La psichiatria occidentale deriva, come altre specialità, dalla tradizione meccanicistica della medicina ottocentesca, della quale ha sostanzialmente adottato i criteri metodologici e la filosofia. Fondata su una separazione abbastanza rigida tra il soggetto dell’osservazione (lo psichiatra) e l’oggetto dell’osservazione (il malato) essa ha tentato per anni di obiettivare la malattia mentale, adottando sia nella descrizione dei quadri clinici che nella terapia gli stessi criteri che valevano per le altre branche della scienza medica. Inevitabilmente, si è prestata scarsa attenzione alla persona, alla sua cultura, alle sue convinzioni personali e a quelle del suo ambiente.
Poiché la malattia in genere, ma quella psichica in particolar modo, sono fortemente caratterizzate in senso culturale, etnologico, interpersonale, è come se alla psichiatria moderna fosse sfuggito il senso olistico, unitario della persona malata, un insieme di mente, corpo e cultura e non il semplice veicolo di un sintomo.
La differenza sostanziale con la psichiatria africana tradizionale sta proprio in questa diversa concezione del malato e della malattia psichica. Nella cultura tradizionale africana, infatti, la distinzione tra ciò che è fisico, ciò che è psichico e ciò che è morale o spirituale appare quasi paradossale. Le diverse dimensioni dell’essere, infatti, fanno tutte parte di una realtà globale, che è sempre presente a chi esercita le arti mediche.
Naturalmente esiste una pratica psichiatrica specifica, ma essa non può essere considerata avulsa da tutte le convinzioni generali su quella inscindibile monade che è l’individuo all’interno del propri ambiente di vita.
Triangolazioni
L’efficacia stessa della pratica psichiatrica sembra anzi fortemente condizionata dalla cultura. Un eccellente esempio di questo rapporto triangolare tra psichiatria, malattia mentale e cultura è offerto da un caso accaduto a Thomas Adeoye Lambo, psichiatra nigeriano e vice-direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità all’epoca in cui narrò l’episodio.
Al suo studio si presentò un paziente nigeriano, una persona colta, che aveva studiato all’università di Cambridge e che quindi poteva ritenersi del tutto occidentalizzato. Aveva superato una dura selezione divenendo dirigente di una amministrazione pubblica, dopo aver superato molti qualificati colleghi. Poche settimane dopo tale successo aveva avuto uno strano incidente da cui si era salvato per poco; immediatamente aveva presentato una grave forma delirante: era terrorizzato perché riteneva che i colleghi cospirassero contro di lui per ucciderlo.
Si trattava chiaramente di una sindrome paranoica, di fronte alla quale il dottor Lambo si sentì del tutto impotente, perché « risultava refrattaria ai consueti metodi della psichiatria occidentale ». A parte una banale prescrizione di sedativi, non poté fare altro. Poi, tempo dopo, il paziente tornò da lui decisamente migliorato. Gli raccontò che qualche notte prima aveva sognato il nonno, che gli aveva predetto una vita lunga e felice, e che egli si sarebbe liberato dalle sue angosce se avesse sacrificato una capra. Il paziente il giorno dopo aveva seguito il suggerimento, seguendo puntualmente le istruzioni del nonno, e subito si era sentito bene. Lambo non poté che prendere atto, col suo paziente, che la cura culturale era risultata ben più efficace delle raffinate prescrizioni moderne.
In realtà questo aspetto terapeutico tradizionale che utilizza strumenti appartenenti al tessuto etnico, caratterizza fortemente la psichiatria africana, anche in senso strettamente professionale. Mentre infatti nel mondo occidentale la malattia mentale è un fatto che riguarda quasi esclusivamente lo psichiatra e il suo paziente, nel mondo africano tradizionale essa coinvolge tutta la comunità.
Nondimeno, per quanto fatto di interesse pubblico la psichiatria africana tradizionale ha delle basi per così dire specialistiche: esistono una psicologia, una psicopatologia e una psicoterapia tradizionale, con loro caratteristiche altamente specifiche.
Sebbene esistano indubitabili differenze tra le varie culture africane, spesso profondamente diverse tra loro, tutte sono accomunate da una percezione del mondo e una filosofia dominante, per cui si può parlare di una psichiatria africana tradizionale come di un corpus di norme, conoscenze e pratiche abbastanza omogenee.
Lo psichiatra africano tradizionale
In quanto sostanzialmente guaritore, lo psichiatra africano può esercitare l’arte medica in ogni sua specializzazione e funzione. Si può occupare di psicosi o di parassitosi con la stessa competenza, proprio in quanto la differenza tra ciò che è «corpo» e ciò che è «mente» è molto più sfumata di quanto non sia in Occidente.
In ogni caso, egli media il rapporto tra la sua comunità e il mondo degli spiriti, degli antenati, e questo gli dà la possibilità e l’autorità di guarire gli individui malati, ma anche di intervenire in qualunque situazione di crisi anche sociale, come una carestia o la siccità per esempio, nel qual caso egli diviene terapeuta del gruppo anziché del singolo.
Se questo suo ruolo generale è molto rigido (e il livello di rigidità è direttamente proporzionale alle difficoltà ambientali della comunità), nella pratica specificamente psichiatrica gli è consentita una certa flessibilità. Infatti la definizione culturale stessa di malattia mentale nella società africana tradizionale, nello Zaire come nella Nigeria, è di per se stessa flessibile. La diagnosi di «pazzia» è strettamente correlata al fatto che il comportamento irrazionale del malato sia contrario alle norme culturali tradizionali. Solo quando tale contrasto diviene eccessivamente stridente e insostenibile è giustificata una diagnosi e una terapia psichiatrica. Il criterio diagnostico non è quindi statistico, come di norma in Occidente, bensì sociale.
In genere lo psichiatra tradizionale non è esclusivamente un medico. Ha una sua professione che gli consente di guadagnare: è agricoltore, pescatore, allevatore. Poi, per vocazione, tradizione familiare o ispirazione, diviene guaritore e «psichiatra».
L’ispirazione può presentarsi improvvisamente, il più delle volte con uno stato di grave malattia, in seguito al quale egli intraprende un noviziato lungo e severo durante il quale la sua preparazione si orienta in due direzioni diverse: da un lato alla conoscenza effettiva delle proprietà terapeutiche delle piante, della farmacopea tradizionale e delle strategie da porre in atto per realizzare appropriati interventi terapeutici. Dall’altro lato alla conoscenza del mondo dei misteri, dei riti, degli oggetti sacri, che si sviluppa sulla base di esperienze mistiche precluse agli altri membri del gruppo, e che quindi ne aumentano il prestigio.
Egli impara a gestire un rapporto col soprannaturale, col mondo degli spiriti degli antenati e questo gli dà la possibilità di acquisire un enorme ascendente sulla sua comunità e sul singolo membro di essa che potrà fiduciosamente affidarsi a lui per guarire dalla sua follia. A garantire un rapporto medico-paziente estremamente efficace, empatico e significativo vi è l’appartenenza alla stessa cultura che fa si che ogni gesto terapeutico sia psicologicamente carico e taumaturgico.
Il sistema di valori al quale aderiscono paziente e psichiatra è infatti lo stesso. Tale sistema, è fondato sulla concezione di una sostanziale unità della vita e del tempo. Le distinzioni occidentali tra animato e inanimato, razionale e irrazionale, naturale e soprannaturale, conscio e inconscio vengono annullate e fenomeni inconciliabili vengono collocati all’interno di uno stesso continuum. Le cose visibili e quelle invisibili assumono lo stesso valore, il passato, il presente e il futuro sono fusi in un amalgama inscindibile, i confini tra il mondo dei sogni e quello della realtà quotidiana sono assai più sfumati (come nel caso di quel paziente al quale apparve in sogno il nonno).
D’altra parte, nella cultura africana tradizionale i vari elementi apparentemente in contraddizione sono cementati dalla credenza di una ininterrotta comunione tra i vivi e i morti, impegnati quasi in un dialogo continuo. Gli spiriti degli antenati conferiscono forza e influenza ai clan e agli individui, talora indirizzandone le scelte, e condizionando i destini. La credenza nelle molteplici divinità e negli spiriti assume una importanza determinante anche in campo psichiatrico, nel quale lo psichiatra condivide le convinzioni del suo paziente e della comunità, utilizzandole anche in chiave terapeutica e diagnostica.
È questo che rende, dalla prospettiva teorica, la psichiatria africana tradizionale così diversa da quella occidentale: il sistema di valori dell’una è del tutto estraneo all’altra. Nel moderno mondo occidentale la realtà è caratterizzata dalla padronanza delle cose, degli oggetti, della capacità di esercitare la volontà e – tutto sommato – dalla visione razionale, meccanicistica e causale dei fenomeni. Nel sistema di valori della cultura africana tradizionale la realtà va cercata altrove, nell’anima, in una visione religiosa della vita, e la realtà stessa si fonda non solo sui rapporti tra gli uomini ma anche sui rapporti tra uomini e spiriti. Lo psichiatra deve tenerne conto nella sua valutazione di una malattia mentale.
Diagnosi e terapia
Nella psichiatria tradizionale africana, così come in molte altre medicine tradizionali, l’origine delle malattie può essere naturale o personale. Nel primo caso l’approccio non differisce molto da quello occidentale, nel secondo è direttamente chiamata in causa la magia. Quasi tutte le malattie sono attribuite a malefici magici, all’intervento di divinità o di spiriti. È chiaro che in questo contesto culturale, la diagnosi sarà sostanzialmente fondata sulla divinazione. Ma non si tratta soltanto dell’attribuzione di una malattia a uno spirito ancestrale, all’odio di un nemico, o all’ira di una divinità, bensì alla correlazione tra questo evento soprannaturale e gli eventi naturali e sociali che sono connessi alla vita del soggetto malato.
«L’indovino che diagnostica l’intervento di un’entità spirituale, scrive in proposito l’antropologo Robin Horton, deve anche fornire una spiegazione accettabile dei motivi che hanno spinto l’entità ad intervenire.
Questa spiegazione in genere fa riferimento al mondo degli eventi tangibili e visibili. Così se l’indovino attribuisce la malattia all’azione di un’influenza di spiriti maligni, normalmente parlerà anche di odi e gelosie umane, di misfatti che hanno provocato l’intervento di queste forze. Oppure, se la diagnosi è la collera di un antenato, dovrà anche indicare la trasgressione umana alla moralità che ha suscitato questa collera».
Nello stesso modo se la malattia è espressione di conflitti e aggressività all’interno del gruppo sarà necessario far si che queste tensioni emergano e siano trattate. La salute, specialmente quella mentale, è infatti espressione di un giusto armonico equilibrio tra individuo, gruppo, e leggi religiose e sociali. La malattia è segno che qualcosa nella comunità non funziona.
Se la teoria generale è diversa, le modalità specifiche della diagnosi sono molto simili a quelle occidentali. L’indovino-psichiatra stabilisce la causa prossima della malattia (se è naturale, come deperimento per esempio, o supernaturale) e poi procede all’anamnesi che in questo caso sarà relativo al comportamento religioso o sociale dell’individuo: chiederà al malato se ha trasgredito qualche tabù, se ha offeso qualche spirito, se ritiene che qualcuno possa averlo fatto oggetto di un maleficio.
I mezzi attraverso i quali raccoglie dati per così dire clinico-diagnostici sono numerosi: l’analisi dei sogni, l’ipnosi, la trance che consentono allo psichiatra una ricostruzione della psicodinamica del malato. Esistono anche delle tecniche proiettive, abbastanza simili ai test occidentali, come il Rorschach. I guaritori Yoruba, utilizzano per esempio una tecnica chiamata Ifa. Essa utilizza una serie di 256 formule di incantesimo (versi poetici chiamati odus costituite ognuna da una serie drammatica di parole in grado di evocare le emozioni del paziente.
La diagnosi è tratta dal modo in cui le parole sono utilizzate, dall’ordine nel quale sono disposte, o dalla violenza delle emozioni suscitate.
In base a queste formule è infatti possibile intuire il problema del paziente, in secondo gli indizi e segni che vengono portati alla luce e che, naturalmente, veicolano motivazioni profonde.
I Bantu Occidentali utilizzano una tecnica simile: essi usano un canestro contenente tanti oggetti intagliati, ognun dei quali rappresenta una situazione o la valutazione di una situazione. Il canestro viene scosso e gli oggetti che così vengono messi in evidenza consentono una interpretazione del caso.
È dopo aver stabilito la diagnosi che il medico decide il tipo di terapia. Essa utilizza due tipi di approccio, quello farmacologico e quello psicoterapico. Questo avviene da sempre e è stupefacente il fatto che in Occidente si sia giunti a questa constatazione clinica solo da relativamente poco tempo. la terapia farmacologica è fondata sulla utilizzazione di rimedi vegetali, animali o minerali, i cui effetti psicotropi sono conosciuti tradizionalmente, così come lo sono gli effetti collaterali e le controindicazioni.
Anche se infatti le cause sembrano essere supernaturali, l’azione sul sintomo può essere mediata da sostanze naturali. Quello farmacologico però è solo un momento della terapia che associa alle specificità chimiche di una sostanza significati simbolici, strategie sociali e trattamenti psicologici, ognuno dei quali con una propria base razionale.
Di fondamentale importanza è, in questo contesto, la partecipazione della famiglia e del gruppo sociale nella terapia della malattia mentale. In certe culture, per esempio, l’azione del terapeuta avviene alla presenza del gruppo familiare o pubblicamente di fronte a tutta la comunità.
Si stabilisce in questo modo un triangolo guaritore-paziente-gruppo, nel quale le aspettative del malato e degli astanti mettono in atto dinamiche che possono accelerare o facilitare la guarigione. Nel basso Zaire per esempio il rientro del malato mentale nella società dopo la guarigione o comunque il controllo della crisi è festeggiato da un grande banchetto comune, che ha una funzione di rinforzo e naturalmente di gratificazione. Nella cultura n’javei dei Mende (Sierra Leone) o quella vassi degli Sherbro, la terapia di gruppo dei disordini mentali è d’obbligo, e tutta la comunità si dedica alla cura (fisica e psichica) e al recupero del malato mentale.
La psicoterapia individuale è fortemente caratterizzata in senso culturale.
Un minaccioso mondo sovrannaturale offre infatti una serie praticamente enorme di spunti che si inseriscono in una condizione di vita che spesso è obiettivamente difficile: conflitti sociali, cambiamenti di status, legittimazione dell’autorità e del potere, mutamenti nel ruolo sociale possono essere altrettanti motivi di psicopatologia. I disturbi che essi provocano (insieme a violazioni dell’ordine naturale, problemi obiettivi di comunità come le carestie o la siccità, etc.) possono essere estremamente intensi e disturbare l’ordine implicito della comunità, richiedendo quindi un trattamento energico, fortemente carico di simboli che configurano gli elementi culturali fondamentali del gruppo.
Proprio su questa carica simbolica sono fondate le varie psicoterapie in uso nella pratica psichiatrica tradizionale africana: esse evocano significati sacri e allegorici, utilizzano l’interpretazione dei sogni, gli esorcismi, l’identificazione degli spiriti responsabili della malattia del paziente che lo psichiatra deve scacciare. Vengono anche utilizzate tecniche di rilassamento, o comunque metodi anti-stress, come i massaggi, le abluzioni, i bagni, le unzioni, che hanno comunque una forte carica rituale.
Danze, stati di trance o l’ipnosi vengono del pari utilizzate. Molto spesso queste terapie sono, come dicevamo, pubbliche, collettive o familiari e incidono profondamente sulla psicodinamica delle relazioni interpersonali frequentemente disturbate per motivi esterni o interni.
Lo psichiatra tradizionale africano può curare in due modi diversi: o ambulatorialmente o «ricoverando» il paziente nella sua casa, insieme a un membro della famiglia del paziente che lo assista durante la degenza.
Questo ha un altro importante effetto terapeutico, evitando una separazione troppo rigida dalla famiglia e la disintegrazione dei legami, e rappresentando un invito vincolante della famiglia che deve assumersi le proprie responsabilità nei confronti del malato, anziché scaricarlo. Nel contempo questa strategia rende più morbido il ritorno del paziente al suo nucleo familiare alla fine della terapia, visto che è sempre esistito un trait-d’union affettivo tra la diade paziente-terapeuta e il gruppo di provenienza del malato.
Esiste anche un supporto sociale. In alcuni gruppi esistono delle vere corporazioni di malati e ex-malati che ora fungono da terapeuti o comunque da consulenti. L’affiliazione a questi gruppi e il loro riconoscimento come entità sociali dà una legittimazione sociale alla malattia mentale e permette l’inserimento dei malati nel tessuto culturale dal quale altrimenti rimarrebbero avulsi – cosa che d’altra parte avviene tuttora nell’occidente industrializzato. In questi gruppi, fondati su riti comuni, vige generalmente la regola che chi guarisce da una data affezione si specializza nella cura di quella stessa malattia, e rimane nel gruppo per aiutare gli altri pazienti. Si tratta, insomma, di forme di coesione che con la loro enorme duttilità consentono una azione di prevenzione, terapia e integrazione del disagio mentale.
Giovanni Iannuzzo