ulteriore conferma del significato autenticamente terapeutico delle farmacopee tradizionali viene anche dallo studio delle medicine più primitive.
Nel basso Zaire, per esempio, come risulta da uno studio di Janzen e Arkinstall, due esperti psicofarmacologi, esiste un trattamento, più o meno standardizzato, della crisi psicotica acuta. Esso prevede la somministrazione di estratti preparati da quattro piante: Brillantaisia Patula (delle Acanthacee), Virectaria multiflora (delle Rubiacee), Erigeron Floribundus (delle Compositae) e Piper Umbellatum (delle Piperacee). L’estratto di queste piante viene diluito in acqua e somministrato diverse volte al giorno. L’effetto è potentemente sedativo.
Chi somministra il farmaco ha una chiara idea dei suoi effetti collaterali, conosce la dose tossica e sa gestire la terapia in maniera razionale. I dati emersi dimostrano che l’uso di queste sostanze è farmacologicamente giustificato. Tutto questo proietta una nuova luce sulla validità scientifica delle sostanze usate come presidi terapeutici in etnomedicina. Cancella, cioè, da un certo punto di vista, diffusi pregiudizi. D’altra parte, per individuare farmacopee tradizionali non è necessario indagare i sistemi tradizionali complessi, sviluppatisi in zone lontanissime del globo.
Anche la medicina popolare delle nostre zone fornisce validi esempi di approcci apparentemente empirici che in realtà hanno una base e un fondamento scientifico. Si pensi per esempio alle diverse varietà di funghi con proprietà psicotrope presenti nelle Madonie – i cui effetti sono quasi sovrapponibili a quelle del Peyotl o della Mescalina – , all’uso ormai tradizionali di sedativi naturali come le foglie d’alloro, in varie concentrazioni per i suoi effetti spasmolitici sedativi e blandamente ipnotici (l’alloro può però avere, in alte quantità, effetti psicotropi potenti: si pensi che la Pizia, la sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi, prima di vaticinare, masticava grandi quantità delle foglie di questa pianta); all’uso tradizionale dell’aglio come ipotensivo, vermifugo e disinfettante intestinale; all’uso popolare del decotto di prezzemolo (che contiene apiolo) per l’aborto ‘casalingo’ nelle nostre zone; o ancora all’uso del decotto di cipolla come diuretico, della malva e dei fiori di fichi d’India come antinfiammatorio e disintossicante, del biancospino come sedativo ed ipnotico; o ancora a quella ricchissima farmacopea erboristica che continua ad essere usata non solo nelle nostre campagne ma anche nelle isole di cultura tradizionale ancora esistenti nelle realtà metropolitane.
Il dubbio che sorge, a questo punto, non è tanto quello della validità dei rimedi antichi, quanto quello della differenza con i farmaci moderni. Se infatti diciamo che la medicina tradizionale utilizza sostanze farmacologicamente attive, in base a criteri empirici e non scientifici, nel senso che comunemente diamo a questi termini, potremmo pensare che si tratti solo di rimedi primitivi, di quando ancora, cioè, le proprietà di certe sostanze si intuivano anziché essere inconfutabilmente dimostrate. E quindi sono potenzialmente insicure. In realtà è proprio questa la concezione che si deve evitare. Infatti la differenza tra farmacopee tradizionali e farmacopea moderna risiede non tanto nel tipo di farmaco utilizzato, quanto all’uso che se ne fa.
Dove sta la differenza?
In tutte le medicine tradizionali, infatti, da quelle più esotiche alla medicina popolare delle nostre montagne, la farmacopea rappresenta solo un mezzo, non il mezzo per produrre la guarigione. Per quanto i principi utilizzati siano attivi è molto importante il modo in cui essi vengono somministrati, l’atmosfera nella quale la somministrazione avviene, il rapporto che, nell’atto della prescrizione, esiste tra paziente e terapeuta.
Il farmaco infatti ha una funzione simbolica che spesso travalica ampiamente il suo contenuto chimico. Esso è anche un contenitore di valenze affettive, culturali, sociali e in questo senso somministrarlo significa fare agire non solo un composto chimico, ma anche ciò che tale composto rappresenta.
I medici Unani attribuiscono, per esempio, a ogni sostanza terapeutica delle qualità umorali uguali a quelle degli umori: una medicina calda, per così dire, produce un temperamento caldo e quindi va prescritta a quei soggetti i cui disturbi sono dovuti a un temperamento freddo. Quanto nell’azione terapeutica può essere attribuito alle specifiche significazioni simboliche attribuite al farmaco? Un rimedio in forma di pillole non è la stessa cosa di un rimedio in forma globale, per esempio, una pianta somministrata nella sua interezza. Se a una pianta viene attribuito uno specifico valore culturale c’è da chiedersi quanto questo possa interagire col processo terapeutico affettivo. Nello stesso tempo il medico tradizionale, oltre al farmaco, deve essere in grado di “prescrivere se stesso”, per usare una metafora del medico e psicoanalista Michael Balint. Una consuetudine che la moderna medicina occidentale ha da molto tempo dimenticato.
Tutti questi fattori, molti dei quali ancora non esplorati compiutamente hanno un’importanza rilevante nella comprensione delle farmacologie tradizionali. Esse infatti uniscono alla utilizzazione di sostanze efficaci, come è stato dimostrato dalla ricerca di base, un modo specifico di utilizzarle. Lo studio di questo secondo fattore potrebbe contribuire validamente al raggiungimento di due obiettivi: il primo attiene alla formulazione di strategie efficaci per un’utilizzazione clinica diretta dei rimedi farmacologici popolari, in una prospettiva globale del processo terapeutico, molte caratteristiche del quale ci sono tuttora sconosciute. Il secondo, molto più prosaicamente, riguarda il possibile risparmio sulla spesa sanitaria, scegliendo anche l’uso di farmaci tradizionali (laddove ragionevolmente efficaci) insieme ai farmaci di sintesi. E’ questa la grande terra di nessuno nella quale medicina, psicologia e farmaco economia possono incontrarsi, collaborare e, forse, integrarsi.
Giovanni Iannuzzo