Neuroscienze e Intelligenza Artificiale: prego, si distenda sul computer

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Nell’immaginario dell’uomo medio, è sorprendente notare quanto grande ormai sia l’importanza che viene attribuita all’informatica, ed in particolare alla nuova frontiera dell’Intelligenza Artificiale. Infatti non si tratta più di usare il Bancomat o la carta di credito anche per pagare un caffè, di evitare rigorosamente i libri (così antiquati!) per documentarsi, rivolgendosi in alternativa al tanto meno faticoso dottor Google, o di aver trasformato il cellulare quasi in un aggiuntivo organo di senso. No, col crescere delle mirabilie promesse da questa nuova frontiera della comunicazione e soprattutto delle relazioni umane, crescono usi, abitudini e aspettative.

In realtà “aspettativa” è la parolina magica. Da sempre l’uso del computer è stato associato alla speranza di risolvere, in maniera veloce e precisa, problemi abituali – anche complessi – del quotidiano.

Una delle prime grandi conquiste sembrò, proprio agli inizi della rivoluzione informatica negli anni ’90 del secolo scorso, il ricorso ai cosiddetti “sistemi esperti”, ormai dimenticati. Il ‘sistema esperto’ era, molto semplicemente uno specifico software in grado di dare velocemente una soluzione ad una serie di problemi tecnici in base a un algoritmo, cioè una serie di istruzioni preventivamente fornire da un operatore. Più il programmatore era bravo, più il quesito era ben determinato, più il ‘sistema esperto’ esaudiva, i desideri dell’utente, riuscendo a risolvere con un certo grado di affidabilità problemi di varia natura, integrando le informazioni che venivano fornite dall’utente.

In campo scientifico, i sistemi esperti hanno consentito la soluzione di numerosi problemi, fornendo le basi per decisioni rapide e ad alto livello di elaborazione in diversi campi, dalla biologia all’ingegneria o all’architettura, ma una delle aree nelle quali si intravedono da decenni alcune fra le migliori possibilità per la loro applicazione è la medicina.

Bisogna però distinguere, a tal proposito, questo punto del discorso, fra una ‘banca dati’ e un ‘sistema esperto’.

Il primo traguardo che è stato brillantemente raggiunto è la realizzazione, che data ormai da alcuni decenni, di sistemi capaci di archiviare una grande mole di informazioni e poi estrarre da essa dati selezionati da un utente.  Si tratta delle cosiddette ‘banche dati bibliografiche’, che contengono le citazioni degli articoli su argomenti medici e biologici e mediane le quali è possibile andare a trovare gli argomenti scientifici che interessano e le fonti (anziché, per intenderci andare a sfogliare manualmente rivista per rivista. La più famosa forse è Medline, (acronimo di Medical Literature Analysis and Retrieval System Online)  una banca dati sviluppata dalla National Library of Medicine di Bethesda degli Stati Uniti. Non si tratta di una idea nuova: già nel 1879 John Shaw Billings, l’allora direttore della National Library of Medicine, aveva ideato un ‘Index Medicus’, che adempiva a questa funzione in formato cartaceo, la cui consultazione pertanto era comunque lenta e faticosa. L’informatica ha risolto sia il problema della velocità di ricerca sia quello della fatica. La banca dati suddetta contiene circa 16 milioni di record, delle schede bibliografiche tratte da più di 5200 riviste scientifiche, pubblicate originariamente in trentasette lingue, ma ovviamente tradotte in inglese. Una interfaccia semplicissima rende possibile l’accesso a una mole impressionante di dati scientifici e clinici.

Lo scopo di questi programmi è ovviamente quello di fornire un supporto decisionale al medico – o al ricercatore in campo bio-medico – in qualunque specializzazione. Le tre caratteristiche che un sistema di questo tipo dovrebbe avere per essere uno strumento di reale utilità per il clinico sono la capacità di maneggiare una quantità molto grande di dati, integrandoli e selezionandoli; la capacità di collegare tra loro i dati, con una valutazione dei pro e dei contro di una data strategia clinica, e con la possibilità, ovviamente, di operare confronti con altri casi analoghi; e infine la capacità di esaminare tutte le possibili ipotesi relative a quel caso, che possano quindi spiegarlo e fornire le indicazioni strategiche più adeguate.

I Sistemi Esperti hanno rappresentato un ulteriore passo avanti nell’uso dell’informatica in medicina, nel senso che sembravano in grado di fare…tutto da soli. Inseriti i dati essenziali del paziente, della sua anamnesi e dei suoi sintomi elaboravano autonomamente, in base a tutti i dati presenti nelle banche dati, la diagnosi e l’ipotesi di terapia. In qualche modo, così, il medico diventava solo un inseritore di dati e il computer il vero clinico della situazione. Furono inventati sistemi esperti per qualsiasi specializzazione, ma una di quelle che per prima di aprì alle potenzialità offerte dall’informatica fu la psichiatria.

Già nei primi anni Settanta vennero studiate per esempio le possibilità di applicazione dell’informatica all’elaborazione dei test psicologici, o dei procedimenti di psicodiagnostica in generale. Uno dei più grandi successi in questo campo fu la formulazione di un sistema di valutazione definito Compiler Derived Global Judgment (CGI). Si trattava, in sostanza, di un programma che consentiva di elaborare un profilo dello stato mentale complessivo di un soggetto fondandosi su una base di dati forniti dal personale assistenziale. Poiché le informazioni sullo stato del paziente venivano registrate quotidianamente, il programma consentiva un’integrazione di alto livello tra tutte queste informazioni, con costi sorprendentemente bassi.

La difficoltà che il programma CGJ consentiva di superare era quella dell’arbitrarietà della valutazione. Normalmente in psichiatria venivano – e vengono – utilizzati strumenti quanto mai variabili di valutazione dello stato mentale di un soggetto: dall’esame generate (mediante colloqui standardizzati, come per esempio la PSE, Present Slate Examination, una scala composta da specifiche domande item che non differiscono dalle domande utilizzate di norma in un colloquio psichiatrico), o a indici di patologia-adattamento comportamentale. Il problema è poi quello di derivare un’immagine obiettiva dello stato mentale del paziente fondata su tutte queste informazioni. Questa visione d’insieme però può dipendere molto dall’operatore, dalle sue conoscenze, dal suo proprio stato mentale, dalla sua memoria, dalle sue specifiche esperienze cliniche. Spesso questo implica che i giudizi su uno stesso paziente, possono talvolta variare anche in maniera molto evidente, anche se il personale che somministra i test è altamente specializzato. Esiste, insomma, una grande variabilità collegata all’operatore. Un programma computerizzato no. Inserendo i dati nel computer si potevano ottenere due tipi di output: da un lato una breve sintesi narrativa dello stato del soggetto, inseribile nella cartella del paziente, dall’altro un set di venti punteggi che descrivevano numericamente il comportamento del paziente correlato a una misura «Standard» della norma.

Tra i venti fattori analizzati dal computer, alcuni – come il comportamento accettabile, la disorganizzazione, il comportamento antisociale, la depressione e l’ansia – fornivano dati molto importanti, senza necessità di complicati metodi di rilevazione. In sostanza il programma consentiva una valutazione «obiettiva» e abbastanza attendibile del paziente. Il Sistema infatti forniva indici di cambiamento nello stato del soggetto, utili per una valutazione clinica: per un paziente depresso, per esempio, si poteva stabilire se vi fosse stato o meno qualche cambiamento nel suo stato mentale, un alleviamento dei sintomi, o nessun mutamento.

II programma CGJ risale al 1970, anno in cui ne venne data comunicazione sull’American Journal of Psychiatry. Sebbene avesse subito suscitato discreti entusiasmi, è abbastanza significativo il fatto che sino a oggi, contrariamente a quanto accade in altri ambiti medici, i sistemi esperti in psichiatria abbiano tutto sommato segnato il passo. In realtà sistemi come il CGJ non si configurano come autentici «sistemi espetti», bensì come metodi per una elaborazione standardizzata di dati, con una notevole capacità di integrazione delle informazioni. Sistemi simili, ma più evoluti, oggi ampiamenti disponibili sul mercato, presuppongono per esempio la valutazione computerizzata dei risultati psicodiagnostici. Ma da questo ai veri sistemi esperti il passo è lungo.

In realtà, la realizzazione di sistemi esperti in psichiatria incontra tutta una serie di problemi, più facili da risolvere in altre discipline mediche. Il fondamentale è probabilmente quello della «pattern recognition», ovvero del riconoscimento di un modello. Perché un sistema esperto possa realmente funzionare infatti, è necessario che sia in grado di discriminate un certo numero di informazioni in base a un modello prestabilito.

Nel caso della medicina, le informazioni che vanno discriminate sono i sintomi, i dati bio-umorali, quelli elettrofisiologici. Il modello è quello che chiamiamo malattia o sindrome. II compito del sistema esperto sarebbe, quindi, in generale, quello di riconoscere un modello in base a un dado input. Facciamo un esempio. Se il sistema esperto è programmato per il riconoscimento di una malattia infettiva, esso richiederà una serie di dati in ingresso: potranno essere la presenza di febbre, la sua distribuzione giornaliera, l’eventualità di dolori, di brividi, le misure delle YES, della proteina C reattiva e tutta una serie di altri parametri, in base ai quali poi potranno essere richiesti ulteriori dati. In presenza, per esempio, di valori elevati di VES, TAS e proteina C Reattiva, può essere richiesto l’inserimento del dato “tampone faringeo”, e se questo risultasse positivo verranno reclamati alcuni altri dati, per esempio cardiologici. Ciò comporta il fatto che il sistema esperto si stia orientando in direzione del modello «febbre reumatica», che sia in grado, cioè, di riconoscerne il pattern.

Se questo può andar bene per la cardiologia, le malattie infettive o, poniamo, la neurologia, per la psichiatria si presentano tutta una serie di problemi. Il fondamentale è proprio quello dell’input, delle informazioni da fornire al sistema e della loro reale fruibilità. Si tratta di un problema storico della psichiatria. La natura del sintomo psichiatrico infatti spesso è per sua stessa natura sfuggente. Il sintomo psichico in genere è espresso come «sensazione», «impressione», come «vissuto›, e, in quanto tale, risente di un’eccezionale variabilità. C’è una differenza enorme nel significato di questi termini, da persona a persona. Per decifrarne il senso occorre la partecipazione attiva dello psichiatra al colloquio, per tradurre il senso che il paziente stesso attribuisce ai suoi sintomi. Una cosa è dire “Dottore ho le vertigini”, altra cosa l’affermare “Dottore, certe volte mi sento strano, come se tutto mi desse le vertigini». Parole, che possono voler dire la stessa cosa o cose completamente diverse.

Già nella pratica clinica corrente, la stessa utilizzazione di mezzi tendenti a «razionalizzare» i sintomi del malato psichiatrico hanno affrontato grossi insuccessi: uno dei test più «standardizzati», come l’MMPI, ha dimostrato un numero assai consistente di limiti, mostrando come in realtà la standardizzazione è difficile. Persino gli strumenti già standardizzati, come il DSM, il Manuale Statistico e Diagnostico dell’American Psychiatric Association, oggi alla sua quinta edizione riveduta, presenta consistenti limiti interpretativi, anche se è prezioso perché fornisce almeno una griglia che aiuta a formulare una diagnosi. Ma non sempre ciò è sufficiente: per distinguere tra una ‹allucinazione» e una «pseudo-allucinazione», trae delirio lucido del paranoico e l’illusione del depresso grave, tra 1’angoscia di disgregazione dello schizofrenico e altre forme gravi di angoscia, occorre che lo psichiatra si faccia strumento di misura di quella data, specifica situazione.

Non è un caso che la psichiatria clinica dia tanta importanza ai «colloqui» col paziente che, com’è noto, non seguono sempre dei parametri prefissati. Per quanto possa adeguarsi a norme standardizzate, il colloquio psichiatrico risente di un’unità di misura particolarissima, che è l’intervistatore stesso, i suoi vissuti, il suo training, la sua percezione del mondo. Spesso è la sfumatura a consentire la diagnosi, e la sfumatura non e magari espressa, non è quantificabile, richiede un’immedesimazione e un’empatia che afferiscono più all‘intuito dello psichiatra che alla sua formazione scientifica. Questo diviene il più formidabile ostacolo per l’informatizzazione della psichiatria.

La difficoltà è nella stessa formulazione di un algoritmo per un colloquio psichiatrico, e quindi di un diagramma di lusso. Le tre caratteristiche fondamentali di un algoritmo, infatti, sono: che un’istruzione sia ben definita e non ambigua; che sia eseguibile in un tempo limitato; che l’intero processo si concluda dopo un numero definito di istruzioni eseguite. La prima di queste tre regole basilari è messa in discussione dalla natura stessa del colloquio psichiatrico. Quanti sono i tipi di istruzione derivanti dall’intervista psichiatrica che possono essere considerati «definiti» e «senza ambiguità»? Per rendersene costo basta considerare il termine «ansia» e il numero enorme di variazioni che esso comporta; per citarne alcune, l’ansia può essere nevrotica, psicotica, esistenziale, psichica, somatica, libera o legata a un oggetto…

«Rapporti in forma narrativa», scrivono Strebel e Glueck, i creatori del CGJ, «sono difficili da quantificare, creando incertezza nella comparazione della diagnosi, del trattamento e della prognosi di pazienti con disturbi apparentemente simili». In effetti è vero, ma questa è probabilmente una caratteristica dello specifico contesto in cui la psichiatria – e le discipline ad essa affini – svolgono la loro azione.

Questo è attualmente lo ‘stato dell’arte. Resta però una domanda intrigante, ovvero: gli attuali, strabilianti sviluppi dell’Intelligenza Artificiale potranno modificare questa situazione? Potranno, cioè, riuscire a superare quei problemi di ‘umanizzazione’ così importanti nella relazione terapeutica fra lo psichiatra i suoi pazienti? Un computer potrà mai essere autenticamente empatico, potrà gestire quel ‘fattore umano’ che è fondamentale in tale relazione? E’ una domanda ancora senza risposta. Ma non mi piacerebbe affatto, perché per quanto complessa, efficiente e raffinata sia, una macchina è e deve restare e pur sempre una macchina, un prodotto dell’ingegno umano, ma senza affettività, senza emotività, senza anima. Senza quelle caratteristiche cioè che, per dirla con Michael S. Gazzaniga, famoso neuroscienzato cognitivo, ci rendono unici.

Giovanni Iannuzzo