Esiste una “Sindrome di Norimberga”? Prigionieri della norma nella vita quotidiana

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Nella storia della medicina, e quindi anche della psichiatria, da sempre sono esistiti dei modi anche abbastanza fantasiosi per definire le malattie o le sindromi. Un modo noto a tutti è l’uso di eponimi’, l’abitudine cioè di definire dal nome dello scopritore (è il triste caso del morbo di Alzheimer, per esempio), o del per primo paziente o, meno frequentemente dal nome di una località dove è stata scoperta (anemia mediterranea, per esempio). Insomma negli inventori di definizioni mediche si nota una notevole creatività. Ballo della tarantola. Meno frequenti le definizioni legate a loghi geografici. Febbre di Lassa, febbre emorragica di Crimea-Congo. La più nota in psichiatria è quella di ‘sindrome di Stoccolma’, legata ad un famoso episodio di dirottamento areo, nel quale si notò che fra sequestratori e sequestrati si era creato un forte rapporto affettivo, tanto che i secondi difesero strenuamente l’operato (criminale) dei primi.

Una città il cui nome meriterebbe di essere associato ad una sindrome psichiatrica è Norimberga, la città tedesca già nota nel Medioevo perché fu lì che venne inventato uno dei più feroci sistemi di tortura mai inventato dal sadismo umano, la tristemente nota ‘Vergine di Norimberga’. Si trattava in poche parole di un sarcofago di metallo, a forma dimensione umana, con le fattezze di una donna, all’interno strapieno di aculei. Il condannato si veniva rinchiuso dentro, e prima ancora che morisse soffocato veniva trafitto dagli aculei. In base al sadismo di chi infliggeva il supplizio, la ‘Vergine’ poteva essere anche resa incandescente prima dell’uso.

Norimberga però città medioevale bellissima non è solo nota per questo motivo. Durante la seconda Guerra mondiale fu praticamente rasa al suolo dagli Alleati che poi decisero, proprio in quella città fantasma di celebrare il primo, famoso processo contro i crimini nazisti alla fine del secondo conflitto mondiale. Il processo di Norimberga fu emblematico per due motivi: anzitutto perché per la rima volta vennero presi in considerazione i crimini contro l’umanità, poi per l’atteggiamento emerso dagli interrogatori dei criminali nazisti. Infatti anche i più feroci tra loro, si dichiararono innocenti, adducendo come giustificazione per i loro documentatissimi crimini il fatto di avere semplicemente ‘ubbidito agli ordini’, rispettando quindi un severo e legittimo (a dir loro) comportamento etico militare. Non avevano preso alcuna iniziativa aveva solo eseguito gli ordini imposti dalle superiori gerarchie o dal Fuhrer in persona. Questo punto di vista destò ovviamente un grande scalpore, suscitando un dibattito – per certi versi non ancora concluso – sulle implicazioni etiche di comportamenti soggettivi, anche quando essi vengano ‘ordinati’ da un capo o comunque una figura di vertice alla quale si deve pertanto obbedienza. Ma lasciamo agli storici, ai filosofi o ai sociologi la responsabilità della diatriba e poniamoci invece una semplice domanda: quante volte, nella nostra pacifica quotidianità, mettiamo in atto un comportamento simile a quello descritto dagli imputati nazisti del processo di Norimberga? Quante volte, cioè, compiamo certe azioni solo perché esse comunque ci vengono imposte o suggerite o consigliate da un concetto di norma dominante?

La definizione di Sindrome di Norimberga non ha ovviamente alcun significato geografico, politico o razziale. Essa nasce esclusivamente da un fatto storico, il processo di Norimberga ai criminali nazisti, la prima grande occasione nella quale il mondo occidentale moderno fu costretto a confrontarsi con comportamenti apparentemente paradossali, fondati sulla contraddizione fra stato di salute mentale individuale, valori personali ed azioni concrete, sia sul piano politico sia sul piano militare. La discussione quindi si sposta da un piano astrattamente storico, al piano sociale e culturale (se, quanto e come tutti siamo portati ad obbedire a regole e norme, e ad accettare regole e compromessi anche quando potrebbero sembrarci sbagliati, non etici, o addirittura perversi, persino in aperta contraddizione con le proprie idee o comportamenti o interessi, ma sempre minimizzandone l’importanza o reputandola decisamente irrilevante rispetto a fattori personali o culturali; ciò, beninteso deve avvenire in condizioni di apparente, comune, stabilità mentale, e non per autentico convincimento personale, ma semplicemente perché si intende, con tale comportamento rispettare aprioristicamente un’idea o un principio o un valore culturale, che si reputa superiore alle idee, ai principi o ai valori personali.

A ben pensarci è un comportamento che mettiamo in atto quotidianamente, nelle piccole, ma anche nelle grandi cose. Accettiamo l’invito a una festa, ad un matrimonio, ad un compleanno perché ci sembra scortese non farlo, perché sconteremmo qualcuno. salvo poi a chiedersi perché è invece legittimo che l’altro/a scontenti noi, fermo restando che non c’è niente c’è di male a rifiutare un invito. Tendiamo a dire sempre di si ai figli perché tutti lo fanno, perché altrimenti i figli potrebbero soffrirne, perché si sentirebbero differenti, senza pensare che la filosofia del ‘no’, laddove giustificata, è un cardine di una corretta pedagogia. Ci vestiamo in un ceto modo perché ‘è figo’, e non perché stiamo comodi. L’abbigliamento, a tal proposito, è infatti uno dei piatti forti del conformismo. Se poi le scarpe sono scomode o il vestito ti viene stretto non importa. E così, via via, adottiamo gli stessi atteggiamenti nei confronti di cose ben più importanti. Votiamo alle elezioni per un partito anziché per un altro perché così ci è stato suggerito, per un candidato anziché un altro perché ci potrebbe tornare utile. Ingrassiamo il mercato globalizzato per seguire linee di tendenza. Comperi il SUV o la fuoriserie perché una norma misteriosa dice che questo migliora la tua immagine sociale, non perché ne hai bisogno. Mangiamo come la pubblicità ci suggerisce e non in base ai nostri gusti. Critichiamo chi evade le tasse, ma vorremmo essere i primi ad evaderle e ci lamentiamo perché mancano i soldi per i servizi sociosanitari. L’elenco delle cose che facciamo “perché è giusto così” e non perché ci crediamo sarebbe lunghissimo. Non faremmo tante cose o, viceversa, le facciamo, semplicemente perché una norma culturalmente imposta ci dice che dobbiamo sempre e comunque ubbidire alla norma, perché essa decide cosa e giusto e cosa sbagliato. Ci si comporta, cioè, secondo regole di conformismo culturale che vengono ritenute superiori a qualunque valutazione personale, che può essere anche in assoluta contraddizione con quanto suggerito o imposto socialmente.

L’idea, allora della definizione di “sindrome di Norimberga” nasce proprio da questa considerazione: talvolta l’obbedienza eccessiva o impropria ad un modello culturale può condizionare i comportamenti, sino a renderli profondamente contraddittori con le proprie esperienze ed il proprio sistema di valori, per cui persone assolutamente normali si ritrovano per anni, per decenni, talvolta per tutta la vita, ad adottare sistemi e criteri di valutazione falsi ed inadeguati, ritenuti validi per semplice acquiescenza passiva ad modello culturale medesimo.

Se questa trama concettuale si riferisse esclusivamente a fatti storici episodici, ma comunque presenti ubiquitariamente nella storia dell’umanità, potremmo ritenere che questo comportamento nasca, si sviluppi e si esaurisca in specifici contesti storico-culturali. Il problema che invece voglio evidenziare è che esso non è affatto così contestualizzato, ma si manifesta nelle comuni relazioni umane, in particolar modo in contesti familiari e sociali di apparente, assoluta normalità. La si rileva spesso nella pratica psichiatrica dove si rilevano situazioni nelle quali un soggetto A (gregario), di norma in qualche modo formalmente legato ad un soggetto B (dominante), in un contesto X (gruppale, di coppia o familiare) si trova, dopo anni di condizionamenti oppure dopo periodi anche più brevi, ad adottare modalità di pensiero e istanze comportamentali o relazionali che rispecchiano pienamente le idee o le convinzioni del soggetto B, anche quando esse sono o sembrano in aperta contraddizione con le proclamate opinioni del soggetto A medesimo. Il motivo di questa acquiescenza è rintracciabile nel fatto che nel soggetto A l’idea dell’importanza del contesto X travalica ampiamente la capacità di individuare le difettualità, per quanto palesi esse siano, del comportamento del soggetto B. Il rispetto del contesto X diventa allora dominante, in A, anche rispetto all’idea forte che il soggetto B stia sbagliando, abbia compiuto azioni immorali, o comunque eticamente dissonanti dalle idee del soggetto. Così, e solo per fare alcuni esempio, una madre può accettare che il marito picchi o maltratti i figli, pur essendo profondamente convinta che si tratti di un comportamento insano o ingiusto, ma finendo con l’allearsi al carnefice; oppure dei genitori possono coprire le malefatte del figlio pur essendo convinti che si tratti di comportamenti ignobili; o un figlio può ‘coprire’ gli illeciti compiuti dai genitori pur essendo perfettamente convinto che di illeciti si tratti. La determinante comune di tutti questi atteggiamenti consisterebbe nel fatto che esiste una idea dominante fortissima (per esempio l’idea di famiglia, di coppia, di perbenismo sociale) rispetto alla quale qualsiasi capacità di critica viene estromessa dalla coscienza individuale, gruppale o sociale.

Obbedienza alla norma

E’ chiaro che queste argomentazioni vanno interpretate in base ad adeguato pensiero critico. La società umana si è da sempre imposta delle regole morali e di comportamento, l’adesione personale alle quali è necessaria per mantenere la coesione sociale. Ma queste regole sono normalmente condivise dalla comunità, perché finalizzate alla sicurezza e alla civile convivenza. E’ questa condivisione che le rende accettabili da tutti, ma all’interno di uno stesso sistema culturale. Se varia il sistema culturale possono variare anche le regole, ma non il modello di comportamento. Facciamo alcuni esempi. Nell’Ottocento, nella cultura degli indiani Crow – ben lontani, quindi, dai modelli sociali occidentali – una precisa norma imponeva che un marito tradito non potesse in alcun modo vendicarsi del torto subito, né con la moglie né con il suo amante. In alternativa gli concede di comportarsi da folle: può andare in giro con un sonaglio e disturbare la quiete della tribù, salire a cavallo in senso inverso al normale, persino di disturbare il silenzioso dispositivo militare Crow, mostrandosi al nemico mentre il resto dei guerrieri è appostato e in assetto da combattimento. E’ una vera e propria malattia culturale, che è stata fantasiosamente definita di “Cane pazzo che vuole morire”. Può però durare per un tempo determinato, trascorso il quale Cane Pazzo deve guarire, altrimenti viene cacciato dalla tribù. E’ presumibile che il povero Crow tradito dalla moglie volesse reagire in ben altro modo, ma si doveva adeguare alla norma della sua comunità. Un caso contrario è quello, drammatico, del delitto d’onore nella Sicilia dell’Ottocento: l’uomo tradito doveva vendicarsi uccidendo moglie e amante, anche se non voleva farlo. Un esempio letterario splendido dell’atteggiamento di chi fa o meno qualcosa perché è giusto così e non per convinzione lo ritroviamo ne Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello, dove il buon Ciampa spiega alla signora Beatrice il teorema delle tre corde, la ‘civile’, la ‘seria’ e la ‘pazza’, ognuna da ‘girare’ in base a come decidiamo di comportarci rispetto alla norma… Cane pazzo che vuole morire, Ciampa e la signora Beatrice… Gli esempi potrebbero essere tanti altri, ma tutti suggeriscono che, forse, un comportamento improntato ad una “sana follia” – per usare un audace ossimoro – è l’unica soluzione per evitare di adeguarsi a norme che vorremmo rifiutare, senza riuscirci perché, per parafrasare Gramsci, troviamo più comodo il pessimismo della ragione che l’ottimismo della volontà.

Giovanni Iannuzzo