Psicologia del kamikaze islamico

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Nel 1275, il potente imperatore mongolo Qubilai Kan (diventato celebre in Occidente per la sua sfarzosa ospitalità a Marco Polo) inviò cinque ambasciatori in Giappone per cercare di riallacciare relazioni amichevoli con quel paese guerriero che non era riuscito precedentemente a conquistare, dopo campagne militari disastrose. Il Bakufu del Giappone (il consiglio dei capi), ritenne però che essi fossero spie anziché ambasciatori, e li fece giustiziare. Appresa, anche se molto tempo dopo,  la notizia Qubilai andò su tutte le furie e, nel 1281, mobilitò un potente esercito di invasione: in totale centoquarantamila uomini e quattromilaquattrocento navi furono scaraventate contro il Giappone, nel tentativo di annientarlo definitivamente. Per quanto i giapponesi fossero guerrieri abilissimi nella difesa del loro arcipelago, guidati dal grande condottiero Tokimune, la sproporzione di forze in campo era tale da non lasciare alcuna speranza ai difensori dell’impero del Sol Levante. E infatti, dopo circa cinquanta giorni di lotte feroci, le armate mongole avevano fra l’altro già conquistato una solida testa di ponte sull’isola di Takashima. La conquista era ormai prossima. Ma, nella notte sul 15 agosto, un violentissimo ciclone su abbatté sull’isola, distruggendo gran parte delle navi mongole, fracassandole sugli scogli dell’isola come gusci di noce sotto un pesante martello. Le perdite dell’esercito mongolo, del quale facevano parte anche contingenti cinesi e coreani, furono spaventose. Qubilai Kan non si sarebbe mai più ripreso da quella disastrosa sconfitta. I giapponesi ritennero, ovviamente, che il tifone che aveva spazzato via le navi degli invasori, fosse opera dei loro Dei, i kami, che avevano salvato così la loro patria. Pertanto lo chiamarono kamikaze, vento divino.

Gli Occidentali avrebbero risentito parlare del kamikaze solo 663 anni dopo, esattamente il 20 ottobre 1944, durante lo sbarco delle truppe americane a Leyte, nelle Filippine, dove, per la prima volta, piloti giapponesi si scaraventarono coi loro aerei contro le navi americane, immolandosi nel tentativo di annientare gli invasori.  Da allora l’idea del kamikaze, del martire che pone in atto un suicidio consapevole, determinato da una fede incrollabile e finalizzato alla distruzione di un nemico, è diventata quasi un luogo comune riferito alla cultura giapponese, per molti versi incomprensibile alla nostra, così come luoghi comuni incomprensibili sembrano essere l’harakiri, o la psicologia del samurai, o la filosofia del bonsai. E quindi, così come ci sembra impensabile suicidarsi per motivi etici, dedicare la propria vita al combattimento onorevole e cavalleresco, o coltivare sequoie in un vaso da fiori, ci sembra strano potersi immolare lucidamente per fede politica o religiosa. Non a caso, i kamikaze giapponesi chiamavano i loro primi, piccoli aerei bomba Ohka, fiore di ciliegio, mentre gli americani li ribattezzarono Baka, pazzo. Cose aliene, misteriose, esotiche, e soprattutto cose lontane.

A VOLTE…RITORNANO

E lontane rimasero sino agli ’70, quando l’Occidente e il Medio Oriente si ritrovarono a confrontarsi con nuovi problemi legati ai nuovi assetti geografici e politici dell’area del Mediterraneo, in particolare con la questione palestinese. Dopo decenni di guerre arabo-israeliane, la risposta dei movimenti di liberazione palestinesi fu il terrorismo. Ma non il terrorismo al quale il mondo era drammaticamente abituato.  Il 30 maggio 1972 un commando composto da tre guerriglieri assaltano l’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv (allora aeroporto Lod). Ma non hanno previsto vie di ritorno o di fuga. Sono imbottiti di bombe a mano, così da esplodere se colpiti. Compiono una strage, sparando all’impazzata sulla folla, uccidendo 24 persone e ferendone 76. Poi sotto il fuoco delle forze di sicurezza israeliane si concretizza quasi del tutto il progetto del commando: due attentatori saltano in aria, ma il terzo viene ferito e quindi catturato.

Per la prima volta il mondo del secondo dopoguerra, appena risorto in gran parte dalle ceneri del più spaventoso conflitto mondiale della storia, si confronta di nuovo con i kamikaze, un fenomeno apparentemente folle, incomprensibile, che si pensava orlai rilegato nei testi di storia, come un folletto malevolo in chiuso in una bottiglia per un incantesimo. Il problema è che da allora, da quel tiepido giorno di maggio di 52 anni fa, il fenomeno dei kamikaze islamici è andato crescendo in maniera inquietante sino a divenire una nuova strategia bellica planetaria, un nuovo implacabile modo di fare la guerra e seminare il terrore. Episodi di spaventosa ferocia come l’attentato al World Trade Center di New York (le famosi Torri Gemelle), realizzato proprio da attentatori suicidi, fanno parte ormai dell’inconscio collettivo di una generazione.

Il dato più inquietante è, però, che si tratta di un fenomeno che era sconosciuto all’Occidente. Mentre era ormai nota la filosofia nipponica del kamikaze (e tutte le cose note, per quanto orribili appaiono comunque in qualche misura accettabili), era del tutto ignota l’applicazione di questa strategia da parte dei terroristi islamici.

Per secoli, cristiani e musulmani si sono confrontati duramente sui campi di battaglia, per terra e per mare, in Europa, Asia, Africa, a Bisanzio come a Vienna, sul Volga come a Lepanto, in Andalusia come in Sicilia. Si può dire che esiste, nella coscienza occidentale, una conoscenza quasi archetipica del ‘moro’, dell’antico nemico musulmano (coscienza e conoscenza, beninteso, reciproca). Ma l’idea stessa del kamikaze islamico era sconosciuta.

Naturalmente, tuttologi di ogni parte del mondo hanno cercato di fornire spiegazioni. Quelle più comuni (e banali) riguardano il fatto che i nuovi kamikaze islamici vengono fuori da un retroterra culturale proprio all’Islam. Gli shahid imparano, insomma, che chi muore nel nome di Allah sarà lautamente ricompensato nell’aldilà e che quindi morire per la causa dell’Islam è il modo migliore per guadagnarsi il paradiso islamico, che com’è noto, è rappresentato in modo molto più estetico e ‘carnale’ di quello cristiano, a partire dal fatto che in paradiso i martiri vengono accolti da settanta bellissime vergini… Quindi la logica del kamikaze islamico troverebbe una sua ragion d’essere nel contesto della stessa religione e cultura musulmana.

E’ una spiegazione, però, molto discutibile, per almeno due motivi: anzitutto l’ideologia del suicidio rituale è totalmente estranea alla cultura islamica. Poi perché la tecnica kamikaze (ad ulteriore conferma di quanto detto) è una tecnica che fu importata, sempre nei fatidici anni ’70, dai militanti dell’organizzazione terroristica giapponese Sekigun, che addestrarono in Libano una intera generazione di guerriglieri. Uno dei terroristi esplosi per aria nel 1972 al Ben Gurion di Tel Aviv si chiamava Okudaira Tsuyoshi, ovviamente giapponese, il teorico della nuova tecnica di combattimento. Non v’è quindi dubbio sul fatto che quella dei kamikaze sia una tecnica importata nel mondo islamico, e ad esso sostanzialmente estranea. Il problema, però, è un altro, ed è esprimibile con una semplice domanda: quale è l’impatto psicologico di questa nuova strategia di combattimento, importata come la Cola-Cola o l’hamburger di McDonald’s, sulla psicologia propria al mondo islamico? Quali perplessità, dubbi, angosce o interrogativi può porre al mondo musulmano la filosofia del kamikaze, che appare estranea all’Islam certamente non meno di quanto appaia estranea all’Occidente?

Intendiamoci: momenti storici o situazioni politiche particolari che hanno implicato, o addirittura richiesto, suicidi rituali o di massa sono abbastanza frequenti nella storia. Gli ebrei assediati a Masada, durante la conquista romana, trovarono molto più dignitoso suicidarsi in massa anziché cadere nelle mani dei legionari. Gli Spartani di Leonida alle Termopili sapevano benissimo che non sarebbero sopravvissuti alla loro spasmodica difesa della Grecia contro le armate persiane, e lo stesso fecero i texani asserragliati nel convento di Alamo, contro le truppe del generale Santa Ana nel 1848. Probabilmente successe lo stesso a Balaclava, per quella epica ultima carica di cavalleria, durante la guerra di Crimea. Gli esempi di comportamenti suicidari in guerra o in situazioni di conflitto culturale si sprecano. Cosa pensare dei martiri cristiani che si facevano tranquillamente (beh, si fa per dire…) sbranare dalle belve del circo Massimo? Martiri ed eroi, involontari kamikaze e soldati che si sacrificano con quel ‘grande sprezzo del pericolo’ che ricorre così spesso nelle cronache belliche di ogni parte del mondo popolano la storia bellica della nostra specie.

Qui, nel caso dei kamikaze musulmani il problema è però diverso. E’ un problema culturale, che sembra afferire anziché ad un singolo episodio storico ad una scelta strategico-politica, ad una modalità lucidamente programmata di colpire il nemico colpendo contemporaneamente se stessi, nel contesto di una cultura, quella islamica, che non conosce il suicidio come arma di guerra. E’ forse davvero una nuova forma di martirio religioso?

MARTIRI E NO

Una delle definizioni più abusate dei kamikaze islamici è quella di ‘martiri’, che, per l’affermazione della jihad islamica sono disposti a sacrificare la propria vita. Ma è un concetto estraneo alla cultura occidentale, per la quale il martire (in senso cristiano) è chi da la vita per dare la vita agli altri, anche ai nemici, senza toglierla a qualcuno. Si vedono subito, allora, le profonde differenze culturali. In senso cristiano il kamikaze è un soldato che impone la propria fede. Il senso cristiano occidentale dovrebbe essere diverso. Ma è diverso? Sicuramente non nella storia. Basti pensare a quanto avvenne nell’america post-colombiana per rendersi conto che questo spirito di martirio era molto più teorico che pratico. Si obietta che nel Corano si sancisce il principio della guerra santa contro gli infedeli, ma una lettura più attenta dimostra come la guerra santa sia prima di tutto una guerra contro se stessi e non contro gli altri; inoltre sarebbe veramente ipocrita pensare che questo non avvenga anche nel mondo cristiano. L’arcivescovo Arnaud Amaury che durante la crociata contro gli Albigesi sembra abbia dato l’ordine di massacrare sempre e comunque tutti, cristiani ed eretici, tanto Dio avrebbe riconosciuto i suoi, non pare un grande esempio di predisposizione al martirio in senso cristiano.

Oltretutto, se è vero che l’Islam ha sempre avuto una forte vocazione alla conquista degli infedeli, non credo che si possa dire diversamente per i cristiani: le feroci repressioni delle eresie, la conquista manu militari di popolazioni di altra religione, i massacri sudamericani, o le stesse, secolari, persecuzioni contro gli ebrei, traditori di Cristo, o spesso contro gli stessi islamici, sembrerebbero dirla lunga sulla propensione al martirio dei cristiani.. Se, comunque, i kamikaze islamici non sono martiri, si ritorna al punto di partenza, come in un infinito gioco dell’Oca: ma allora, cosa sono? Come può essere compreso, interpretato, forse anche giustificato, questo nuovo modo di imporre a prezzo della propria vita, un’idea? E qual è, in fondo, questa idea?

PSICHIATRIA DEL KAMIKAZE ISLAMICO

Si comprende bene che, a questo punto, il problema ricade nell’ambito della psichiatria culturale e sociale, molto più di quanto non afferisca a diatribe religiose, ideologiche o politiche. Perchè il problema è più complesso. Lo riassume benissimo lo psichiatra marocchino Ghita El-Khayat, quando afferma che l’antropologia storica appare indispensabile per spiegare la struttura dei gruppi umani in termini di ondate migratorie, conquiste, guerre, ‘paci’, il che ci può fare dimenticare l’altra faccia della medaglia, e cioè un altro tipo di relazioni fra i popoli caratterizzato dal razzismo, dalla xenofobia e da conflitti ideologici sanguinosi. Il tentativo di comprendere sarebbe così un antidoto all’intolleranza.  “Attualmente – conclude però amaramente El-Khayat – guerra e violenza rimangono talmente prevalenti che essi sembrano una parte intrinseca dell’umanità”.

E’ qui, in questa visione al contempo apocalittica e realistica che dobbiamo trovare la risposta ai kamikaze islamici? Non credo che sia proprio così. E’ invece vero che è proprio la diversità storica, culturale ed esistenziale dell’Islam a creare grandi sfide ai concetti usali degli antropologi e degli psichiatri. La cultura islamica ha infatti una forte identità, che ha resistito a qualsiasi influenza esterna. Essa non sembra, in sostanza, disponibile all’accettazione della globalizzazione, sia in senso politico, sia in senso religioso. E’ un problema col quale l’Occidente deve fare seriamente i conti.

Allora, anche l’idea del kamikaze può essere riletta non come quella dei martiri disposti a tutto per la loro rivoluzione religiosa, bensì proprio in senso culturale. Esistono dei dati che fanno riflettere.

In base per esempio ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (riportati dalla rivista Trancultural Psychiatry) che ha studiato il tasso di suicidi in un gran numero di nazioni, esistono delle importanti differenze quantitative che si evidenziano fra Paesi Islamici e di altra cultura. Alcuni dati? Il tasso di suicidi maschili in Egitto è dello 0.1 (addirittura inesistente nel sesso femminile: 0.0); nel Barhein è di  è di 4.9; nel Kuwait di 1.0 – teniamo presente che questi ultimi due Stati sono molto più occidentalizzati rispetto all’Egitto, dove la componente islamica tradizionale è molto più forte. Paragonati ai tassi di suicidio registrati in altri paesi le differenze sono impressionanti: in Israele del 9.5 (del 3.6 fra le donne); in Giappone (ovviamente, viste le differenti culture) del 20.4; in Francia del 29.6; in Austria del 34.8; negli USA del 20.4. Sembra quindi evidente che nei paesi islamici non esista una ‘propensione’ al suicidio. E allora come si spiega la strategia messa in atto dai kamikaze?

La risposta va forse cercata proprio nelle caratteristiche così forti dell’identità islamica. E’ un dato noto infatti che i comportamenti suicidari in contesti che non hanno una “mitologia” suicidaria, possono essere espressione di una violenta risposta a condizioni sociali esterne di estremo disagio; in particolare è il modo in cui gruppi o comunità reagiscono ad invasioni ‘ideologiche’, nel tentativo di difendere un senso di identità minacciata; la difesa di questo senso di identità culturale, e quindi anche religiosa o politica, sembra allora molto più forte dell’istinto di sopravvivenza personale in quanto i singoli individui sembrano convincersi di poter sopravvivere nella continuità culturale del proprio popolo o della propria etnia, specialmente a fronte di cambiamenti individuali e sociali drammatici. E’ come se l’individuo si annullasse nel gruppo; il comportamento suicidarlo del kamikaze diventa paradossalmente un modo privilegiato di preservare la propria identità nel contesto dell’identità della propria comunità. Diventa pertanto non modalità di annullamento, ma di sopravvivenza culturale.

Non appare allora un caso che la tecnica dei kamikaze palestinesi, estranea alla cultura dell’Islam, sia stata importata e accettata in un momento storico particolare, , laddove questa tendenza può essere considerata una reazione violenta ad una storia dolorosa e umiliante per un intero popolo. Nel considerarla estensibile a tutto il mondo arabo, non si può dimenticare che i processi di globalizzazione sembrano minare alle basi una cultura fortemente radicata nel passato, con un senso di appartenenza fortissimo e strutture sociali immutabili e tradizionali (si pensi al ruolo della donna, alla struttura della famiglia, al rifiuto del concetto occidentale di ‘secolarizzazione’ dei costumi e via dicendo).

E’ una tesi che può fare discutere, e la cui accettazione non implica affatto, com’è ovvio, ne condivisione ne giustificazione: è solo una possibile chiave di lettura di uno dei fenomeni più inquietanti del mondo contemporaneo, ma non solo questo. In quanto lettura antropologica, essa non offre solo un’interpretazione, ma suggerisce una speranza, della quale abbiamo tutti bisogno: che cioè senza riduttive semplificazioni, o inviti ad improbabili crociate, tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla propria etnia o cultura, possano contribuire ad un futuro migliore, dove il vento divino di qualsiasi religione soffi per costruire e non per distruggere.

Giovanni Iannuzzo