La struttura della società contemporanea è caratterizzata, rispetto a quelle del passato anche recente, da una complessità le cui origini possono essere trovate in due fattori.
Il primo è la diversificazione dei ruoli, la parcellizzazione dei compiti e delle funzioni. Questa è probabilmente la conseguenza storica di quel processo di “specializzazione del lavoro” iniziata già con la Rivoluzione Industriale, che attualmente ha comunque raggiunto livelli estremamente elevati. Non esiste più solo infatti una specializzazione del lavoro, ma – se ci è consentita l’iperbole – una “specializzazione della specializzazione” del lavoro, per la quale qualunque funzione sociale viene frazionata in una serie di “sotto-funzioni” estremamente selettive negli obiettivi e nelle tecniche. E’ ovvio che, in questo contesto, ci riferiamo ad ambienti sociali ad alta industrializzazione, mentre non è possibile includere in questa descrizione quelle “isole” culturali nelle quali sopravvivono tradizioni e consuetudini pre-industriali. Il che, altrettanto ovviamente, non implica che questa parcellizzazione non esista: il computer non è solo uno strumento tecnico dei grandi centri finanziari del Nord industrializzato, così come non sono specifici tipi di lavoro ormai diffusi ubiquitariamente.
Il secondo fattore al quale ci riferiamo è quello dell’efficienza produttiva. L’attuale contesto sociale, nelle forme di evoluzione che lo caratterizzano nel presente momento storico, ha adottato criteri di riferimento produttivi estremamente severi, per i quali si richiede che si adempia ad una certa funzione secondo parametri di produttività crescente, in funzione del proprio ruolo e, appunto, della propria specializzazione.
Questi due aspetti non sono limitati, ovviamente alla semplice e pura attività lavorativa, ma pervadono aspetti sempre crescenti della vita sociale, individuale e privata.
Molto più che nel passato, infatti, vengono oggi forniti dei modelli ai quali adeguarsi in dipendenza del proprio ruolo e della propria funzione. Basti soffermarsi per un attimo a considerare i target della pubblicità per rendersi conto di quanto questo sia quotidianamente vero: i mass media favoriscono l’identificazione dell’individuo col gruppo col quale questi condivide funzioni e livelli di efficienza. Come a dire che, per espletare bene le proprie funzioni, al massimo livello di efficienza, è necessario adeguarsi a specifici schemi culturali.
Il manager rampante, non deve condividere col proprio gruppo solo la prestazione professionale, ma anche lo standard di vita, l’abbigliamento da ‘yuppie’, gli hobbies, gli sport, il tipo di acquisti, la vita privata.
Per soffermarci su questo esempio, l’uomo – o la donna – in carriera, così come sono descritti dalle indagini statistiche condotte da varie fonti – sono generalmente single, senza rapporti stabili, mangiano cibi preconfezionati, ma di buona qualità, si sottopone ossessivamente a pratiche di “fitness” e, ovviamente, spende una buona parte dei guadagni nell’abbigliamento, ricercato ma elegantemente “casual”.
Queste caratteristiche sono importanti? Certamente si, così come lo sono tutte quelle caratteristiche che consentono ad un individuo l’identificazione con un gruppo, e quindi la corsa all’acquisizione delle caratteristiche specifiche dello stesso. Si tratta di un circolo vizioso, nel quale l’adesione ad un modello non può prescindere da una serie di modelli complementari. E’ un discorso che ovviamente va esteso a tutte le fasce sociali, ovviamente con caratteristiche diversificate il base al ruolo e alla specializzazione richiesta, persino alle più neglette, come le casalinghe.
Questi sono naturalmente problemi di natura strettamente sociologica e lasciamo ai sociologi analizzarli. Ciò che invece ci interessa è l’impatto “clinico” di questa complessa situazione sociale.
Sia in campo genericamente psichiatrico che più specificamente psicosomatico, infatti, si è posta storicamente attenzione alla relazione esistente tra modelli e strutture sociali – le “variabili psicosociali” – e insorgenza di manifestazioni patologiche. In psichiatria, per esempio, basti ricordare l’attenzione rivolta verso la complessità sociale come fattore di rischio per la schizofrenia, che motiverebbe la sua assenza in culture non occidentalizzate; o, più semplicemente, la considerazione dei contesti sociali ad alta industrializzazione, come fattore di rischio per la schizofrenia.
Per la schizofrenia sono state addirittura elaborate teorie abbastanza suggestive, secondo le quali, la schizofrenia sarebbe una malattia “nuova” nel senso di essersi originata e diffusa solo nel XIX secolo, mentre prima era sostanzialmente inesistente.
Tale malattia – la “follia” comunemente intesa – inoltre sembrerebbe essere rimasta con una incidenza estremamente bassa in altre culture, mentre si è incrementata nel mondo occidentale. Indipendentemente dalle correlazioni con lo status psicosociale, che appaiono naturalmente stimolanti, i sostenitori dell’ipotesi suggeriscono altre cause più complesse. Inoltre, esistono studi precisi sulla correlazione tra depressione e sindromi ansiose e stile di vita.
Per quanto attiene, poi, ai disturbi psicosomatici, l’esistenza di una qualche correlazione con fattori psicosociali appare essere una pietra miliare delle scoperte in questo campo.
Bisogna allora chiedersi quanto un ruolo sociale possa essere esporre a fattori di stress psicofisici, e quale impatto ciò possa avere sull’insorgenza di una malattia psicosomatica.
E’ ovvio che non è il ruolo sociale in se ad essere un stress. Esso lo diventa quando per l’individuo non è possibile un adeguamento ai modelli complementari di quel ruolo, quando, in altri termini non avviene l’identificazione nel gruppo col quale il ruolo stesso viene ad essere affiancato, specialmente se la necessità di tale identificazione viene vissuta come perdita di autonomia, sino alla perdita del controllo delle situazioni che, anziché essere gestite, ci gestiscono.
Il mancato adeguamento alle performance psicologiche richieste come specifiche di un ruolo, inoltre, può provocare di per se una situazione di stress: alcuni ruoli sociali, per esempio, richiedono assertività, decisionalità, mancanza di inibizioni sociali; altri dipendenza, rinuncia alla decisionalità, subordinazione. Si tratta ovviamente di atteggiamenti necessari, che consentono un “adattamento” forzato al ruolo ricoperto. Tali atteggiamenti però possono non rispondere alle specifiche esigenze o caratteristiche psicologiche del soggetto.
Una delle conseguenze di queste situazioni è la condizione di conflitto, tra ruolo e funzioni ad esso complementari, con la conseguenza di produrre ansia, bassa stima di se, mancanza di autonomia o, comunque, una condizione di frustrazione.
Infatti, l’adesione ad un ruolo e alle sue funzioni complementari implica in genere due fasi: una prima di “modelling” – di illustrazione e presentazione di comportamenti (il cosa fare e come farlo); la seconda di “behavior rehearsal”, cioè di replica dei comportamenti illustrati (passare dalla teoria alla pratica). Sono fasi specifiche dell’addestramento di una persona al proprio ruolo.
L’adesione al modelling e al behavior rehearsal è, nella nostra società, una imposizione quotidiana: basti pensare alla pubblicità e ai messaggi quotidiani dei media.
Ma è proprio nella fase di behavior rehearsal che può fallire il tentativo di identificazione nel ruolo: che poi può anche semplicemente consistere nella constatazione di possedere caratteristiche diverse da quelle richieste. E’ la fase insomma del “Mi dicono di essere così, ma io non ci riesco”. Ne deriva una significativa frustrazione.
Fallisce allora la fase di adattamento (detta di coping skills), quella cioè dell’acquisizione della capacità di “fronteggiare con successo” le situazioni implicite nel ruolo.
I motivi di questo fallimento possono essere individuati nella interazione fra personalità e pressione sociale. Insomma, per dirla in soldoni, nessuno può essere diverso da come è. Recitare non serve. Il modo per trovare un buon adattamento alla complessità sociale e ai ruoli che essa implica, sarebbe quindi quello di scegliere un ruolo sociale realisticamente adeguato alle proprie esigenze, senza tentare di scimmiottare modelli imposti dalle tendenze sociali e culturali dominanti. Questo implica autonomia di pensiero, ma anche adattamento al reale, riconoscimento onesto delle proprie capacità, ma anche dei propri limiti, senza idee di onnipotenza o egocentrismo, ma accettazione della propria libertà di pensiero nel rispetto delle libertà altrui.
Una personalità che si è sviluppata secondo queste direttive, una personalità ovvero sana, resisterà alle pressioni sociali semplicemente ignorandole, o modulandole secondo le proprie esigenze. Ci riferiamo alle proprie esigenze reali, costruttive, creative. Modificherà, in un certo senso, il proprio ruolo in chiave strettamente personale, rimodellandolo secondo le proprie idee e il proprio modo di essere persona. Quando ciò non avviene, la pressione sociale diviene intollerabile, fonte di stress continuo.
Un buon esempio della validità di questo assunto ci è fornita, per esempio da quella che è forse la ricerca più classica tra professione e malattie psicosomatiche, quella originaria di Friedman, Rosenman e Jenkins sul “Type A Behavior Pattern”, il comportamento di tipo A che predisporrebbe alla malattia coronarica. Come è noto il modello di personalità è quello di individui con una strenua motivazione al conseguimento del successo, coinvolgimento totale nel lavoro, ambizione e competitività. Aggressivi, ostili e impazienti, sono spesso assillati da un senso cronico di urgenza. Vogliono il meglio e si sentono i migliori, i più belli, i più grintosi e più rampanti.
Si contrappongono, classicamente, ad un “Type B Behavior Pattern”, caratterizzato invece da un atteggiamento di “easy going”, in soggetti rilassati, pazienti, con un senso dell’urgenza assai minore e non abituale, con scarsa competitività e aggressività, e un coinvolgimento nel lavoro mai totale.
Certo, la pressione sociale oggi sembrerebbe imporre una personalità di “tipo A” (basta guardare un po’ di pubblicità…), come aveva vaticinato ragionevolmente Suinn già nel 1982; ma, non esiste un ruolo sociale nel quale sia davvero necessaria una “funzione di ruolo” di questo tipo. Il fatto, in altri termini, che la pressione sociale proponga qualcosa, non significa affatto che questo vada accettato. La capacità alla rinuncia di ruoli impropri è una caratteristica della personalità matura, in ogni società.
Assai spesso si propongono soluzioni del problema che seguono la via inversa: l’allentamento della pressione sociale, come prevenzione primaria dello stress legato al ruolo. E’ una posizione utopistica, priva di solidi agganci alla realtà. Invertire il processo storico, economico e sociale contemporaneo è infatti solo un’utopia. La strada che si può e deve seguire, è in realtà diversa: l’educazione alla formazione di personalità sane, di individui consapevoli e creativi, che anziché adeguarsi alla pressione sociale, scelgano un proprio stile di vita e una propria libertà di pensiero. E’ un obiettivo difficile da raggiungere, ma ragionevole. E implica una grande speranza. Perché se è vero che una società malata, crea individui malati, è anche possibile il processo inverso, e cioè che individui sani possono modificare una società malata.
Giovanni Iannuzzo