Culture e follia: i modi sociali di impazzire

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La contrapposizione tra natura e cultura è stata uno dei temi centrali della riflessione filosofica occidentale moderna, specialmente nel campo delle scienze umane e in particolar modo di quelle psicologiche. I termini del dibattito potrebbero essere comodamente riassunti dalla domanda: cosa, nella struttura psicologica normale, e nelle sue espressioni patologiche, è dovuto alla natura, a fattori biologici, e cosa invece è dovuto alle influenze dell’ambiente, della società, in breve della cultura?

A occuparsi di questo complesso problema troviamo impegnati alcuni tra i più grandi pensatori occidentali; da Voltaire, che sosteneva che nel selvaggio era ravvisabile la natura nella sua espressione migliore, poi contaminata dalla cultura, a Freud, per il quale, al contrario, ogni individuo, indipendentemente dalla propria cultura, aveva un proprio “bagaglio” istintuale, e quindi biologico, che ne condiziona la struttura psichica, sia nelle sue forme normali che in quelle patologiche.

Uno dei campi nei quali la battaglia tra queste due correnti è stata più forte è stato proprio la psicopatologia. La malattia mentale, cioè, dipende dall’individuo o dall’ambiente? E, comunque, in che misura dall’uno o dall’altro fattore?

Una delle aree di studi da questo punto di vista più affascinante è senz’altro quella della psicosi, la follia comunemente intesa. E il suo fascino consiste nel fatto di fornire le coordinate di un universo ancora sconosciuto: quello del concetto di normalità.

Ogni cultura crea e stabilisce dei modelli che le sono propri per identificare cosa sia normale e cosa non lo sia. I modelli dipendono da una serie di fattori, storici e sociali, ma, quando sono fondati, essi divengono una norma inalterabile. Per cui ci sono anche modi “corretti” per comportarsi da folli.

Normalità e convenzione

Questo non vale solo per il comportamento sociale o per gli insegnamenti etici, bensì anche per la distinzione di ciò che è normale da ciò che non lo è. In campo psichiatrico questo si è sempre verificato; in ogni epoca storica, a ben pensarci, sono stati imposti tre tipi di modello: il primo riguardante ciò che può essere definito salute, il secondo ciò che deve essere definito malattia, il terzo che regola le modalità in cui l’anormalità deve essere espressa. In altri termini, è stato sempre sancito ciò che è normale, ciò che è anormale e ciò che è deviante o patologico.

Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Nell’Ottocento la masturbazione era colpevolizzata e curata, così come venivano proposte teorie per la cura dell’omosessualità (che solo nel 1990 è stata depennata dall’elenco delle malattie mentali considerate tali dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Nel Medioevo le isteriche dovevano essere per forza delle streghe, mentre agli inizi del ‘900 si erano trasformate in donne sessualmente insoddisfatte, e magari con l’invidia del pene.

Georges Devereaux, che a questo problema ha dedicato una serie illuminante di studi etnopsichiatrici, dice: «Al tempo di Charcot, si faceva correntemente la diagnosi di isteria giacché tale era la nevrosi etnica tipica dell’epoca, la nevrosi alla moda cioè il modo “conveniente” di essere anormale. Ora, siccome le persone disturbate hanno la tendenza a manifestare i loro conflitti interni nelle forme prescritte dalla società, la maggioranza dei nevrotici all’epoca di Charcot si comportava istericamente, mentre oggigiorno è corrente vedere nevrotici leggeri comportarsi intermittentemente come schizofrenici, o come personalità schizoidi».

Insomma, la cultura sancisce anche le modalità espressive di un disturbo, secondo “regole” ben precise rigorosamente codificate. L’esempio più eclatante è proprio quello della “follia”. Il problema non è solo quello di stabilire cosa sia la follia, ma “come” un folle debba comportarsi.

Per la nostra cultura la follia ha espressioni stereotipate: il folle è uno che sragiona, che è irrazionale, che ha atteggiamenti tra il ridicolo e il grottesco. Naturalmente a tutte queste caratteristiche corrispondono dei “segni” precisi che sono stati codificati dalla psichiatria occidentale.

Il matto deve comportarsi così per poter essere definito tale, e nel contempo chi si comporta in questo modo non può che essere definito folle. «L’individuo colpito da disturbi psichici tende a conformarsi strettamente alle norme del comportamento “appropriato al pazzo” vigenti nella società in cui vive», scrive Deveraux.

Così, nella società occidentale, il matto ha un comportamento tipico. Non così in altre culture, dove esistono tutta una serie di espressioni della “pazzia”: i disturbi etnici, ovvero le espressioni “socialmente consentite” del disagio psichico. Ciascuna area culturale e forse ciascuna cultura, possiede almeno uno e spesso molti disturbi caratteristici di questo genere.

Ma cosa sono i “disturbi etnici”? Si tratta di manifestazioni sicuramente psicopatologiche, modalità di comportamento anormali, con connotazioni culturali specifiche, sancite cioè, dalla propria cultura di appartenenza. Dal punto di vista della psichiatria occidentale, e anche dell’uomo medio, si tratta di forme di follia; dal punto di vista delle culture nelle quali tali disturbi sono diffusi, si tratta di qualcosa d’altro, per indicare le quali il termine “follia” è sicuramente il meno appropriato. Potrebbero essere definiti i modi “corretti” di comportarsi da folli.

Licenza di uccidere e impazzire

Nell’arcipelago malese, un particolare tipo di disturbo psichiatrico è ciò che gli etnopsichiatri definiscono la corsa dell’amok. Ovviamente non si tratta di una competizione sportiva. Di fronte a gravi problemi che appaiono irrisolvibili, il giovane malese ha una sola possibilità fornitagli dalla cultura. E cioè iniziare una corsa, reale, non metaforica, disperata, armato di un kris (il micidiale coltello serpentino), durante la quale è “costretto” a uccidere tutti coloro che incontra, sino a quando non sarà egli stesso ucciso.

La costrizione è naturalmente intrapsichica, ma anche etnico-sociale: è quello l’unico modo in cui di fronte a certe difficoltà esistenziali è lecito impazzire. La cultura malese non conosce altri modi accettabili, e il corridore di amok sa perfettamente che la ‘crisi’ sarà l’unica soluzione possibile per dimostrare che è andato fuori di senno.

Ovviamente, per questo come per altri disturbi psichiatrici, si tratta di una risposta che determinate personalità con struttura patologica, forniscono in specifiche situazioni esistenziali in base a un modello culturale. Insomma, non tutti i giovani malesi in crisi si mettono a correre l’amok così come non tutti i giovani occidentali in crisi diventano schizofrenici…

La corsa dell’amok era un fenomeno tanto diffuso da avere influenzato in diversi modi la stessa cultura. Nella sua crisi il “folle” uccideva chiunque gli si parasse davanti, e tanta era la furia del suo accesso di follia che, quando era colpito da una lancia, si portava in avanti, lasciandosi trapassare da parte a parte, pur di avvicinarsi abbastanza al suo avversario e ucciderlo a sua volta. I malesi avevano allora inventato delle speciali lance munite di due ferri che si incrociavano a angolo acuto per impedire al corridore di amok colpito di avvicinarsi troppo all’avversario.

La corsa folle dell’amok era diffusa anche presso i Moro, una popolazione delle Filippine, dove comunque era nota col nome di juramentado. L’individuo che sentiva di dovere “impazzire” chiedeva il permesso ai genitori, si faceva stringere in un corsetto e adoperava tutti i mezzi disponibili per scatenare una crisi. Il juramentado coperto dal robusto corpetto antiproiettile, riusciva a continuare la sua corsa anche se colpito da un proiettile calibro 38, quello delle pistole in dotazione ai militari americani di stanza nelle Filippine.

Si racconta che sia stato per questo motivo che i militari americani abbiano sostituito quel tipo di arma con la più potente calibro 45, che atterra l’uomo colpito anche se lo ferisce in modo lieve.

I malesi sapevano perfettamente cosa significasse la corsa dell’amok. Il loro grido “amok, amok” equivaleva a un segnale di pericolo, più o meno come la sirena del mondo occidentale. Il corridore di amok cerca la morte gloriosa nella sua follia, l’unica che gli sia concessa dalla sua cultura.

La crisi di amok può scaturire da tutta una serie di condizioni: da un delirio febbrile, dalla ripetizione di un insulto, dalla sottomissione agli ordini severi di un superiore nella scala gerarchica, da una depressione reattiva e persino dal fascino esercitato dal kris in una sorta di rituale autoipnotico che anticipa la crisi di amok.

Perché allora reagisce in questo modo anche a stimoli apparentemente poco importanti, o perlomeno reagisce “in questo modo”? la risposta sta proprio nel carattere della sua cultura. È il carattere etnico, secondo Deveraux, che decide quale debba essere la reazione individuale a un trauma. Proprio come le donne isteriche all’epoca di Charcot.

E, nel caso del corridore di amok o del juramentado, questo sembra dimostrato da un particolare storico. Il modo “classico” per mettere fine a una crisi di amok, nella cultura malese, era quello di uccidere il corridore. La crisi era infatti fondata sul desiderio di una morte gloriosa. Gli olandesi, nel tentativo di porre un freno a queste manifestazioni, utilizzarono invece uno stratagemma: rifiutarono al corridore di amok la morte gloriosa che questi cercava. Quando catturavano i corridori di amok, li condannavano ai lavori forzati. Sembra che questo stratagemma abbia diminuito notevolmente la frequenza della crisi.

Etnostorie di ordinaria follia

La corsa dell’amok non è solo manifestazione di quel gruppo di disturbi etnici che la scuola psichiatrica francese definisce reazioni aggressive cerimonializzate. Un’altra forma, assai antica, è quella del bersek, diffusa tra le popolazioni Vichinghe. Essa consisteva in una crisi improvvisa di frenesia guerriera, che rendeva il berseker un guerriero dalla temibile furia. D’altra parte manifestazioni simili all’amok o al bersek degli antichi scandinavi sono state osservate e descritte anche nei popoli fuegini.

Presso i Crow esisteva qualcosa di simile, la “sindrome del Cane-pazzo-che vuole-morire”. In quella cultura, di fronte a una grande delusione o comunque un grosso trauma psichico, l’individuo poteva reagire solo in questo modo, con questa specifica forma di follia. Diventava, cioè, un Cane-pazzo-che-vuole-morire, un guerriero dal coraggio temerario che si recava in battaglia soltanto con uno scudiscio e un sonaglio, alla ricerca di una morte gloriosa. Nello stesso tempo egli diventava pericoloso per la sua comunità, a causa del suo comportamento irrazionale e aggressivo.

Si tratta di una “psicosi etnica” che, in questo caso, era da un lato codificata dalla cultura (era l’unico modo di diventare pazzo in maniera rispettabile), dall’altro era controllata dalla stessa. E, naturalmente, era pienamente accettata. La cultura Crow riservava uno spazio preciso, nel suo dispositivo militare, al Cane-pazzo, sebbene questo non fosse di alcuna utilità tattica o strategica, ma anzi, data la sua irrazionalità, potesse addirittura danneggiare il dispositivo bellico.

Naturalmente, per diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire, occorreva rispettare certe regole, quelle mediante le quali la cultura Crow stabiliva quali traumi psichici fossero degni di indurre la follia. Lo stress, in altri termini poteva ricevere una risposta “irrazionale”, ma andava vissuto in maniera convenzionale. Solo se la “delusione insopportabile” del Crow rientra nello schema convenzionale conveniente, il guerriero Crow può diventare un Cane-pazzo-che-vuole-morire. La delusione, il trauma o la frustrazione “insopportabile” per quella cultura.

Solo in questo caso il Cane-pazzo si comporta conformemente ai modelli sociali della sua gente, e viene rispettato per questo. Altrimenti, se mancano tali condizioni, il Crow diviene pazzo in un modo qualsiasi, non convenzionale, e quindi non riconosciuto.

Se per esempio un uomo della tribù doveva “semplicemente” rinunciare alla propria moglie, pur essendo un trauma che, da una prospettiva occidentale, poteva condurre a un comportamento “folle”, non si trattava, per i Crow, di un trauma tale da poter giustificare un comportamento da Cane-pazzo. In questo caso, il Crow sarebbe stato disprezzato dal suo popolo, perché era impazzito per motivi che non rientravano nella giusta categoria. Infatti la sua cultura si aspetta che un uomo che deve rinunciare alla propria moglie, per quanto possa amarla, reagisca con flemma. Era riconosciuto, invece, ad esempio, il trauma psichico dovuto alla frustrazione dell’ambizione di diventare capo.

La crisi poteva essere momentanea. Se, prima che le foglie ingiallissero, Cane-pazzo non trovava la morte sul campo di battaglia, il suo comportamento poteva cessare. Nello stesso tempo, la sua cultura  aveva dei modi specifici di controllare questa forma di psicosi: il comportamento del Cane-pazzo era sostanzialmente irrazionale, negativistico. Per controllarlo, bastava allora che gli dicesse di fare esattamente il contrario di quanto si voleva che facesse.

Un altro esempio eclatante di psicosi etnica è senza dubbio il windigo, rivelato nelle tribù indiane canadesi degli Algonkini e tra gli esquimesi. Si tratta di una particolare forma di disturbo mentale, nella quale a una forma grave di anoressia e nausea, si associa un desiderio irrefrenabile di mangiare carne umana, che talvolta conduce a veri e propri episodi di cannibalismo. Talora i soggetti colpiti provano tale orrore del loro stesso desiderio da chiedere di essere uccisi. Questa manifestazione psicotica è basata sulla convinzione che il malato sia posseduto dallo spirito di un cannibale gigante.

Impazzire secondo cultura

Qual è il significato di queste manifestazioni psicopatologiche esotiche? Cosa dimostrano, e cosa suggeriscono al medico e alla psichiatria occidentale?

Una delle caratteristiche salienti della psichiatria occidentale moderna è stata la “standardizzazione nosografica” dei disturbi psichiatrici. Le malattie mentali, cioè, sono state considerate come malattie biologiche, e classificate con criteri farmacologici e naturalistici. Questo, da un punto di vista scientifico, è sicuramente esatto, ma non deve rappresentare l’unico parametro di valutazione. Esiste infatti, parallelamente a questo criterio, un criterio “culturale” che è di importanza fondamentale nelle psichiatrie tradizionali. E l’importanza obiettiva di questo criterio è dimostrata proprio dai disturbi etnici.

Certamente non si tratta di forme di malattia psichiatrica tipiche dell’Occidente. Anzi, sarebbe impensabile che simili manifestazioni psicotiche avessero un senso nel mondo occidentale, e questo non perché episodi simili alla corsa dell’amok o al Cane-pazzo-che-vuole-morire non si siano mai verificati. È a tutti noto come di tanto in tanto si verifichino esplosioni di follia omicida, e non nelle giungle malesi, ma nelle moderne metropoli. Ma si tratta di qualcosa di diverso. Il malese o il Crow o l’algonkino, sono infatti, con le loro manifestazioni psicotiche, perfettamente coerenti con la loro cultura. Anzi, in qualche modo ne sono vittime: è infatti la tradizione culturale, l’anima etnica del loro popolo che emerge in queste manifestazioni, cancellando o annullando le loro personalità individuali.

È come dire: ciascuno impazzisce secondo la propria cultura. Le donne di Charcot, il guerriero Crow che non può diventare un capo, o il malese che ha subìto un trauma psichico, si limitano a “impazzire” secondo i modelli della loro cultura.

Ma è proprio questa semplice considerazione che deve indurre a una riflessione sul significato sociale della normalità e della follia. In ogni società esiste un concetto statistico di norma, e di questo ci accorgiamo facilmente. Ma ogni società racchiude in sé, anche in senso storico, una serie di norme per impazzire in maniera socialmente accettabile. Anche se potrà sembrare semplicistico, potremmo affermare che il tessuto sociale stabilisce non solo per “cosa” è lecito impazzire, ma anche in che modo ciò possa avvenire.

Allo stesso tempo, ogni società ha in sé modalità di controllo e di cura, che si rifanno al modello culturale adottato dal paziente, e “appreso” dalla società. Le implicazioni per la terapia e la comprensione della malattia mentale sono evidenti. Sebbene con ciò il dibattito natura-cultura non possa certamente ritenersi chiuso, è evidente che di questo tutte le scienze mentali occidentali moderne, così come già avviene nei sistemi psichiatrici tradizionali, devono tener conto.

Giovanni Iannuzzo

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