Sessualità australe: significato e funzione di alcuni comportamenti delle popolazioni oceaniche

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I mari del Sud sono sempre stati uno dei luoghi più ambiti nell’immaginario dell’uomo occidentale medio. Isole incantate, spiagge incontaminate, donne belle e disponibili, sessualità disinibita e innocente: un paesaggio ideale per una cultura severamente coartata come quella europea del diciannovesimo secolo, o per quella turbinosa e stressante del ventesimo. D’altra parte, a incarnare questo mito sono stati anche personaggi di primo piano nel mondo culturale e artistico europeo: basti pensare a Paul Gauguin, che trascorse nel paradiso incantato delle isole Marchesi gli ultimi anni della sua vita, trovando in quei luoghi quell’eden che aveva sempre cercato.

Oppure, senza scomodare artisti ribelli, si pensi alle sequenze de L’ammutinamento del Bounty per ritrovare intatte quelle atmosfere di libertà e di promiscuità sessuale che hanno da sempre affascinato la nostra cultura.

Ma cosa c’è di vero in questa “mitologia del sesso australe”?

Mito e realtà

Qualcosa di vero, sicuramente c’è. Per esempio il fatto che nelle culture di quelle latitudini esiste in genere una grande tolleranza verso la promiscuità sessuale prematrimoniale. Questo naturalmente non significa che la promiscuità prima del matrimonio sia una norma sociale, ma soltanto che esiste una tolleranza nei confronti di questo costume di gran lunga maggiore, sicuramente, che nella società europea di fine ottocento o della prima metà del nostro secolo.

Spesso, però, esistono delle condizioni obiettive che rendono la promiscuità impossibile: uno dei fondamentali è, per esempio, il tabù dell’incesto. Nel 1951, nell’atollo di Raroia, nelle Tuamotu, esisteva una popolazione di sole 109 persone, delle quali facevano parte nove donne in età matrimoniale. Si osservò che per ben sette di esse i rigidi tabù sessuali legati all’incesto proibivano qualunque rapporto con qualunque altra persona dell’isola! Paradiso sessuale solo in teoria, quindi, ma nella pratica il discorso è diverso.

I primi esploratori che vennero a contatto con quelle zone furono sicuramente stupiti e deliziati soprattutto dalla mancanza di pudori nell’esibire il proprio corpo da parte delle donne, che mostravano pubblicamente e con semplicità agli stranieri molto più di quanto le loro mogli avrebbero probabilmente mai mostrato in cinquant’anni di vita matrimoniale. Ma anche questo fatto per quanto vero, non poteva essere considerato così semplicisticamente. In realtà gli etnologi avrebbero successivamente scoperto che si trattava di una tattica politica, un espediente per tenere tranquilli gli stranieri.

A queste manifestazioni di disinibizione sessuale, infatti, potevano prendere parte soltanto le donne per loro stessa natura disinibite, mentre erano precluse quelle di rango sociale più elevato. Talvolta a condizionare questa ostentata libertà sessuale erano anche credenze religiose.

È questo per esempio il caso della società Ariori di Tahiti, composta da uomini e donne che viaggiavano per le isole dei mari del sud, in veste di cantanti danzatori e atleti, e famosi per le loro manifestazioni di esibizionismo sessuale. Ad essi venivano consentite relazioni sessuali promiscue in qualunque posto andassero, ma non perché questa fosse la norma sociale, bensì perché alla base di queste manifestazioni e di questa morale sessuale v’erano delle norme religiose che le giustificavano.

Un’enorme diversificazione di culture

Se questo toglie ogni illusione sui paradisi sessuali dei Mari del Sud induce anche a riflettere sulla difficoltà che si ha a catalogare le differenti pratiche sessuali di una zona geografica che offre, in realtà, un’enorme diversificazione di culture, ognuna delle quali ha modelli di sessualità propri.

Alcuni di essi sono tutt’altro che paradisiaci: in alcune regioni della Nuova Guinea, per esempio, alcuni aspetti della sessualità sono tabù profondamente radicati: è il caso del sangue mestruale, reputato origine di ogni malattia, per cui il contatto con una donna mestruata è ritenuto estremamente pericoloso. Questa visione della donna come ricettacolo del male limita enormemente per esempio i rapporti prematrimoniali, dei quali gli uomini hanno una comprensibile paura. E, dopo il matrimonio, l’uomo viene fornito di tutta una serie di amuleti che lo proteggono dalla contaminazione sessuale.

In questo arcipelago di culture, società e gruppi sparsi in un’area geografica vastissima è però possibile avere una conferma indubitabile della grande variabilità nelle attività sessuali e dei vissuti del sesso. Le tribù australiane sono state sufficientemente studiate da questo punto di vista, e sono state anche oggetto di qualche malinteso etnografico.

Uno dei gruppi che è stato oggetto di questo fraintendimento è la tribù Aranda dell’Australia Centrale. Di essi gli antropologi occidentali dissero che non erano note le relazioni tra attività sessuale e procreazione. Per estensione questa idea fu applicata a tutte le tribù di aborigeni, probabilmente perché ritenuti le popolazioni più primitive del globo, e anche gli abitanti delle isole Trobriand, studiate da Malinowsky. In realtà sembra che si tratti solo di un errore di interpretazione: esiste invece una precisa concezione della relazione di causa ed effetto tra atto sessuale e procreazione, che però sembrava sfuggire agli investigatori occidentali, forse per il modo in cui era posto il quesito.

Certamente esiste una grande variabilità nel modo di vivere il sesso: gli abitanti della Tasmania, per esempio, non conoscono e non praticano il bacio e l’abbraccio, preliminari invece fondamentali nelle culture occidentali. Esistono invece numerose cerimonie che, dal punto di vista occidentale, sembrano del tutto irrealistiche.

Presso gli Aranda esiste, per esempio, una danza rituale detta wuliankura, che ha lo scopo di suscitare nelle donne interesse per i maschi stranieri. Alla fine della danza, la donna dice al marito quale uomo tra i danzatori l’ha maggiormente interessata e il marito fissa un appuntamento tra la moglie e l’uomo prescelto. Non meno insolita è la pratica del gunabibi, un rituale in uso tra i Murngin. Si tratta di uno scambio rituale della moglie, alla quale è d’obbligo partecipare perché altrimenti chi non vi partecipa, e il suo potenziale partner, si ammalano. Il rapporto sessuale rituale ha una funzione purificatrice, catartica e di esso vengono vantate le finalità preventive per ogni sorta di malattia. Durante il gunabibi una donna o un uomo possono accoppiarsi più volte con lo stesso partner o con partner diversi, ed è particolare vanto della donna aver giaciuto con un gran numero di uomini.

A questa vita sessuale pubblica, che sembrerebbe esibizionistica se valutata con i parametri occidentali, fa riscontro una sessualità privata abbastanza casta. La posizione non rituale più comune è per esempio quella posteriore, che è quella abituale dei coniugi di notte. È proprio il pudore a motivare la frequenza con cui viene utilizzata questa pratica: infatti è una posizione che nasconde agli altri quel che sta accadendo.

Pubblico e privato

Eppure in Oceania il sesso ha un grande aspetto pubblico, e cerimonie come quella del gunabibi australiano sono molto diffuse. Esistono anzi dei veri e propri happening, che sono al contempo delle vere e proprie performances sessuali, sebbene sempre nella cornice di una ritualizzazione costante.

Nelle isole Marchesi e nell’isola di Pasqua, per esempio, era consuetudine l’organizzazione di balli a corpo nudo, al termine dei quali gli astanti avevano degli amplessi pubblici, ai quali le donne partecipavano attivamente, nell’intento dichiarato di avere più rapporti possibili.

Un’altra usanza tipica è quella delle “spedizioni sessuali”: gruppi di giovani uomini, o nelle Trobriand anche di giovani donne, partivano alla ricerca di partner sessuali, veri antesignani dei sexy tour che in Occidente sono apparsi una perversione di una moderna sessualità annoiata. Presso i Pakapukan esiste qualcosa di molto simile allo ‘scambio della moglie’, al quale sono addirittura deputati dei luoghi specifici, detti ati, nei quali uomini e donne si recano alla ricerca del partner.

È indubitabile che l’atteggiamento generale verso la sessualità sia molto libero e spontaneo, sebbene alcune manifestazioni siano ritualizzate. La ritualizzazione delle attività sessuali è molto pronunciata anche per quanto riguarda la deflorazione. La maggior parte delle tribù australiane riserva questo atto al marito, dopo che la futura moglie è diventata mestruata.

Talvolta alla deflorazione vengono associate altre due pratiche: la subincisione del pene e l’introcisione, in pratica un allargamento dell’ostio vaginale. La finalità dell’introcisione è sostanzialmente preventiva, nel senso che renderebbe successivamente alla donna più facile il parto. Si tratterebbe, insomma, di una sorta di episiotomia preliminare, la cui utilità è molto discutibile, e che comunque non è diffusa ubiquitariamente. Nel gruppo dei Matuntara è costume che il marito abbia un rapporto sessuale con la moglie subito dopo l’introcisione, perché si crede che ciò favorisca la guarigione della ferita.

È facile constatare come il numero dei costumi sessuali sia notevole e la loro natura estremamente varia. Esiste però una qualche forma di denominatore comune: la considerazione, cioè, della sessualità come di un momento sacro, che finalizza il piacere al conseguimento del benessere fisico e psicologico.

Non sono assenti nemmeno motivi religiosi: il gruppo degli Aranda, per esempio, ritiene che esista uno spirito del sesso, Kraninjia, al quale sono rivolte cerimonie specifiche. È proprio questo spirito ‘sacro’ della sessualità che contribuisce alla sua decolpevolizzazione, e a un vissuto sessuale sostanzialmente sano, e, in qualche modo, ‘ecologico’. Bisogna però evitare di accogliere questo dato di fatto come espressione paradisiaca del sesso: si rischierebbe in questo caso di non cogliere l’altra faccia della medaglia, rappresentata da una serie di costumi sessuali che ridimensionano ampiamente le nostre aspettative.

Da occidentali, con un bagaglio storico sessuofobico, abbiamo la tendenza a soffermarci su quegli aspetti della sessualità che più sono mancati allo sviluppo della nostra cultura. In realtà esiste qualcosa d’altro, che potremmo tendere a valutare negativamente almeno quanto positivamente potremmo valutare la libertà sessuale e la possibilità di godimento delle culture tradizionali oceaniche.

I tabù sessuali

Le popolazioni disperse in Oceania hanno un numero consistente di tabù sessuali, legati a tutta una serie di condizioni non necessariamente riconducibili esclusivamente al sesso, come le mestruazioni o la gravidanza, ma anche alle varie cerimonie o alla guerra. La maggioranza delle tribù ( Aranda, Trukese, Wogeo, Yapese, Kwoma, Lesu) hanno precisi tabù che vietano di avere rapporti sessuali durante le mestruazioni. Esistono anche gruppi dove questo tabù non è praticato, i Tongan, ma si deve ammettere che si tratta di un divieto estremamente diffuso.

Alcuni tabù regolano l’attività sessuale anche durante la gravidanza, e presso i Lesu questo tabù riguarda soltanto la donna e non l’uomo. Gli uomini devono invece rispettare il tabù durante la gravidanza delle proprie scrofe. Non esistono invece norme precise per quanto riguarda l’astinenza sessuale dopo la nascita dei figli, anzi esiste una grande variabilità che va da un periodo di astinenza di due mesi presso gli Apayo, a un periodo di cinque-sei anni presso gli Yapese. Il riverbero sociale e demografico è che presso gli Yapese in effetti esiste in genere una differenza di età di cinque-sei anni tra i vari figli di una stessa madre, indice peraltro del diffuso rispetto del tabù.

Lo stesso avviene presso i Dani, le cui abitudini sessuali sono state studiate attentamente da Heider. I Dani sostengono che durante questo periodo di astinenza non hanno altri tipi di attività sessuale, un fatto che sembra non avere riscontro in nessun’altra cultura, tanto da farlo ritenere ben poco verosimile dagli studiosi dell’argomento.

I nativi delle Trobriand hanno alcuni tabù connessi alla guerra: se un uomo infrange un tabù, andando in guerra una lancia gli trafiggerà il pene e i testicoli. Uno psicoanalista vedrebbe, chiaramente, un’esemplificazione della paura della castrazione, ma è difficile comprendere quanto artefatto possa essere questo modello per la comprensione di una cultura tanto differente da quella nella quale ha avuto origine la psicoanalisi.

Un altro tabù del gruppo Yapese, vieta invece di lavarsi lo stesso giorno in cui si è avuto un rapporto sessuale; in altri gruppi marinari, invece, dopo un rapporto sessuale è rigorosamente prescritto un bagno in mare. Naturalmente il tabù per quanto rigido può essere infranto e i suoi effetti neutralizzati, come accade nella popolazione Buka, che dispone di medicine per annullare ad esempio gli effetti di una violazione di tabù prima della pesca.

Nelle società oceaniche in genere, vi è molta tolleranza per l’adulterio che, per quanto proibito, non è vissuto in maniera particolarmente colpevole. Vi è la convinzione che commettere adulterio causi malattie in particolare a uno dei bambini degli adulteri, oppure l’usanza di confessare l’adulterio per annullare gli effetti dell’infrazione: presso i gruppi Pakapukan e Wogeo se una donna partorisce con ritardo, la responsabilità del fatto è attribuita ai suoi rapporti adulterini che ella è quindi costretta a confessare.

I Trukese per esempio credono indispensabile che il genitore colpevole d’adulterio lo confessi per guarire la malattia del bambino, anche dopo il parto. La regola che connette la malattia a violazioni di tabù sessuali è abbastanza diffusa e riguarda non soltanto i genitori nei confronti dei figli, ma anche l’inverso: un genitore può ammalarsi se il figlio ha infranto un tabù sessuale.

L’impatto della colonizzazione

L’impatto della colonizzazione occidentale ha modificato ampiamente la cultura e le usanze dei popoli dell’Oceania, influenzando necessariamente anche i costumi sessuali. Di cero i modelli di sessualità esistenti in quella enorme regione del mondo appaiono profondamente diversi da quelli occidentali, e diversa appare anche la loro dimensione culturale.

Questo non significa naturalmente che le regioni dei mari del sud fossero davvero quel paradiso del sesso tanto caro alle fantasie dell’uomo occidentale. I dati etnologici però ancora una volta sembrano suggerire quanto possano essere differenti, a differenti latitudini, non solo i modelli ‘pubblici’ della realtà sociale, ma anche quelli privati. La cultura occidentale che ha fatto del sesso oggetto di presuntuose meditazioni metafisiche, morali, e scientifiche potrebbe imparare molto sulla sessualità dalle culture tradizionali dell’Oceania.

Giovanni Iannuzzo

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