Zen: meditazione per la salute mentale

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La dottrina dello Zen, originatasi dal buddismo, sembra che sia stata fondata in Cina tra il V e il VI secolo d.C. La tradizione storica ne fa addirittura risalire la fondazione al leggendario Hui-neng vissuto tra il 638 e il 713 d.C. Altri invece sostengono che a fondare questa dottrina buddista fu Bodhisarma, nel 527. In realtà lo Zen- o ch’an secondo la lingua cinese – è probabilmente molto più antico, derivando dal sanscrito dhyana, meditazione.

Le pratiche di meditazione erano note da secoli in Estremo Oriente, sia nelle regioni continentali che in quelle insulari. Fu in Giappone, che questa corrente buddista conobbe il massimo splendore. Vi fu introdotta nel 1215 da un monaco buddista, Eisai, che fondò lo zenshu (scuola della meditazione) codificando precetti già in qualche modo noti a quelle popolazioni. Lo zenshu si ispirava alla scuola buddista lin-chi, in giapponese rinzai.

A questa scuola originaria se ne affiancò successivamente un’altra, fondata da un altro monaco, Dogen, che viaggiò in Cina allo scopo di studiare il buddismo ts’aot’ung (soto in lingua giapponese) fondato nel 1227, dopo il suo ritorno in Giappone, una seconda scuola. Pur differendo per alcuni aspetti, entrambi le scuole aderivano alla stessa dottrina religiosa fondamentale, quella del mahayana (grande veicolo in sanscrito), una corrente buddista staccatasi da quella originaria hinayana intorno al primo secolo d.C.

Anche se la definizione è sicuramente semplicistica, il mahayana è una forma laica di buddismo, che sostituisce all’ideale del monaco arhat (colui che è degno di entrare nel nirvana), quella del bodhisattva, (la cui essenza è l’illuminazione), una persona comune, che ha esperito il senso della compassione universale e che è disposto a rimandare il raggiungimento del nirvana per altruismo. Per comprendere la vera natura della realtà, egli deve conquistare la paramita, le dieci perfezioni: generosità, capacità di sopportazione, moralità, energia spirituale, saggezza, devozione religiosa, potere sulle cose, capacità di utilizzare i mezzi della salvazione, conoscenza e meditazione.

Ampliamento dello stato di coscienza

Lo Zen si ispira al mahayana, ma ne trascura, si può dire, l’aspetto metafisico, per soffermarsi su quello più umano: per raggiungere l’illuminazione basta adeguarsi alla giusta prassi etica e dedicarsi alla contemplazione. Sono questi i mezzi per raggiungere il satori, che consente l’autorealizzazione.

Raggiungere questo obiettivo implica sperimentare l’identità e l’unità dell’essere nel mondo in cui viviamo, nella assoluta quotidianità e non nell’isolamento ascetico. Ne deriva la necessità di prestare attenzione ad ogni elemento della realtà che ci circonda, al più piccolo insetto o al più esile filo d’erba: in ogni piccola cosa v’è il senso dell’integrità dell’uomo.

La scuola Zen che è più nota è quella soto, storicamente più recente. In Occidente è infatti particolarmente noto l’aspetto pragmatico di questa dottrina, ovvero le sue pratiche di meditazione. Nell’ambito della dottrina soto, infatti, si distingue una particolare dottrina per così dire pratica della meditazione, detta zazen. Lo zazen è una tecnica di meditazione suggerita per il raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé e del mondo, e di una maggiore integrazione con tutti gli aspetti della realtà. Questa strategia, che consisterebbe nella creazione mediante le pratiche meditative, di un vuoto interno, condizione indispensabile per l’illuminazione, conduce in realtà ad un ampliamento del proprio stato di coscienza ordinario, che raggiunge profondità inusuali.

L’altra scuola, quella originaria del rinzai, pone invece una maggiore attenzione ad un’altra tecnica, detta koan, che è rifiutata dalla scuola soto. Il koan è un enigma o un paradosso logico che ad una persona che non ha ancora raggiunto una sufficiente maturazione appare insolubile. Esso viene proposto dal maestro Zen al discepolo per fargli scoprire l’inadeguatezza di ogni sforzo razionale per descrivere o comprendere il mondo nella sua essenza ultima.

Col procedere della sua strada iniziatica, il discepolo sarà invece in grado di accogliere il koan del maestro, accettandolo senza compiere sforzi razionali. Questa accettazione gli terrà impegnata la mente senza imporre di per sé la ricerca di una soluzione razionale, e produrrà il vuoto nella coscienza, condizione necessaria per l’illuminazione. Ambedue le scuole, infatti, soto e rinzai, tendono alla ricerca di questo stato, come finalità ultima della dottrina Zen.

Apparentemente, lo Zen è quindi solo una dottrina religiosa buddista. In realtà le sue tecniche e le sue strategie vanno ben oltre il semplice precetto religioso, e si pongono come strategia olistica che fonde tra loro corpo e mente, e che ha un preciso impatto non solo sulla comprensione dell’universo (paradigma, questo, comune a tutte le discipline mediche e psicologiche e religiose tradizionali), ma anche sul benessere psicofisico.

È in questo senso che esso merita l’attenzione del distratto uomo occidentale. Il rischio è che la traduzione di questo insegnamento tradizionale orientale in un più moderno sistema occidentale lo denaturi, rendendolo forse più fruibile, ma alterandone il senso originario e iniziatico. A differenza infatti di altri sistemi di pensiero tradizionali, lo Zen ha una sua precisa identità dottrinaria, che non è, sostanzialmente, medica. Se però la finalità ultima non è sanitaria, gli effetti sono rilevanti proprio da un punto di vista medico, a testimonianza di come sistemi di pensiero possano inglobare nel loro contesto strategie tendenti al raggiungimento e al mantenimento del benessere psicofisico.

Gli esercizi dello zazen avevano lo scopo di assicurare ai monaci buddisti che li praticavano uno stato di concentrazione, astrazione e rilassamento adeguato al conseguimento di uno stato superiore di coscienza. Queste tecniche, sino a pochi anni fa ritenute di esclusiva pertinenza religiosa, sono state studiate dal punto di vista psicofisiologico.

Lo psichiatra giapponese Toshio Hirai, docente di psichiatria nell’Università di Tokio e, all’epoca dei suoi studi, Presidente della Società di Neurologia e Psichiatria del suo paese, ha studiato le tecniche Zen, proprio da una tale prospettiva. Si è posto cioè il problema di comprendere cosa in realtà producessero sull’organismo e le ha tradotte nel linguaggio scientifico occidentale. I risultati dei suoi studi sono stati di grande interesse scientifico.

L’azione del sistema nervoso autonomo

Chi pratica la meditazione zazen, in sostanza presenta una serie di modificazioni fisiologiche e metaboliche benefiche per l’organismo. Hirai osservò ripetutamente un aumento della reazione galvanica della pelle, una maggiore stabilità delle onde cerebrali, nel senso di un potenziamento dello stato alfa che coincide con una situazione di rilassamento, e un migliore controllo delle funzioni del sistema nervoso autonomo.

Nello stato più alto di meditazione, monaci esperti emettono una quantità significativamente maggiori di onde theta, e contemporaneamente si verifica una intensificazione della reazione galvanica, mentre la velocità della respirazione (il cui controllo è uno stadio fondamentale dello zazen) scende dalla media normale di 18 respiri al minuto a quella stupefacente di 4 o 5. Nel contempo si ha un aumento della frequenza cardiaca (da circa 70 battiti al minuto a 80/90).

Hirai concluse, e dimostrò, che tutto questo era una conseguenza dell’attivazione del sistema nervoso autonomo, diretta alla conservazione di uno squilibrio tra simpatico e parasimpatico. Alla scienza occidentale sono ormai noti i fenomeni di attivazione del simpatico di fronte a stimoli esterni di una certa intensità, risposte che configurano la sindrome generale di adattamento susseguente allo stress.

Cannon, il precursore degli studi sullo stress e sull’omeostasi, riteneva che quella del simpatico fosse una risposta difensiva dell’organismo. Nella meditazione zazen, il controllo dell’organismo è invece gestito fondamentalmente dal parasimpatico. Si ha, in parole povere, una diminuzione di ritmo, una diminuzione delle risposte difensive che stanno ad indicare indirettamente che l’organismo è sottoposto a tensioni, all’azione di stressors. Spostando l’attivazione del simpatico al parasimpatico, lo zazen, secondo gli studi di Hirai, riequilibra le risposte dell’organismo.

«Durante lo zazen – scrive in proposito Hirai – il sistema nervoso autonomo fa sì che l’organismo neutralizzi e assorba ogni elemento nocivo. Trenta minuti di meditazione zazen rendono possibile un graduale passaggio dal controllo operato sul parasimpatico al controllo sul simpatico, armonizzando in tal modo l’azione complessiva sul sistema autonomo».

L’azione dello zazen si manifesta anche ad altri livelli, per esempio metabolici. Lo studio del metabolismo basale di monaci abituali praticanti dello zazen, hanno mostrato un rallentamento dello stesso, e un consumo di energia inferiore a quello del loro metabolismo basale. Rispetto alle persone normali tale differenza si aggira intorno al 20%.

Il ritmo respiratorio

La respirazione è il primo gradino dell’addestramento dei monaci buddisti. Una corretta respirazione è ritenuta fondamentale per il mantenimento di uno stato ottimale di rilassamento. Di norma respiriamo una ventina di volte al minuto, con un ritmo, cioè, abbastanza veloce.

Di solito si ritiene che respirare così velocemente faccia bene alla salute perché si ossigena così tutto l’organismo, cervello compreso. In realtà fisiologicamente, non è così perché la respirazione veloce è superficiale e non riesce a portare l’aria nei polmoni, ma ne ferma una buona quantità nell’albero bronchiale; non riesce inoltre a eliminare tutta l’anidride carbonica e rende meno disponibile lo spazio con ossigeno. Invece una respirazione lenta, con espirazioni prolungate, apporta una maggiore quantità di ossigeno ai polmoni. D’altra parte, il respiro eccessivamente veloce e breve si accompagna a situazioni non fisiologiche, come l’ansia e l’agitazione. Il respiro lungo ha invece effetti benefici anche sul cuore, che diminuisce le pulsazioni, ha un carico di lavoro e compie uno sforzo minore.

Nello stesso tempo va anche considerato che respirare lentamente implica a ritmi più lunghi in tutte le proprie azioni quotidiane. È indice di temperanza e riflessività. Lo Zen prescrive una respirazione che abbia un ritmo di quattro o cinque respiri al minuto, enormemente più lenta, cioè, di quella alla quale siamo abituati.

La tecnica, semplice, è quella di inspirare velocemente col naso e di espirare molto lentamente sempre col naso, in maniera tanto lenta che, secondo lo Zen, il flusso non dovrebbe muovere una piuma sotto la punta del naso. Questa tecnica di respirazione coinvolge sia i muscoli addominali che quelli toracici. La frequenza di respirazione considerata ottimale è di cinque respiri al minuto. Questo ritmo dovrebbe essere mantenuto sempre e non solo quando si è impegnati nella meditazione. Questa prassi comporta l’acquisizione, nel tempo, di una maggiore calma quotidiana, una maggiore tolleranza alle stimolazioni emotive.

Proprio perché lo Zen suggerisce un ritmo costante e armonico nella respirazione, i monaci Zen utilizzano a tal fine dei canti particolari, dei sutra, che non sono solo delle composizioni da utilizzare per fini tecnici, ma hanno anche un significato filosofico profondo.

Il sonno ideale

Ricerche abbastanza approfondite sono state anche compiute sul sonno prodotto dalle tecniche Zen. Uno dei dati più interessanti riguarda il luogo dove si dorme. Sebbene la scienza occidentale abbia ormai riconosciuto che i morbidissimi materassi, prodotto e vanto, entro certi limiti, della tecnologia del quotidiano, siano quanto mai dannosi per la salute, questo precetto è antichissimo in Oriente, tant’è che i monaci buddisti che seguono i precetti Zen ne hanno ormai secolare consapevolezza.

Non casualmente essi dormono su stuoie, direttamente a contatto col suolo, sul quale sono adagiati. Un altro particolare è sicuramente interessante: la posizione. Se avete visto la classica immagine del Budda disteso, avrete un’idea di qual è la posizione che lo Zen reputa ideale per il sonno: sdraiato su un fianco con la testa appoggiata sul braccio. In questa posizione si esercita sulle vertebre e sui nervi una pressione molto minore che stando sulla schiena. E questo, oltre ad una corretta posizione delle vertebre, consente di dormire meglio.

Hirai ritiene che questa posizione, infatti, sia assolutamente naturale: la spina dorsale non è stimolata indebitamente e ciò crea il benessere anche perché si ottiene una migliore regolamentazione del parasimpatico. Hirai riferisce di aver curato, semplicemente facendo cambiare posizione nel dormire, diversi casi di insonnia.

Quelle che abbiamo descritto sono alcune delle pratiche specifiche del sistema di meditazione zazen, ma, naturalmente, la dottrina dello Zen non può essere esaurita in questa sorta di ginnastica psicofisica che impegna nel contempo il corpo e la mente.

Gli studi compiuti su queste tecniche ne assicurano la fruibilità per una serie notevole di disturbi psichici e psicosomatici. Hirai ha notato effetti rimarchevoli dello Zen in tutte le malattie da stress, per esempio l’ulcera duodenale, nei disturbi del sonno, in varie forme di nevrosi e nelle depressioni. L’abitudine a questo tipo di meditazione ha una generale azione tonificante, migliora i ritmi dell’organismo e consente il recupero o il mantenimento di un adeguato stato di attenzione e concentrazione.

Naturalmente, possono essere utilizzate le sue potenzialità preventive per quanto attiene a queste malattie. Lo zazen sembra infatti produrre un particolare rilassamento attivo, nel senso che alla mancanza di tensione si associa un ottimale stato di vigilanza e di lucidità mentale. Ma lo Zen non è solo questo, anzi questi precetti ne rappresentano solo l’aspetto più trascurabile. Lo Zen è una filosofia, volta alla conquista di una superiore visione del mondo mediante un ampliamento delle capacità interiori, che conduce all’illuminazione.

Per conseguire un superiore stato di coscienza, non si può non esperire la salute mentale, che è il primo gradino di una lunga strada verso il samhadi. Sembrerebbe cioè, che nella loro ricerca dell’illuminazione i seguaci dello Zen abbiano sperimentato il vero concetto di salute psicosomatica. La tranquillità dello spirito, infatti secondo lo zazen non si conquista con l’intelletto, ma con il controllo emozionale delle proprie reazioni. Non a caso, essi attribuirono grande importanza al corretto funzionamento di due punti del corpo, il kikai, posto all’altezza della seconda o terza vertebra lombare, e il tandem, posto nella parte inferiore dell’addome. Oggi sappiamo che questi due punti corrispondono a due gangli del sistema nervoso autonomo.

Molto tempo prima che venisse scoperto dalla scienza occidentale, ai monaci Zen era già noto il vasto corpus di precetti poi afferente al biofeedback, al controllo retroattivo del proprio stato psicofisico, mediante la percezione delle variazioni fisiologiche. Questi precetti non erano di natura specificatamente sanitaria, ma afferivano ad una differente visione del mondo, nella quale la via per l’autoconsapevolezza passava attraverso l’equilibrio psicofisiologico. E, ovviamente, viceversa.

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