Sulla natura della rabbia e sulla sua relazione con l’aggressività esistono da sempre in psichiatria delle forti perplessità, dovute alle definizioni stesse di entrambi i concetti. Non sembra esistere infatti una definizione specifica della rabbia (forse solo sul piano letterario), mentre esiste molta confusione sulla sua identificazione con l’aggressività. Questo implica ovviamente un notevole livello di confusione sulle differenze fra pulsioni aggressive e rabbia. Come scrive Fromm in “Anatomia della distruttività umana”: “l’uso equivoco della parola ‘aggressione’ ha creato grande confusione nell’abbondante letteratura esistente sull’argomento. Il termine è stato applicato indiscriminatamente al comportamento dell’uomo che difende la propria vita in caso di attacco, del bandito che ammazza la sua vittima per procurarsi denaro, del sadico che tortura un prigioniero. Ma la confusione va ancora oltre: il termine è stato usato per definire l’approccio sessuale del maschio alla femmina, o a un venditore, è applicato persino al contadino che ara la terra”.
In realtà rabbia e aggressività sembrano configurarsi come atteggiamenti diversi, non a caso Fromm inventò il termine di distruttività per caratterizzare tutti quegli eventi dettati dalla collera, dall’ira, dall’irragionevole violenza per distinguerla da un’aggressività che può essere anche sana. La rabbia insomma sembra essere connessa ad un eccesso di immotivata aggressività, un cortocircuito fra la nostra capacità di gestire gli impulsi e la loro aderenza alla realtà esistenziale e sociale.
Una delle definizioni più suggestive è forse quella di Storr che definì l’aggressività come “parola valigia” quindi piena di significati molto diversi tra loro, che attraversano una linee di confine estremamente sottili, per cui un criminale che violenta una donna e la fa a pezzi, mettendola in valigia, sembra avere la stessa dignità di un uomo che difende la propria vita o i propri beni in caso di attacco oppure di una persona malata che elicita in sé stesso una emozione reattiva ad un evento frustrante. Tutto e il contrario di tutto, insomma. Questa confusione si rileva persino nel famoso Dizionario di psichiatria di Hinsie e Kampbell laddove alla voce rabbia specificano “furia; ira intensa e violenta.” rimandano alla voce aggressività che nello stesso dizionario non è contemplata. Il problema di fondo, secondo me, è che invece una distinzione andrebbe fatta e molti esponenti della psicologia dinamica l’hanno fatta probabilmente senza rendersene, in massima misura, conto. Rabbia e aggressività sembrano profondamente diverse la prima essendo una normale reazione di adattamento, la seconda avendo aspetti distruttivi come quelli enfatizzati da Fromm. In effetti basta valutare l’etimologia della parola aggressività per capire quanto facile sia la confusione. Essa deriva dal latino: ad = “verso, contro, allo scopo di” e gravior = “vado, procedo, avanzo”. Il problema è capire avanzo verso cosa?, avanzo allo scopo di far cosa?, avanzo contro chi?. Ed ecco che nel valutarne la finalità, aggressività e rabbia assumono connotazioni diverse: mentre l’aggressività sembra finalizzata a tendenze difensive, la rabbia sembra finalizzata a tendenze distruttive. Quella linea di confine tra queste due espressioni comportamentali è estremamente confusa, con varchi di frontiera non vigilati. Per spiegare questa differenza fra aggressività e rabbia, implicitamente, dovette inventare una autonoma pulsione di morte, che precorse il concetto di “distruttività umana” di Fromm. In una prima fase, infatti, Freud ipotizzò una pulsione etero-distruttiva, poi quella di una aggressività come reazione ad una frustrazione. L’odio, la rabbia non vengono considerati un genetico bisogno di arrecare dolore ma conseguenza del desiderio di sconfiggere e allontanare ciò che provoca dispiacere.
L’aggressività umana viene ritualizzata, anche nei conflitti bellici. In numerose culture si sono sviluppate apposite regole di combattimento. Tra queste il riconoscimento della sottomissione mediate il risparmio della vita del vinto. Tale regola presuppone fiducia reciproca. Il vincitore ha bisogno di sapere che il vinto si atterrà alle regole del trattato mentre il vinto, a sua volta, dovrà avere la certezza di non essere sottoposto ad atti terroristici o di spoliazione. Un esempio classico di questa ritualizzazione è quello dei Pellerossa. Nelle guerre fra diverse tribù, peraltro guerre abbastanza frequenti, il combattimento era altamente ritualizzato: per vincere un combattimento bastava che un guerriero toccasse l’avversario con un bastone. L’altro si arrendeva e sapeva che sarebbe stato soggetto a ritorsioni. Questo comportamento divenne ampiamente problematico con gli inizi delle guerre indiane provocate dai bianchi europei che non usavano tecniche di combattimento tanto cavalleresche e reagivano al ‘toccamento’ col bastone con pistole, fucili, sciabole e anche ben altro (qualche storico suggerisce proprio che agli inizi della disfatta dei Pellerossa questo sia stato uno dei motivi delle disastrose sconfitte militari da essi subite).
C’è da chiedersi, allora, se in una società come quella attuale, che definirei una ‘società dell’agire’, esistano ancora forme di ritualizzazione della rabbia/aggressività. In realtà esse esistono, del tutto incolpevoli in apparenza. Per esempio il riso. Molti animali sociali minacciano un estraneo o anche un animale del proprio branco mostrando i denti ed emettendo ritmicamente versi di minaccia; ambedue gli elementi sono ancora contenuti nel nostro riso, che è, indubbiamente, fortissimamente motivato in senso aggressivo; si ride di qualcuno, si deride qualcuno, spesso in gruppo. D’altra parte, espressioni come l’ironia o il sarcasmo non sono altro che odio ritualizzato.
Adler, Freud e Lorenz hanno spiegato la spontaneità dell’aggressività con l’ipotesi di un istinto aggressivo innato: l’ipotesi, come si è detto, ha molti punti a suo favore e spiega anche la nostra stupefacente inclinazione all’aggressione collettiva. Quanto minori occasioni abbiamo di consumare nella vita quotidiana questa pulsione, tanto più pronti siamo a rispondere a stimoli scatenanti dell’aggressività. Una situazione di stimolo scatenante molto efficace è la vera o immaginaria minaccia nei confronti del proprio gruppo: essa scatena profondi fatti emozionali, e demagoghi di ogni tempo hanno saputo risvegliare questa specie di eccitazione e volgerla ai loro fini. L’aggressività, poi, viene attivata anche quando viene impedita (frustrata) la soddisfazione di un bisogno”. Esiste insomma una differenza fra comportamento e atteggiamento; per la lingua inglese, il ‘comportamento’ è ‘aggression’, il temperamento è ‘aggressiveness’.
L’aggressività e l’odio scaturiscono pertanto non da un originale bisogno e desiderio di arrecare dolore, quanto piuttosto dal desiderio di allontanare e respingere ciò che è, in qualsiasi forma, occasione di dispiacere: Come scrive Freud, “L’Io odia, aborrisce, perseguita con l’intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione”. Freud poi cambierà idea, il che sembra dovuto all’impatto travolgente della Prima Guerra Mondiale, conflitto nel quale perse anche un figlio. Si radica quindi l’idea che esista una pulsione aggressiva originaria; gli impulsi malvagi farebbero cioè parte della stessa natura umana. Nell’indimenticabile Il disagio della civiltà affermerà che le pulsioni sono essenzialmente disadattive e che la loro repressione è fondamentale per la costruzione stessa della civiltà. La civiltà è pertanto costruita sulla inevitabile repressione degli istinti aggressivi, legati ad un istinto di morte (Thanathos).
Molti altri autori hanno riflettuto sull’aggressività, da Adler, ad Hartmann, ad Anna Freud, a Melania Klein, e altri ancora.
Onorare la propria rabbia
Un interessante concetto è quello del poeta americano Robert Bly che si riferisce al concetto Junghiano di Ombra, l’archetipo della parte oscura del Sé, nel quale releghiamo tutti gli aspetti della personalità che rifiutiamo, o riteniamo socialmente in desiderabili, un deposito degli istinti indesiderabili o potenzialmente incontrollabili. Ne possono ovviamente far parte le parti più oscure del nostro essere nel mondo: l’odio per il diverso, l’egoismo più sfrenato, la difesa ad oltranza del proprio status, o della propria etnia, o della propria nazione. Parti solitamente che rinneghiamo, vanno troppo al di fuori della nostra pretesa di essere persone ‘perbene’. Affascinato dal pensiero junghiano, Bly elaborò una metafora che val bene citare: “appeso alle nostre spalle, ognuno di noi porta con se un invisibile sacco in cui ha imparato a mettere tutte le parti di se stesso non gradite ai propri genitori, per evitare di perdere il loro amore”. Si tratta di un atteggiamento che, se appreso già nell’infanzia esso continuerà per tutta la vita sino a rendere questo fardello, in qualche modo para-fisiologico, se non fisiologico, insostenibile, riducendo pertanto la nostra energia psichica. Sotterranei dell’anima dove, come scriveva Jung, la rabbia è padrona di casa. Bisogna allora, dice Bly, ‘onorarla’, non certo in un generico senso etico, ma nella consapevolezza di non doverla negare, di affrontarla di imparare a gestirla. Reprimerla non serve: ciò impedirebbe alla nostra Ombra di entrare in contatto con la propria sfera emotiva più intima, a consapevolizzare i nostri sentimenti e a comunicarli in modo efficace. Ciò non significa che la rabbia vada lasciata libera di esprimersi in modo incontrollato. Questo può originare comportamenti asociali o anti-sociali di cui purtroppo in questo momento storico abbiamo ampia evidente, oltre a essere fonte di patologica. L’esplosione di rabbia si impara, sin dalla prima infanzia e crea in qualche modo una vera e propria ‘addiction’: tema questo che si ricollega, sul piano psicologico, ai problemi derivanti o meno dall’educazione permissiva. Se io imparo a fare esplodere sempre e senza controllo la mia rabbia in qualsiasi condizione di frustrazione non diventerò mai un essere sociale. Esiste una differenza, invece sostanziale, fra ‘esplosione’ ed ‘espressione’. L’espressione appare così come una via di mezzo fra repressione ed esplosione. Esprimere la rabbia, senza lasciarsene travolgere – come purtroppo oggi spesso accade – implica prendere coscienza della sua esistenza, verbalizzarla se possibile, valutarla criticamente nell’ambito delle proprie capacità di adattamento e porvi un limite; chiederci pertanto “(cosa posso fare per stare meglio? cosa mi servirebbe per non provare più quest’emozione negativa? cosa posso cambiare?). E’ ovvio che la gestione della rabbia implica una molteplicità di variabili che implicano l’azione di famiglie, agenzie educative e sociali che, sin dall’infanzia educhino a tale gestione emozionale. Educhino, cioè al fatto che tutti proviamo rabbia, ed è giusto così. Ma dobbiamo anche tenere a mente che la rabbia è fuoco da spegnere, è incendio da domare perché, così, domeremo l’infelicità, nostra e altrui, che l’alimenta, sino a dominare la vita. Forse dovremmo sorridere di più, essere più tolleranti nei confronti degli eventi della vita, più comprensivi e accettanti. Insomma, semplicemente più autenticamente umani…