La storia delle religioni si interseca assai spesso con quella della medicina, poiché una delle funzioni tradizionalmente attribuite alla religione – e prima che ad essa alla magia – è stata quella di assicurare la salute degli individui e il benessere delle comunità. Nelle religioni primitive il rito sacro e il rito medico presentavano ampie possibilità di interscambio e l’azione del sacerdote – o dello sciamano, o dell’uomo della medicina – era più o meno la stessa, sia che volesse proteggere la comunità dalla carestia o dai nemici, sia che intendesse tutelare la salute dell’individuo o del gruppo.
Alle chiese e ai sistemi religiosi organizzati sono state da sempre attribuite numerose funzioni che superano ampiamente i limiti puramente religiosi. È stato evidenziato, per esempio, come essi abbiano una funzione di supporto sociale, di istituzioni politiche, di fattori di cambiamento sociale. Tra tali funzioni, una di quelle predominanti, sin dalle origini dei sistemi religiosi stessi, è stata quella di costituire “istituzioni terapeutiche” con particolare riferimento alla salute mentale, anche se non solo a quella. È evidente che col tempo si è assistito a un progressivo sganciarsi dell’attività scientifica da quella religiosa e stabilito un principio di non-interferenza tra il sacro e il profano, tranne che in materia morale. Ma esistono eccezioni. Uno degli esempi più eclatanti è stato, per esempio, la Christian Science di Mary Baker Eddy, un movimento fondato nel XIX secolo che a tutt’oggi conta un numero non esiguo di adepti nel mondo. Il precetto religioso è, in questo caso, strettamente connesso a quello sanitario: convinzione della Christian Science è che la malattia non esista, perché Dio nella sua infinita bontà non può averla creata. Quella di essere malati è quindi una sensazione umana, che deriva semmai da pecche e debolezze morali.
Pratica religiosa e pratica medica sono strettamente interrelate: entrambe hanno una forte caratterizzazione rituale, in grado di mediare il rapporto tra medico, paziente e malattia specialmente nel contesto di alcune particolari congregazioni religiose. Una di quelle più attentamente studiate è stata la Jamaica Baptist Union, che ha sede a Kingston, in Giamaica, e conta un migliaio di membri, delle più diverse estrazioni sociali, fondamentalmente neri o giamaicani. Nel 1975 questa chiesa creò un “ministero” della guarigione, fondato sulla premessa che l’essere umano è fatto di corpo, mente e spirito, e che quindi la cura del malato deve tener presente queste tre dimensioni dell’essere. La vulnerabilità dell’individuo, in una di queste tre sfere, discende direttamente dalla sua alienazione da Dio e quindi l’intento finale di ogni approccio medico è la riconciliazione dell’individuo col divino. La prassi clinica della Jamaica Baptist Union è finalizzata a questo progetto di riconciliazione, mediante le cure prestate nelle tre sfere: corporea, psichica e spirituale.
Rituali di guarigione
Il “braccio clinico” della Jamaica Baptist Union è costituito dalla West Indian Clinic, nella quale vengono fornite cure spirituali, psicologiche e mediche. Aperta due sere la settimana dalle 17.30 alle 19.30, la clinica è interamente gestita da volontari e i pazienti vengono visti prevalentemente su appuntamento. Nella clinica vengono costantemente rispettati quattro tipi di rituale.
Il primo consiste in servizi devozionali piuttosto brevi, che in genere segnano l’inizio dell’attività della clinica e sono affidati a un gruppo di donne chiamate “compagne di preghiera”. Ad esse è affidata la cura della sfera spirituale e quindi dei problemi dei pazienti in questa area. Esse da un lato hanno il compito di “aprire i lavori” della clinica, dall’altro quello di gestire quanto attiene ai problemi spirituali dei singoli pazienti. Questo consente alle “compagne di preghiera” di assumere la leadership del gruppo di pazienti e gestire del tutto autonomamente il rituale di apertura. Il servizio religioso dura circa dieci minuti, durante i quali vengono cantati inni religiosi, vengono letti passi della Bibbia e vengono recitate preghiere.
In genere il tema della guarigione religiosa è il tema di fondo del rito. Le compagne di preghiera pregano Dio di concedere la guarigione e quindi di migliorare il potere terapeutico dei medici e la possibilità di rispondere ai bisogni individuali dei pazienti. Talvolta le compagne di preghiera si spingono ancora più in là, sino a “imporre le mani” sul corpo dei pazienti, pregando per la loro immediata guarigione.
Al termine del rito di apertura, i pazienti vengono indirizzati alle varie attività proprie della clinica. Ogni paziente ha allora un colloquio con un assistente del medico, che gli spiega quali sono le basi teoriche della clinica e nel contempo richiede al paziente una sua storia anamnestica completa, sia dal punto di vista medico, che da quello sociopsicologico che da quello, naturalmente, religioso. È in base a questa anamnesi che l’assistente decide a quale settore della clinica – medico, psichiatrico o religioso – avviare il paziente, in base alla natura specifica dei suoi problemi. La prassi medica della West Indian Clinic è, per il resto, assolutamente convenzionale. Un’infermiera misura la temperatura, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, e pesa il paziente, realizzando anche una rapida analisi delle urine per accertarne il contenuto di albumina, glucosio e acetone. Poi il paziente viene visitato dal medico, che a seconda dei casi può richiedere altre analisi o prescrivere una terapia. Nessun medico utilizza strategie mediche non ortodosse, né prega con il paziente o utilizza qualunque altro rituale.
Per quanto riguarda la consulenza psicologica e psichiatrica, essa è curata da specialisti ed è indirizzata alla soluzione dei problemi del paziente tramite una terapia individuale che tiene comunque conto di un modello di vita cristiana. L’approccio è fondato su una prospettiva pragmatica, del tipo problem-solving. Anche l’approccio psicodinamico, che valuta i problemi del paziente da una prospettiva più profonda, è tenuto in considerazione. I disturbi per i quali i pazienti possono rivolgersi agli psichiatri e agli psicologi della clinica sono molteplici: vanno dal disagio esistenziale legato a situazioni obiettivamente difficili, a disturbi di tipo nevrotico, psicosomatico o psicotico.
Alle problematiche specificamente religiose è invece dedicato il “reparto spirituale”. Si tratta di una “stanza della preghiera”, nella quale le sedie sono poste in circolo e che viene occupata sia dai pazienti che dalle “compagne di preghiera”. Si tratta quasi di una terapia di gruppo: i pazienti esprimono pubblicamente le loro esigenze o i loro problemi in questa sfera; poi, spontaneamente, uno o più di loro possono cominciare a cantare o a pregare e il gruppo ha la funzione di sostenerli.
I due settori della clinica più importanti sono quello medico e quello religioso. La divisione psicologica è quella meno prestigiosa e ciò sembra dipendere dalla consuetudine culturale giamaicana di non incoraggiare il riconoscimento individuale delle proprie difficoltà psichiche. I pazienti inoltre sembrano avere spesso la tendenza a considerare il disturbo psichico una conseguenza del problema più generale delle sofferenze esistenziali, e quindi a non comprendere bene l’idea che anche il disturbo psicologico o psichiatrico è un’entità nosografica a sé stante che richiede cure specifiche. La pratica psicologica, quindi, si trova tenuta in scarsa considerazione. Per ogni paziente esiste una prassi con carattere marcatamente ritualistico: la misurazione della pressione, della temperatura, l’analisi delle urine, la visita medica tradizionale – lo stetoscopio viene utilizzato comunemente, così come i passi essenziali della semeiotica: palpazione, percussione e auscultazione –, la prescrizione di farmaci acquistano il valore di veri e propri riti rassicuranti, con i quali i pazienti mostrano un’alta familiarità. Un fattore di potenziamento del rituale consiste nell’assoluta mancanza di commistione con altri riti: medici e infermieri sono granitici nella loro adesione ai modelli medici ortodossi e non partecipano in alcun modo alle attività degli altri settori. Prestano comunque attenzione alle richieste e ai desideri del paziente e non ne deludono le aspettative psicologiche o religiose. Tentano di comprendere cosa crede il paziente e in ogni caso assumono un atteggiamento empatico.
Simile è la situazione della “stanza della preghiera”. Le compagne di preghiera hanno una funzione fondamentale nel regolare i riti religiosi e indirizzarli verso la forma evangelica di Cristianesimo che caratterizza l’attività della clinica. Tra l’altro esse gestiscono il difficile equilibrio tra cristianesimo e altre forme di credenza religiosa e di pratiche magiche largamente presenti in Giamaica. Una delle asserzioni più significative delle compagne di preghiera è infatti che san Luca, medico, derivò il suo potere da Dio, stabilendo così nella mente del paziente una correlazione diretta tra spirito e corpo, e indirizzando l’attenzione su una visione più globale della realtà umana.
Religione e salute mentale
Provvedere alla salute mentale della comunità è stata da sempre una funzione specifica delle chiese in genere, e per secoli le persone affette da disturbi mentali si siano affidate all’aiuto di leader religiosi. Carr, Hinkle e Moss hanno rilevato, in un loro studio del 1981, che il 43 per cento delle persone affette da disturbi emozionali si rivolge prioritariamente a un membro del clero, prima che a uno psichiatra.
Uno degli aspetti culturalmente più tipico di questo universo religioso è quello della chiesa nera americana, nelle sue strette interrelazioni con la vita quotidiana dei suoi fedeli. Essa ha avuto un riconosciuto – e importantissimo – ruolo di supporto sociale e politico. Basti pensare al ruolo che esse hanno assunto per quanto riguarda la lotta contro la segregazione razziale e i diritti civili degli americani di colore (valga per tutti l’esempio di Martin Luther King). Essa ha rappresentato un importante sistema di supporto per i neri che vivono in grandi centri urbani altamente industrializzati, con un alto rischio di depersonalizzazione, di alienazione e di perdita del senso dell’identità personale. Di certo, come è stato rimarcato per esempio da Fauset sin dal 1944 all’interno delle strutture delle chiese nere cristiane, la sicurezza, il senso di identità culturale, la percezione di un senso di identità personale che può essere tratto dal gruppo, insieme alla potente attrattiva carismatica del pastore, hanno molto in comune con la psicodinamica dei gruppi terapeutici.
Tra queste pratiche religiose con finalità terapeutiche esistono delle differenze abbastanza caratterizzanti. Sostanzialmente esse seguono due modelli diversi: nel primo i riti comprendono preghiere e testimonianze alle quali possono assistere solo i diretti partecipanti al rito. Dell’altro modello di rituale invece fanno parte preghiere, testimonianze di preghiere e possessione da parte dello Spirito Santo. Relativamente al primo modello rituale, diversi autori hanno messo in evidenza come l’atto della preghiera e quello di testimoniare la propria fede siano momenti peculiari della chiesa negra e siano caratterizzati da un particolare stile che serve come forza coesiva tra tutti i membri della comunità. È stato anche evidenziato come tale sistema sia molto più efficace sotto l’influenza del carisma di un pastore nero; si tratta di una modalità rituale che è in grado, sul piano psicologico, di spingere una comunità oppressa ad esternare le proprie angosce e a chiedere soccorso a un Dio onnipotente e giusto; e questo modo di vivere l’atto religioso sembrerebbe, tipico della comunità nera in genere.
Il fenomeno della possessione da parte dello Spirito Santo è più specifico. Sembrerebbe una forma di stato alterato di coscienza che produce una scarica catartica e facilita l’esternarsi di desideri repressi comunque profondamente radicati nell’individuo. Secondo lo psichiatra Almond, le healing communities sarebbero una forma di organizzazione sociale universale, (dalla comunità terapeutica degli ospedali psichiatrici, alle “fraternità” terapeutiche africane o degli indiani americani).
Gli incontri del mercoledì notte
Alcune ricerche hanno tentato di capire perché i gruppi e le comunità religiose nere cristiane, nelle aree urbane industrializzate, trovano una risposta ai bisogni di salute mentale e di equilibrio emozionale dei loro fedeli, e perché questi ultimi cerchino la risposta ai loro bisogni psicologici all’interno delle loro chiese e al di fuori dell’establishment ortodosso che si occupa dei problemi della salute mentale. Una ricerca si è basata sull’osservazione di un rituale particolare ed esclusivo, in una comunità urbana del nord-est degli Stati Uniti. In questo tipo speciale di incontro, circa 22 individui (in genere operai, specializzati o meno, con un’istruzione a livello di scuola media superiore o meno) si incontrano e stanno assieme per circa due ore ogni mercoledì notte. I leader della funzione cambiano settimanalmente, così come quelli che partecipano al rituale. Il rito può essere distinto in tre diverse parti. Nella prima parte il gruppo si dedica alla preghiera, condotta da un solo individuo, ma con la partecipazione corale ed episodica degli altri astanti. Le preghiere sono sempre centrate sul ringraziamento a Dio per tutto ciò che di buono ha fatto per i membri del gruppo e per le loro famiglie e sulla richiesta di aiuto per poter essere buoni e fuggire dalle tentazioni. La seconda parte del servizio è invece centrata sulla volontà dei vari individui del gruppo di fornire testimonianza della propria fede. Gli autori della ricerca (Griffith e altri) hanno trovato un modello di testimonianza abbastanza usuale, del quale, oltre a lodi a Dio, ai santi, ai ministri e ai diaconi del culto, fanno parte espressioni di fede: «Ringrazio e lodo Dio per ogni cosa questa notte. Dio ha mostrato Se Stesso nella mia vita. Egli mi libererà da ogni male. Grazie, Gesù. Per le prove e le tribolazioni io ringrazio Dio. Io lo conosco come un amico. Io conosco Lui quando tutte le altre porte sono chiuse. Grazie per la salvezza, Dio. Senza di Lui non sarei nulla. Il mio corpo è stato torturato dal dolore. Ma Egli è il salvatore».
Gli individui che fanno atto di testimonianza invariabilmente terminano la cerimonia in uno stato di trance, posseduti dallo Spirito Santo, e frequentemente “parlano in lingue”. Il ciclo viene ripetuto regolarmente sino a quando la maggior parte dei presenti non abbia recato testimonianza e sia entrata in uno stato di possessione rituale. Al completamento di questa fase, le guide della funzione cedono la conduzione dell’incontro al pastore, che parla per qualche minuto ed evidenzia o rinforza temi che sono stati sviluppati durante la fase della testimonianza. Poi il pastore chiede a tutti nella piccola stanza dove abitualmente si svolge il rito di prendersi per mano mentre dice una preghiera finale e il gruppo canta un inno di ringraziamento conclusivo. A questo punto il pastore invoca lo Spirito Santo e molti dei presenti tornano in uno stato di possessione.
È ovvio, hanno concluso Griffith e colleghi, che i temi evidenti nelle fasi della preghiera e della testimonianza sostengono una credenza in Dio che rinforza l’identità personale e l’autostima; l’uso congregazionale della possessione da parte dello Spirito Santo è una risposta adattativa che aiuta la loro lotta contro le crisi della loro esistenza; il gruppo crea insomma uno speciale setting che risponde in maniera esclusiva ai bisogni particolari dei suoi membri. Infine, l’atto di essere posseduti spiritualmente sembra il riconoscimento pubblico del fatto di essere degli eletti, come se chi è posseduto è un “tempio” per lo Spirito Santo.
Preghiera, testimonianza e possessione da parte dello Spirito Santo sembrano elementi vitali mediante i quali il semplice gruppo crea una vera “comunità” e partecipa al carisma di guarigione (secondo il modello formulato da Almond). Come affermò un membro del gruppo intervistato da Griffith: «È un incontro di preghiera e di testimonianza. Ti dà forza. La preghiera cambia le cose».
Di fatto queste pratiche terapeutiche sembrano essere efficaci almeno quanto numerose strategie utilizzate dalla medicina e dalla psichiatria del moderno occidente industrializzato. E allora? La risposta ci viene suggerita da James E. Dalen, direttore dei prestigiosi Archives of Internal Medicine: “ Se una terapia che proviene dall’esterno del filone della moderna medicina occidentale può superare lo stesso livello di validazione che ci aspettiamo per le terapie convenzionali, essa dovrebbe essere integrata nella conoscenza medica ufficiale e aggiunta all’armamentario terapeutico del medico accademicamente formato e convenzionale”.
E’ un obiettivo ambizioso, sul quale però sarebbe il caso di riflettere.
Giovanni Iannuzzo