Migrazioni: la scienza e il mito della “razza pura”

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La storia dell’umanità è una storia di migrazioni, grandi e piccole. Da sempre, cioè, i popoli e gli individui si sono spostati da una parte all’altra del mondo per varie motivazioni: economiche, climatiche, sociali, politiche, alimentari; ma anche per capriccio, curiosità, per bisogno di scoprire luoghi nuovi, per conoscere altri usi e costumi, per apprendere un’arte o una nuova lingua.

In molti casi queste migrazioni furono e sono caratterizzate dall’idea del ritorno nella propria terra d’origine, ma in altri si è trattato di vere ondate di uomini e donne che lasciavano la propria ‘patria’, trascinandosi appresso l’indispensabile (talvolta anche in termini affettivi) e trovarne una nuova, senza alcuna idea di ritorno, in cerca di luoghi sicuri dove vivere, crescere e prosperare.

La storia dell’uomo è la storia delle sue migrazioni.

La prima grande migrazione sembra sia partita, secondo gli antropologi, dal Nord Etiopia, nell’età della pietra. Per quanto possa non piacere ai cultori di miti identitari, l’umanità è nata in Africa, e i nostri antenati avevano il colore della pelle che variava dal nero al color bronzo. Solo successivamente subentrarono delle differenziazioni.

Come scrive Diamond: “Il colore della pelle e la forma del corpo rappresentano semplici adattamenti al clima di diverse regioni. La nozione di razza si applica bene a cani e cavalli, ma non può essere trasferita alla specie umana”.

Nel sito di Herto Bourim nell’Etiopia settentrionale, sono stati ritrovati fossili di Homo Sapiens. Non sappiamo esattamente perchè da quei luoghi si avviò la prima gigantesca migrazione della storia dell’uomo. E’ probabile che la motivazione sia legata a problemi climatici e ambientali. Quale che sia la motivazione, sessantamila anni fa i nostri antenati lasciarono i luoghi d’origine e si avventurarono in terre diverse, sino a luoghi lontanissimi. “Eravamo cacciatori e andavamo in cerca di cibo. Non conoscevamo la scrittura, la ruota, gli animali addomesticati e l’agricoltura. Attraversando spiagge deserte, assaggiavamo i molluschi. Ci orientavamo osservando le gru che migravano. Le destinazioni non erano ancora state inventate”. E’ la suggestiva descrizione che Paul Salopeck delinea delle condizioni di vita e della civiltà della primigenia orda umana che si spostò dall’Africa Orientale, verso il resto del mondo, verso nord.

Perché il Nord? Perché il clima è più mite, le terre più fertili, l’acqua più facile da trovare. E seguendo percorsi difficili oggi da identificare con precisione, questi nostri progenitori di sparsero per il mondo, scoprirono il fuoco, crearono insediamenti, quando trovavano zone fertili e trovando altri modi che non la caccia o la raccolta di piante spontanee per alimentarsi. Poi compresero che la terra poteva essere coltivata e quindi fornire cibo in abbondanza, senza le fatiche o della raccolta, e inventarono l’agricoltura e l’allevamento. Ma questo accadde solo nell’Olocene, l’era geologica sopraggiunta dopo il Pleistocene, intorno a 11000 anni fa. Ma l’agricoltura consentiva di risiedere in maniera costante in una data zona geografica.

Con la fine dell’ultima era glaciale, circa 8000 anni fa, si posero le condizioni per la nascita (tra 10000 e 7000 anni fa), della stanzialità, la scelta e la presa di possesso di un territorio, la costruzione di case, villaggi, città. Furono scoperti i metalli, con tutto quello che essa implicava per il progresso della comunità. Era quella che Gordon Childe avrebbe chiamato la “rivoluzione neolitica”.

Nel frattempo le migrazioni continuavano, piccoli gruppi diventavano stanziali, ma altri gruppi continuavano a spostarsi, senza limiti, colonizzando tutti i continenti, dalla fertile mezzaluna, al vicino oriente antico, affacciandosi sul Mediterraneo e poi ancora colonizzando l’Europa, poi l’attuale Russia e da lì attraverso il passaggio di Bering, che collega Siberia e Alaska (ora uno stretto, ma allora una lingua di terra che collegava il continente europeo a quello americano), anche le Americhe.

E più la civiltà progrediva, più le migrazioni si portavano appresso le nuove scoperte e le acquisizioni. Le comunità di cacciatori-raccoglitori e quelle di coltivatori-allevatori scambiavano le loro merci. Era nato così l’economia e il commercio.

Dai suoi luoghi primari di origine l’agricoltura, attraverso queste continue migrazioni, si diffuse nel resto del mondo, così come le pratiche di addomesticamento degli animali. Agricoltura e allevamento, ovviamente, furono resi possibili da fatti climatici: si svilupparono infatti in zone tropicali e sub-tropicali come l’umidità consentiva la crescita sufficiente di piante selvatiche che potevano essere poi coltivate.

E’ nella ‘fertile mezzaluna’, in Asia sud-occidentale, fra il Tigri e l’Eufrate che sono stati trovati i primi segni di domesticazione. Da una specie selvatica oggi definita Hordeum spontaneum, dopo un processo di domesticazione derivarono il grano e l’orzo. Nella Cina Settentrionale e in Giappone iniziò invece la coltivazione della socia, fra i 9000 e i 7000 anni fa. Il mais, in Messico, venne addomesticato intorno a 8700 anni fa in Messico, insieme ad un tipo di zucca, la Cucurbita argysosperma.

La storia dell’agricoltura si rivela, insomma, uno strumento essenziale per capire la storia dell’umanità e delle sue continue peregrinazioni da una parte all’altra del mondo. L’agricoltura ha avuto delle importanti ripercussioni sia nello stile di vita che nella fisiologia dell’uomo. Esiste un nesso preciso fra agricoltura, stanzialità e sedentarietà e modificazioni biologiche. E’ cambiata per esempio la stessa flora batterica intestinale, con una minore biodiversità rispetto a popolazioni ancora dedite alla caccia e alla raccolta, per l’essenza di microorganismo che permettono di sfruttare meglio l’energia contenuta nelle fibre vegetali. In compenso lo stile sedentario e quindi l’uso più o meno costante dei prodotti dell’allevamento ha portato per esempio ad una maggiore tolleranza al latte e ai latticini. Altra conseguenza è stato l’incremento demografico: nelle popolazioni stanziali, costituite da coltivatori-allevatori il tasso di crescita è stato rilevato cinque volte superiore a quello dei cacciatori-raccoglitori.

Ma la stanzialità ebbe anche due altre conseguenze. La prima fu la nascita delle professioni socialmente accettata. Una certa parte della popolazione, infatti, era libera dallo sforzo di cacciare e raccogliere e quindi poteva ‘fare altro’.

Nascono così le prime professioni intellettuali sganciate dalle esigenze economiche fondamentali della comunità. C’è il tempo per pensare, per osservare con più calma, per elaborare concetti. La seconda conseguenza fu la nascita di un sistema economico nuovo. L’agricoltura consente di accumulare prodotti in eccesso, da potere scambiare con altre popolazioni. E’ il momento della nascita delle classi sociali, del lavoro subordinato, della proprietà, non più comune, ma legata al possesso di beni propri o di gruppo. E’ in quello stesso periodo che nascono le religioni, la politica… e la guerra.

Quando l’uomo capì che poteva acquisire più terra e più merci non producendole da se stesso, ma appropriandosi di quelle degli altri vicini, nasce la guerra. E, se ci pensate bene, nasce anche il concetto di ‘altro’, di ‘diverso da me’. Nasce la subordinazione nel lavoro, il sessismo (con la divisione dei ruoli e il sempre maggiore impegno della donna ad accudire i figli), la discriminazione, il classismo. Effetti collaterali della civiltà. Non dobbiamo però vedere questo panorama in senso statico. Esso è in continuo movimento, viene importato o esportato seguendo le grandi ondate migratorie. Perché l’umanità continua inarrestabilmente a migrare nel corso dei secoli. Per fare soltanto l’esempio dell’Europa, è indiscutibile che il ‘vecchio continente’ non abbia mai avuto popolazioni ancestrali pure, con buona pace dei sostenitori della esistenza di una ‘razza’ europea.

L’Europa è stata sin dall’era post-glaciale un miscuglio di immigrati, proveniente dall’Africa, dal Medio Oriente, dalla attuale Russia. Lo dimostrano soprattutto non solo i reperti archeologici, l’analisi dei resti fossili, o delle dentature, ma soprattutto le ricerche condotte sulle sequenze geniche, praticamente un esame molto simile al test del DNA individuale, solo che esso è praticato sui resti ossei ritrovati negli scavi archeologici. Da queste ricerche è possibile inferire che nella preistoria ci siano stati almeno tre grandi migrazioni di popoli verso l’Europa, che hanno portato con loro arti, musica, tecniche di agricoltura e di costruzione, animali addomesticati, in particolare il cavallo, la ruota, le lingue indoeuropee, usi, costumi ed anche epidemie.

La prima grande ondata migratoria che colonizzò l’Europa è quella africana, di cui abbiamo già parlato: dall’Etiopia, arrivò prima al Medio Oriente, per poi giungere all’Europa, circa 45 mila anni fa. Ma in Europa esisteva già una razza umana: quella dei Neanderthal, arrivati anch’essi dall’Africa, ma che erano riusciti adattarsi al clima europeo. I Sapiens arrivarono in Europa seguendo i corsi dei fiumi, in particolare risalendo il corso del Danubio dalla foce sul Mar Nero. Si stabilirono nelle zone libere già dai ghiacci, in Europa meridionale, e incontrarono i Neanderthal, con i quali si incrociarono e probabilmente si scontrarono, mettendo in atto un sorta di ‘pulizia etnica’

Di fatto nel giro di 5000 anni i Neanderthal erano fondamentalmente scomparsi, ma restano le tracce della loro presenza nel nostro DNA; nel genoma di un europeo è presente il dueper cento di DNA neanderthaliano, che non è presente nel DNA dei sapiens africani originari.  Intorno a 14500 anni fa, con progressivo ritirarsi dei ghiacci, cominciarono a migrare verso Nord, creando piccoli stanziamenti.

I Sapiens hanno lasciato almeno un vasto insediamento a Lepenski Vir, sul Danubio, dove vivevano essenzialmente di pesca. Ci vissero per quasi 2000 anni; poi vennero scacciati dagli agricoltori, nel frattempo diventati più potenti.

La seconda ondata migratoria venne dall’Anatolia. Agricoltori anatolici migrarono verso l’Europa. Prima quella sud-orientale poi, ancora una volta risalendo il corso del Danubio sini al centro del continente. Avendo già inventato la navigazione, migrarono anche nel Mediterraneo, verso Sicilia e Sardegna, e il sud d’Europa fino a Portogallo e Gran Bretagna.

Ma i nuovi migranti rimasero una popolazione sostanzialmente separata dalle popolazioni stanziali locali, con le quali avvennero poche commistioni, anche sul piano sessuale. Evidentemente le differenze tra i nuovi migranti e le popolazioni stanziali erano tali da innescare una inevitabile paura dell’altro. Non conoscendo gli usi e i costumi delle due popolazioni, le loro affinità e le loro differenze, non è possibile valutare i motivi di questa presumibile diffidenza.

A questa seconda grande migrazione seguì una pausa che resta un mistero per gli antropologi. Per mezzo millennio non si trova traccia di nuove massicce migrazioni, anzi tutti gli insediati e i progressi realizzati nel corso dei secoli precedenti iniziarono a declinare. Non c’è traccia di carestie, pestilenze o guerre, solo un silenzio che durò circa 500 anni. Una pausa, un lungo sonno.

Infatti fu solo intorno al 3000-2800 a.C., una nuova prolazione proveniente dalle steppe della attuale Russia meridionale e Ucraina centrale, cominciò a migrare verso Occidente. Di trattava di una popolazione nomade, gli Yamnaya. Di essi sappiamo poco: erano molto abili a domare i cavalli, conoscevano la ruota e costruivano carri. Gli studi di paleo genetica hanno stabilito dall’analisi del DNA, una ‘parentela’ con i nativi americani (i cosiddetti ‘pellerossa’), che a loro vota discendevano da popolazioni siberiane. Tracce di questa nuova migrazione sono state trovate in tutta Europa, sino alla Gran Bretagna. Non si comprende bene cosa avvenne; si sa che in pochi secoli, introno a 4500 anni fa, la popolazione europea venne significativa del tutto sostituita da quella dei Yamnaya. La società neolitica dell’Europa venne spazzata via quasi totalmente (sino a stime che parlano del 70-100% in Germania). Cosa successe veramente?

Dopo anni di ricerche la risposta è venuta dai genetisti, che hanno trovato, in sette campioni di ossa, il DNA della Yersinia Pestis, il bacillo della peste. Gli Yamnaya evidentemente convivevano così tanto col batterio da essere diventati praticamente immuni alla peste da esso provocata.

Ma i gruppi di agricoltori e pastori europei del Neolitico immuni non lo erano. Un’epidemia di peste, dunque, spopolò l’Europa del Neolitico, rispandiamo solo i nomadi di questa terza ondata? E’ possibile, ma è solo una ipotesi, per quanto attendibile.

Di fatto la migrazione degli Yamnaya portò al suo seguito una serie di grandi innovazioni, comprese i primi utensili e le prime armi di metallo, che avrebbero anticipato l’età del bronzo. Ma non solo: introdussero anche una nuova lingua quella indoeuropea, miscuglio di centinaia di idiomi, ma tutti provenienti da uno protoidioma. Insomma, la razza pura europea non esiste, e gli europei siamo solo il prodotto di un migliaio di geni provenienti dall’Africa, dall’Anatolia, e dalle stesse russe. La distribuzione genica varia in percentuale: i geni Yamnaya sono più diffusi in Scandinavia, quelli dei contadini in Spagna e in Italia, quelli dei cacciatori raccoglitori nell’Europa Orientale. Ma di razza pura europea nemmeno a parlarne.

Le grandi migrazioni, gli esodi di grandi popolazioni non si fermarono ovviamente alla preistoria. Per millenni i popoli hanno continuato a migrare. Per esempio basti ricordare l’esodo dell’intero popolo ebraico in fuga dall’Egitto guidato da Mosè verso la Terra Promessa (da cui l’espressione ‘esodo biblico’.  Senza entrare nei dettagli localistici, basti pensare all’Impero Romano d’Occidente.

In realtà la stessa storia di Roma è una storia di migrazioni. Nel mito è Enea, un profugo da Troia, un migrante che aveva dovuto abbandonare la madre patria dopo la distruzione della città da parte degli Achei. Arriva con una nave (possiamo immaginarlo come un barcone dell’epoca), portandosi dietro parenti e amici, compreso il vecchio padre Anchise. Viene accolto dalla popolazione locale, sposa Lavinia e da origine ad una nuova stirpe, troiana e latina. Suo figlio Ascanio, perfettamente integrato, fonderà Alba Longa e da lì, con una serie di vicende che non sto a narrare, nascono Romolo e Remo, che finalmente fonderanno Roma. Insomma una storia quasi perfetta di integrazione.
E, fedele al mito, Roma fu un grande esempio, dopo avere superato secoli di politica ferocemente coloniale e divenuta un Impero, di integrazione razziale. E non poteva essere diversamente. L’impero era talmente vasto da avere la necessità di utilizzare manodopera, compresa quella militare, per amministrare e proteggere i confini, con la conseguenza, ovvia, che doveva essere aperta a masse di ‘stranieri’ che poi dovevano necessariamente diventare cittadini romani, con tutti i diritti previsti das questo titolo.

Insomma, l’Impero Romano era una entità multietnica, dove convivevano realtà culturali, profondamente diverse fra loro, compresi gli dei che, addirittura, vennero in qualche modo ‘importati’ dalla Grecia. Insomma, era un esempio di società etnicamente e culturalmente aperta che per poter sopravvivere doveva affidarsi a intere popolazioni non romane per cultura, ma per diritto acquisito. Quando l’Impero non fu più in grado di integrare gli stranieri, i ‘barbari’, non tanto per motivi economici quanto forse per la dabbenaggine e la politica miope degli imperatori del tardo impero, dovette subirne l’invasione per il semplice fatto che le migrazioni dei popoli non possono essere fermate. Ma anche in quel caso gli straripamenti di intere popolazioni ‘barbariche’ oltre i confini dell’Impero, crearono le premesse per l’inizio del Medioevo e, successivamente, per la nascita degli Stati europei nazionali e quindi dell’Europa, più o meno come oggi la conosciamo.

I flussi migratori hanno pertanto da sempre caratterizzato la storia dell’uomo, provocati sempre da guerre, carestie, crisi economiche e non da semplice curiosità. Pensate alla storia delle Americhe, in particolare, ma non solo, dell’America del Nord. Gli Stati Uniti sono nati come prodotto di un enorme flusso migratorio degli europei verso terre che venivano considerate, dopo le esperienze di Colombo e poi dei conquistadores spagnoli Cortez e Pizarro, in Messico e in Perù, luoghi ricchi non solo di oro, ma anche di prospettive. Senza questi flussi migratori enormi gli Stati Uniti non sarebbero mai nati. I migranti hanno rappresentato forza lavoro, creatività, nuove lingue e nuove culture che si sono integrate fra loro, anche se talvolta con difficoltà. Europei (Irlandesi, Italiani, Ispanici, Tedeschi) si sono progressivamente aggiunti agli originari coloni inglesi, partecipando attivamente alle vicende storiche e politiche degli Stati Uniti. Dall’arrivo dei Padri Pellegrini ad oggi, milioni di persone, di etnie e nazioni diverse, anche dall’Oriente e dalle nazioni ispaniche confinanti, hanno varcato quei confini nazionali statunitensi, naturalizzandosi e integrandosi nella società americana. E gli esempi potrebbero continuare, con la Francia o con l’Inghilterra che hanno subito imponenti esodi di popolazioni provenienti dai rispettivi dominions coloniali.

Ma bisogna chiedersi: esiste un limite di saturazione per le nazioni oggetto di queste migrazioni? Sino a che punto, cioè, è possibile integrare l’altro, il diverso e quando si raggiunge il limite di tolleranza di questa integrazione? Credo che una risposta obiettiva non sia possibile, perché man mano che l’integrazione si mostra efficace la persona integrata diviene parte ‘integrante’ della nuova nazione e quindi non è alieno alla cultura dominante, ne è parte, nel bene e nel male. Tra i discendenti di famiglie italiane emigrate egli Stati Uniti – ed oggetto originariamente – di intolleranza razziale, non è difficile trovare espressioni di razzismo nei confronti di ‘altri’ emigrati. Anziché la solidarietà che affonda le proprie radici in un vissuto comune, viene esercitata l’enfatizzazione della differenza, dell’alterità. Gli Irlandesi, emigrati, detestavano non raramente gli italiani, emigrati anch’essi; e gli italiani, a loro volta, disprezzavano i negri (alle origini migranti forzosamente esodati in America). E via dicendo. Perché?

Perché il senso, la percezione dell’alterità, di ciò che è in qualche modo diverso da noi è talmente forte, talmente strutturata da non fare i conti con la storia, né personale né sociale. Ed anche questo comportamento è determinato dalla cultura dominante, in questo caso da quella Occidentale. E l’etnocentrismo e il pregiudizio culturale ne sono purtroppo parte integrante. L’immissione all’interno delle frontiere del mondo occidentale di milioni di diseredati delle più diverse culture ha avuto un effetto implosivo devastante e, soprattutto, del tutto nuovo, persino, come abbiamo già detto, per nazioni (come la Francia o l’Inghilterra o la Spagna) che avevano, a causa di una antica tradizione coloniale, una buona abitudine alla convivenza con vaste comunità di immigrati. Sarebbe il caso, invece, di riflettere maggiormente sul concetto di multi culturalità e sull’arricchimento psicologico e sociale che essa comporta, magari riflettendo su una frase del filosofo medioevale Ugo di San Vittore: “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”.

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