Anche se divenne famoso come fondatore di un sistema psicologico, Freud aveva una grande predisposizione per la storia. Ammiratore di Annibale, collezionista di reperti archeologici verso i quali nutriva un amore quasi maniacale, Sigmund Freud ebbe sempre costante attenzione verso le discipline deputate all’indagine del passato dell’umanità. D’altra parte, a confermare queste sue tendenze intellettuali, basta considerare che il suo stesso metodo di cura, la psicoanalisi, è sostanzialmente “storico”, nel senso che è in qualche modo fondato sulla ricerca, nel passato del paziente di quei vissuti, quegli eventi e quelle emozioni che possono avere originato un disagio o una malattia. Insomma, egli fu un “archeologo della mente”. A testimoniare dei suoi interessi storici sta anche il fatto che la sua ultima, importante opera fu pubblicata sotto forma di “romanzo storico”, che ricostruiva la vita del Mosè della Bibbia.
Di fatto, ad un certo momento della sua carriera Freud cominciò a dedicare una certa attenzione ad una interpretazione psicoanalitica della storia, e particolarmente al suo capitolo allora – e in gran parte anche ora – più sconosciuto: la preistoria e il comportamento dei nostri antichi antenati, vissuti in un periodo storico talmente remoto da non lasciare ne tracce ne documenti scritti, ma alcune caratteristiche sociali e psichiche dei quali continuavano a riverberare probabilmente sull’uomo moderno. Si pose, forse per primo, alcune domande che restano fondamentali anche la moderna psichiatria: quando e perché sono nati i disturbi psichiatrici? Perché negli animali sono sostanzialmente assenti mentre invece nella specie umana sono (ed erano già allora) così diffusi? Questo sicuramente dipende dalla complessità unica del cervello umano e dalla civiltà che ne è il prodotto, ma era possibile rintracciare un momento della preistoria nella quale per la prima volta la malattia e il disagio mentale si erano manifestati nella nostra specie? Una domanda a dir poco ambiziosa.
Il primo passo su questa strada fu la definizione del “complesso di Edipo”, uno dei fattori teorici nevralgici della psicoanalisi. Curando pazienti nevrotici, Freud aveva inizialmente ipotizzato che i sintomi da essi presentati fossero la conseguenza di violenze sessuali subite nell’infanzia, specialmente da parte dei genitori – peraltro riferite dai pazienti stessi, che presentavano di essi ricordi crepuscolari. Successivamente invece egli si rese conto che i pazienti immaginavano di avere subito traumi sessuali. Le origini di tali fantasie erano da ricondurre al particolare rapporto triangolato che i bambini assumono nei confronti dei genitori durante l’infanzia: l’amore per il genitore di sesso opposto e l’odio e la gelosia nei confronti del genitore dello stesso sesso. Così essi elaboravano fantasie di violenza, aggressione, castrazione senza alcun riscontro nella realtà.
Chiamò questa situazione “complesso di Edipo” dal mito greco, poi portato sulle scene da Sofocle, nel quale Edipo, appunto, ha una relazione incestuosa con la madre ed uccide il padre. Nella mente di Freud si andò così consolidando l’idea che questo episodio dovesse avere anche delle basi “storiche”: doveva, cioè, esserci stato, nella storia dell’umanità, un qualche fatto primigenio che aveva ispirato questo mito.
Diversi fatti lo guidarono su questa strada. Anzitutto le sue letture etnologiche. Nei popoli primitivi, infatti, si notavano manifestazioni simili a quelle esperite come nevrotiche nel mondo moderno: orrore dell’incesto, tabù e fobie, rituali magici. Ne dedusse che dovevano o potevano avere entrambi una base comune. Poi ebbe importanza la sua formazione darwiniana. Proprio Darwin, infatti, aveva ipotizzato che, in origine, l’umanità fosse suddivisa in orde, sotto la guida di un capo tirannico.
In realtà egli si riferiva ai primati e si fondava sulle proprie osservazioni. Atkinson aveva ampliato questa ipotesi, sino a sostenere che all’interno di queste orde vi fossero lotte per il potere tra il padre e i figli. Queste lotte, che si perpetuavano per secoli, portavano all’uccisione del padre da parte dei figli – che di norma erano allontanati dall’orda per gelosia – e la successione da parte del figlio più forte.
Nello stesso tempo, alcuni episodi politici a lui contemporanei influenzarono certe elaborazioni teoriche di Freud. Il fatto fondamentale fu la rivolta dei Giovani Turchi, un gruppo politico progressista che, nel 1908, si ribellò nell’Impero ottomano al “sultano rosso”, Abdul Hamid II, un vero despota orientale che stava mandando lo stato turco verso la rovina economica e sociale. Egli aveva centinaia di mogli tenute in un harem, sorvegliato da eunuchi, aveva assoluto diritto di vita e di morte sui sudditi, e spesso aveva sanguinosamente represso le rivolte di popolazioni del suo impero. La rivolta dei Giovani Turchi fu quasi la sollevazione dei figli contro un padre tirannico, o almeno così la vide Freud. D’altronde in Austria, da sempre interessata alle vicende balcaniche, questi eventi vennero seguiti con il più vivo interesse.
Freud, insomma, si convinse che, sia nella normalità che nella psicopatologia suo sviluppo il singolo individuo ricapitolasse la storia della sua specie, in maniera simile a quanto avviene nell’embrione umano che nel suo sviluppo endouterino attraversa tutte le fasi evolutive che hanno portato dagli esseri unicellulari e acquatici ai vertebrati, sino all’uomo.
Estendendo questo principio alla psicopatologia, Freud ipotizzò che le manifestazioni sintomatiche delle nevrosi e delle psicosi potessero rappresentare il riflesso sul piano individuale di qualcosa che nel passato era stato condiviso da tutta l’umanità. I sintomi di questi disturbi, cioè, in un tempo remotissimo, avevano rappresentato uno stato d’animo comune a tutta la specie umana in un preciso contesto storico e ambientale; egli formulò questa teoria nel 1915 in un saggio sino a poco tempo fa sconosciuto. Lui stesso infatti lo aveva ritenuto troppo ardito per la cultura del tempo, e ne aveva fatto perdere le tracce. Riscoperto per caso nel 1986, esso ci fornisce un affresco epico e drammatico della preistoria.
LA FILOGENESI DELLE NEVROSI
L’ipotesi di fondo di Freud è che originariamente l’umanità era vissuta in un ambiente molto ricco, dove praticamente disponeva di tutto, in una situazione di soddisfacimento assoluto. Si trattava, insomma, di una situazione che, trasposta nel mito, avrebbe originato l’idea stessa di “paradiso terrestre”. L’evoluzione successiva dell’umanità fu poi condizionata dalle vicende geologiche del pianeta, e in particolar modo dal succedersi delle ere glaciali. Che infatti l’umanità fosse presente sul pianeta durante l’era glaciale era un dato noto già allora, e Freud si riferì proprio a tali conoscenze per la sua teoria.
L’inizio delle glaciazioni comportò, infatti, un drastico cambiamento della situazione ambientale dell’umanità originaria. Di certo il mondo era pericoloso, esisteva la paura, ma anche la possibilità di rispondere ad essa con semplici reazioni di attacco o fuga Il mondo esterno che, sino ad allora, era stato piacevole e gratificante, divenne molto più minaccioso e soprattutto non più controllabile con i sistemi di adattamento già sperimentati Il sentimento maggiormente diffuso, quello che contraddistinse l’umanità tutta, divenne l’angoscia, di fronte ai molteplici e non dominabili pericoli esterni. E’ in quel momento che fa la sua comparsa il panico. L’attacco di panico (che allora Freud aveva definito ‘isteria d’angoscia’) non sarebbe che il retaggio storico, filogenetico di quell’arcaico sentimento di incontrollabile paura.
A quel periodo seguirono tempi sempre più duri, con condizioni di vita che via via si facevano sempre più severe e instabili. Gli uomini si trovarono nella necessità di dovere scegliere addirittura tra la procreazione e l’auto-conservazione. Procreare, infatti, significava aumentare la popolazione in condizioni ambientali estremamente severe. La povertà di risorse e la lotta per sopravvivere in un ambiente esterno ostile, e soprattutto l’impossibilità di mantenere una prole numerosa, debole e indifesa in un contesto naturale tanto minaccioso, dovette inizialmente far pensare all’opportunità di uccidere i neonati, richiesta alla quale sicuramente si opposero le madri. Divenne allora dovere sociale quello di non procreare o limitare la procreazione. Questo portò ad una limitazione dell’attività sessuale – della quale era già nota la correlazione con la procreazione. L’uomo iniziò ad usare pratiche sessuali alternativi, ma la donna fu suo malgrado costretta ad una maggiore repressione della sessualità, anche in presenza di desiderio: era troppo pericolosa. Nacque l’isteria da conversione, per Freud causata nelle donne da una importante repressione del desiderio sessuale.
In un terzo, ulteriore periodo, l’ultimo delle ere glaciali, l’uomo aveva già imparato a “risparmiare” le sue energie sessuali, incanalandole verso altri fini creando, quindi, la prima forma di civiltà. L’energia libidica risparmiata gli mise a disposizione una quantità corrispondente di energia da impiegare per la costruzione della civilizzazione. Conobbe quindi l’uso della lingua, cominciò ad esercitare la sua intelligenza e si assicurò una prima forma di dominio sulla natura. Il suo primordiale linguaggio gli apparve affascinante e straordinario: ritenne che le sue parole e i suoi pensieri fossero onnipotenti, “comprendeva il mondo secondo il suo Io”. La conseguenza fondamentale di questa situazione fu lo sviluppo di una concezione animistica del mondo e la nascita della magia. Vi fu, però, una conseguenza ancora più importante per lo sviluppo delle culture successive.
L’uomo si era reso conto, infatti, di potere assicurare la sicurezza di vita a tanti altri esseri deboli, ai bambini, alle donne. Come contropartita pretese l’assoluto dominio su di essi, specialmente sulle donne. Nacque così l’orda, la prima forma di stabile coesione sociale, nella quale un capo, “un uomo forte, saggio, brutale”, domina in maniera assoluta. Questo studio dell’evoluzione dell’umanità ritorna nei sintomi della nevrosi ossessiva, in parte in modo positivo, in parte in modo negativo. In modo positivo con la sopravvalutazione del pensiero, considerato onnipotente, le concezioni magiche e animistiche, le ritualizzazioni, la propensione alle leggi assolute e rigide, in modo negativo con le formazioni reattive – tipiche anch’esse del quadro in questione – che rappresentano l’opposizione a questo ritorno all’antica situazione sociale. Con la nascita dell’orda, comunque, l’umanità affrontò la transazione delle ere glaciali a una fase successiva della preistoria. E con questo l’argomento delle nevrosi (quelle conosciute e definite all’epoca di Freud) chi chiude. Che origini hanno invece le psicosi, la follia comunemente intesa?
ARCAICHE PSICOSI
Quella fu, per così dire, una questione di famiglia. Il capo dell’orda primigenia infatti è il capo assoluto, tiene per se tutte le donne, è geloso e brutale e talmente geloso delle proprie donne da castrare i figli divenuti adolescenti, così arrestando il loro sviluppo fisico e psichico. Inevitabilmente sorgono così i segni ancestrali della dementia praecox:, la schizofrenia. Da questo spietato trattamento si salvano solo i figli minori che divenivano puberi solo quando il padre era ormai troppo vecchio e aveva bisogno di aiuto e quindi sfuggivano alla castrazione perpetuando nel contempo l’orda. I figli maggiori si potevano salvare solo con la fuga, imparando la convivenza sociale con altri, ma temendo sempre la persecuzione paterna: sentimento questo da cui ebbe origine la paranoia.
Nella fase successiva, l’ultima, calcolabile in una preistoria relativamente recente, i fratelli, per sfuggire alle persecuzioni del padre, che comunque hanno idealizzato e col quale vogliono identificarsi, si alleano tra loro e l’uccidono. Dopo aver conseguito questo risultato, fantasticato per intere generazioni, i fratelli furono esultanti da un lato e in lutto dall’altro. Questa fase della preistoria dell’uomo viene ricapitolata nella melanconia-mania (oggi Disturbo Bipolare) nella quale si alternano momenti di euforia a momenti di depressione. Tali sintomi ricordano la bipolarità dei sentimenti provati per l’uccisione del padre. Nello stesso tempo questo evento portò alla nascita della morale e del divieto sociale di uccidere, oltre che alla proibizione dell’incesto, poiché i fratelli temevano che anche a loro, divenuti capi dell’orda, potesse toccare lo stesso destino del padre. L’orda fu così superata da una nuova organizzazione sociale, con i primi precetti morali e la messa al bando, al suo interno, di incesto e parricidio. Così nacque la civiltà.
La storia raccontata in “Sintesi delle nevrosi di traslazione” è affascinante, almeno quanto fantasiosa e priva di solide basi scientifiche. Si tratta di una vera e propria intrusione, geniale quanto ingenua, del fondatore della psicoanalisi in un territorio del tutto sconosciuto. Si può dire che non c’è singola affermazione scientifica contenuta in questa opera di Freud che non sia stata smentita. Ma se ne era accorto egli stesso. Intorno a questo manoscritto si narra una storia un po’ misteriosa, della quale è difficile stabilire la veridicità. Sembra infatti che Freud, quando nel 1938, dovette abbandonare l’Austria per recarsi in Inghilterra a causa delle leggi razziali naziste, chiuse per bene il manoscritto in un bauletto e lo buttò nella Manica. Ma, per una di quegli eventi insoliti che fanno parte della storia della scienza, il cofanetto contenente il manoscritto finì nelle reti di un pescatore che lo vendette a un rigattiere che, ovviamente, lo mise in vendita. Venne così sotto gli occhi di una grande allieva di Freud, la principessa Marie Bonaparte, che si rese conto della sua preziosità e lo conservò per anni negli Archivi Freudiani (l’istituzione del movimento psicoanalitico internazionale che raccoglieva tutti le pubblicazioni, gli scritti inediti e la corrispondenza di Freud) a Londra. Il manoscritto destò comprensibilmente infinite perplessità negli ambienti psicoanalitici e rimase archiviato per decenni, sino a quando, nel 1986, una intraprendente psicoanalista, Ilse Grubrich-simitis, pensò bene di pubblicarlo, consegnandoci così quello che forse potremmo definire come l’unico romanzo scritto dal fondatore della psicoanalisi.
Giovanni Iannuzzo